Perché Marx dovrebbe essere studiato dagli economisti
- 04 Marzo 2025

Perché Marx dovrebbe essere studiato dagli economisti

Scritto da Carmelo Ferlito, Stefano Lucarelli

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Lo stato di cattiva salute in cui si trova la conoscenza della storia del pensiero economico è stato posto nuovamente all’attenzione della comunità degli economisti dopo la pubblicazione, alla fine di gennaio, su Il Sole 24 Ore di un appello lanciato da Piero Barucci, già professore presso l’Università di Firenze e Ministro del Tesoro nei governi Amato I e Ciampi. Non si tratta di una boutade. All’appello – che punta a salvare i percorsi dottorali in storia dell’economia – hanno aderito più di duecentocinquanta accademici e tra i primi firmatari vi sono civil servant del calibro di Giuliano Amato, Pierluigi Ciocca, Claudio De Vincenti, Elsa Fornero e Giorgio La Malfa.

L’iniziativa riflette una pericolosa tendenza culturale che segna la nostra epoca secondo la quale gli economisti dovrebbero specializzarsi solo sulle ultime linee di ricerca che caratterizzerebbero la disciplina intesa come un insieme di saperi volto a risolvere il problema della migliore allocazione delle risorse in un contesto di scarsità. L’economics non dovrebbe dunque più essere concepita come scienza del capitalismo, scienza di un particolare sistema economico sociale caratterizzato da possibili conflitti fra punti di vista diversi.

Una delle conseguenze di questa tendenza culturale si intravede in una tesi sostenuta il 13 gennaio all’interno di un interessante articolo di Phillip W. Magness dell’American Institute for Economic Research. Il titolo è emblematico: No, Marx Was Not an Important Economist.

Secondo Magness, che è stato in passato F. A. Hayek Chair in economia e storia economica, nel campo della scienza economica Marx sarebbe «una non-entità per il semplice motivo che le sue teorie non hanno resistito all’esame di altri professionisti della disciplina». Coloro che dichiarano che Marx sia stata una figura preminente nella storia dell’economia, continua lo studioso, non farebbero che rivelare «pregiudizi ideologici senza aggiungere nulla di sostanziale alla disciplina». Ne conseguirebbe che un economista non ha bisogno di studiare il pensiero dell’autore di Das Kapital, e che dunque i corsi di storia del pensiero economico sarebbero superflui.

Si tratta di affermazioni molto forti. Esistono ottime ragioni per sostenere non solo che conoscere la storia del pensiero economico sia indispensabile per la formazione di un economista, ma anche che Marx non sia una figura secondaria nella storia della disciplina.

Sono ragioni condivise anche da studiosi che non possono definirsi a pieno titolo marxiani o marxisti e da onesti cultori della storia del pensiero economico anche nel caso in cui si sostengano tesi contrarie a Marx.

Molti studiosi in effetti concordano sul fatto che l’economia non sia una scienza cumulativa: le conoscenze di oggi non sostituiscono definitivamente le convinzioni di ieri[1]. Allo stesso tempo, non possiamo dire che le conquiste di oggi si basino semplicemente sulle teorie di ieri e le arricchiscano. L’economia è piuttosto una scienza ermeneutica, una scienza delle interpretazioni: gli economisti studiano il modo in cui gli agenti economici interpretano la realtà, generando la realtà economica; e gli economisti costruiscono le proprie interpretazioni su questa realtà economica, sviluppando categorie interpretative, come ad esempio quella degli ordini spontanei o del processo di mercato.

In ogni momento, diverse interpretazioni competono e ciascuna di esse cerca di divenire dominante: esse coesistono e si combattono; il vincitore di oggi potrebbe essere sostituito da una nuova interpretazione domani. Una simile prospettiva, tuttavia, non significa abbracciare né il nichilismo, né il relativismo. Credere in una certa interpretazione significa ritenerla vera mentre altre non lo sono; ma il progresso scientifico comporta che si rimanga aperti non solo alla dialettica tra le interpretazioni confliggenti, ma anche alla possibilità di essere influenzati da prospettive diverse, per rafforzare e migliorare la propria. Un esempio a questo proposito è Axel Leijonhufvud, un keynesiano che rimase costantemente aperto al dialogo con altre tradizioni, come quella austriaca e quella svedese[2].

Lo stesso Keynes, che, come ricorda Phillip W. Magness, considerava Das Kapital un testo economico obsoleto, definisce pregnante l’osservazione di Marx circa il fatto che «la natura della produzione nel mondo reale non è, come gli economisti sembrano spesso supporre, un caso del tipo Merce-Denaro-Merce, cioè inteso a scambiare una merce contro denaro al fine di ottenere un’altra merce. Questa può infatti essere la prospettiva del singolo consumatore, ma certamente non è quella del mondo degli affari, che dal denaro si separa in cambio di una merce soltanto al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo Denaro-Merce-Denaro»[3].

Se, come Joseph Schumpeter, si considera la storia del pensiero economico come «la storia degli sforzi intellettuali che gli uomini hanno compiuto per comprendere i fenomeni economici o, … come la storia degli aspetti analitici o scientifici del pensiero economico», allora lo studio di tutti questi sforzi è importante per un approccio più maturo alla disciplina. E, come sosteneva ancora Schumpeter, la storia di una scienza serve sia come fonte di ispirazione e di comprensione sia come strumento per capire «le vie delle menti umane»[4].

Si può non credere in alcun modo alla teoria del valore-lavoro, alla teoria del surplus o alla spiegazione marxiana delle crisi economiche; tuttavia, ignorarle significa ignorare un importante sforzo ermeneutico sulla realtà economica, uno sforzo che ha ispirato molti. In effetti, sbarazzarsi di Marx significa anche sbarazzarsi del vivace e ricco ambiente intellettuale generato dall’economista tedesco.

C’è di più. Non esser d’accordo con la spiegazione data di un certo fenomeno economico non significa disconoscere il contributo che un certo autore può aver dato alla spiegazione di quel fenomeno. Come sottolineato da Paolo Sylos Labini[5], Marx è stato probabilmente il primo