Recensione a: Paolo Grossi, Oltre la legalità, Editori Laterza, Roma-Bari 2020, pp. 136, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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All’interno del fitto dibattito giuridico circa l’attualità o meno della norma generale e astratta come regolatrice della totalità dei rapporti tra gli individui, spicca la provocatoria ma autorevole voce di Paolo Grossi, storico del diritto e presidente emerito della Corte Costituzionale; con il suo ultimo volume edito da Laterza, dall’inequivocabile titolo Oltre la legalità, il giurista riordina vecchi scritti ed intuizioni per prendere una netta – e definitiva – posizione contro i due pilastri portanti del vecchio Stato di diritto ottocentesco: il principio della separazione dei poteri e, per l’appunto, il principio di legalità. In particolare, Grossi evidenzia come la cultura giuridica dell’Età dei Lumi abbia condotto ad un assolutismo giuridico rigido e gerarchico, in cui il potere sovrano (e quindi politico) si proponeva come unico detentore del diritto, mentre la società assumeva un non-ruolo di piattaforma meramente passiva. Questo riduzionismo – dalla pluralità di consuetudini, ordini e fonti produttrici di diritto ad un unico soggetto creatore – coincide con la modernità giuridica e lo svilupparsi dello Stato moderno e pone fine al preesistente ordine medievale. «Il principio di legalità era, infatti, sorretto da una sola finalità: la creazione da parte dello Stato di un diritto legislativo espressione della sua volontà, né letto né inventato altrove. Con un ulteriore ed essenziale punto fermo: al di là di questo v’era solo il vasto territorio dell’irrilevanza giuridica, una complessa realtà socio-economica trasformabile in diritto unicamente mediante un atto di volontà dello Stato […] Il principio di legalità realizzava perfettamente il più rigido monismo giuridico e indicava chiaramente l’unico itinerario possibile per arrivare alla creazione del diritto» (pp.21-22).
La prospettiva di Grossi è prevalentemente storica e prende come riferimento tre momenti del diritto continentale: quello del medioevo maturo, che va all’incirca dal secolo XI al XIV, quello dell’assolutismo giuridico poc’anzi accennato e quello della, per citare l’autore, pos-modernità a partire dagli anni Cinquanta del Novecento.
Se nell’epoca medievale il diritto si fondava sul divenire storico delle società, con le consuetudini interpretate dagli scienziati del diritto (giudici, avvocati, notai) e sistematizzate in un vero e proprio ius commune continentale, per i secoli a seguire sarà, come abbiamo visto, il potere sovrano a imporre dall’alto le norme generali ed astratte ritenute più idonee a regolamentare l’esistente; in questo modo, si pensava, sarebbe stato possibile creare un sistema stabile ed organico, capace di debellare quell’incertezza del diritto cui rischiavano spesso di andare incontro i regimi statuali premoderni.
L’affermarsi dello Stato e del principio di legalità – secondo Grossi una sovrastruttura costruita dal ceto borghese per legittimare un ordine giuridico formale finalizzato a proteggere i rapporti economici (proprietà, successione mortis causa) – ha incontrato però negli ultimi decenni, in particolare dal secondo dopoguerra, il limite di una società sempre più complessa e difficile da contenere in codici composti da norme rigide. Inoltre, la nascita delle Costituzioni – per l’autore figlie del pluralismo delle società e quindi di una costituzione materiale proveniente dal basso – ha mostrato la fragilità delle norme generali e astratte e il maggiore peso, dinanzi ad un esistente in continuo divenire, di valori e principii generali per orientare il diritto.
Il principio di legalità rischia quindi di rivelarsi, dinanzi a queste trasformazioni, anacronistico, o quantomeno non sufficiente a cogliere il dinamismo delle società, nonché il pluralismo di fonti, attori e rapporti che le costituiscono; motivo per cui, sostiene Grossi, è possibile trovare alcune affinità tra il sistema medievale dello ius commune e il nuovo sistema comunitario di principii (guidato dalle interpretazioni delle corti costituzionali nazionali e della Corte di Giustizia europea, ad esempio, oppure dai lavori dottrinali di università e studiosi del diritto) che sta andandosi a formare nel Vecchio Continente. «I tratti accomunanti sono i seguenti: realizzazione di una unità giuridica nel rispetto delle diversità ad essa interne; rapporto intensamente dialettico fra unità giuridica e singole diversità; valorizzazione dei giuristi nella produzione del diritto (giacché il diritto è cosa da giuristi e non da politici) e soprattutto della scienza giuridica per la sua capacità di disegnare principii armonicamente accomunanti e tendenzialmente sconfinati» (p.38).
Per quanto concerne il diritto interno, un ruolo fondamentale nel superare il principio di legalità e quello della separazione dei poteri l’ha avuto la giustizia costituzionale, in particolare le sempre più influenti sentenze interpretative della Consulta. Prevista in Costituzione e attivata dopo una fase di ostruzionismo solo nel 1956, la Corte costituzionale è espressione di quella pos-modernità tratteggiata da Grossi in cui la nozione di legalità dovrebbe soccombere alla più attuale nozione di primato del diritto, per cui valori e principii radicati nella società guidano i comportamenti richiamando fonti anche non necessariamente legislative. A livello europeo possiamo invece citare la Corte di Giustizia, fondamentale nel garantire un’interpretazione uniforme del diritto comunitario e una sintesi di hegeliana memoria tra i diversi ordinamenti nazionali.
In definitiva, Grossi auspica un ritorno ad un diritto vivente, formato dal basso e costruito attraverso la giurisprudenza e la dottrina secondo i principii radicati nelle nostre Costituzioni – che rappresentano per l’autore, ricordiamo, il pluralismo delle società. Dinanzi alle obiezioni per cui, superato il principio di legalità e l’ordine della norma astratta, il diritto resterebbe in mano unicamente alla discrezionalità dei giudici, Grossi si difende richiamando le riflessioni del giurista Fabrizio Di Marzio: «quando si discorre di discrezionalità del giudice in tema di clausole generali, dovrebbe sempre puntualizzarsi che questa discrezionalità, da intendersi come discrezionalità interpretativa, non si spinge mai fino a quel punto della creazione della regola da parte del giudice»; in altre parole, l’attività non sarà mai arbitraria ma, al contrario, di ricerca all’interno di un sentire diffuso e condiviso e non sarà inventiva «se non nel senso etimologico di trovare, scoprire cercando».
Nell’analisi sull’attualità o meno del principio di legalità è bene astenersi da azzardate mitizzazioni del sistema medievale dello ius commune: la produzione del diritto dal basso, attraverso consuetudini rielaborate dai giuristi e rispecchianti il divenire storico della società, è sempre stata accompagnata da pericolosi vuoti normativi, abusi di potere, ipostatizzazioni della legge del più forte. L’incertezza intrinseca ad un sistema privo di codici non è da sottovalutare, come sembra ogni tanto fare Grossi; la caoticità che rischia di derivarne è proprio il motivo che ha condotto la cultura giuridica dell’Età dei Lumi ad elaborare il rigido principio di legalità. Detto questo, il punto focale della discussione concerne l’attualità del principio in questione: dinanzi ad una società decisamente più complessa e ramificata rispetto a quella ottocentesca, con sempre più attori riconosciuti giuridicamente, interessi particolari, rapporti intersoggettivi, nonché modalità e mezzi di azione nuovi (pensiamo all’impatto delle tecnologie), è possibile continuare ad affidarsi alle norme generali ed astratte per regolarla? In altre parole, vi è un momento in cui la complessità del reale raggiunge un punto tale da non poter essere più contenuta efficacemente in codici e formule astratte?
Il rischio potrebbe essere quello di inseguire la complessità e l’aumento esponenziale di attori e rapporti con altrettante leggi speciali, regolamentazioni, discipline ad hoc; in questo modo, nel tentativo di mantenere una parvenza di certezza dei rapporti giuridici si condurrebbe l’ordinamento ad un’ipertrofia normativa capace di creare al contrario solo incertezza, confusione tra la disciplina generale e quella eccezionale, tra il codice e le leggi speciali.
Lo sviluppo dell’enorme ingranaggio della modernità potrebbe, in alternativa, condurre i paesi di civil law ad adeguarsi ad alcune pratiche di common law: clausole generali, regolamentazione per principii e ruolo fondamentale dell’interpretazione giudiziale. Forse in questo modo il diritto assumerebbe una veste meno rigida e monista di quella che Grossi ritiene abbiano gli ordinamenti continentali, ma rispecchierebbe veramente il divenire della società o si tramuterebbe in un potere pressoché assoluto del giudice o nella legge del più forte? Quali principi regolerebbero la complessità del reale, quelli delle Costituzioni o, ad esempio, quelli della contrattualistica privata tra i soggetti dominanti?
Le domande sono molte e non presentano facili risposte. Il libro di Paolo Grossi si inserisce in un dibattito stimolante e necessario, nonché sempre più attuale. Le profonde trasformazioni delle nostre società e la sempre maggiore complessità del reale costringono il diritto ad interrogarsi e ad adeguarsi nel modo più efficace ai cambiamenti in atto. In particolare, il diritto continentale, con la sua tradizione codicistica e il principio di legalità, dovrà tracciare un sentiero capace di superare le incognite del futuro: tentare di regolare con la norma generale e astratta la totalità dell’esistente in divenire o affidarsi a clausole generali, principii, interpretazioni giudiziali? Senza dimenticare i compromessi e le vie di mezzo, su questo bisognerà in ogni caso ragionare.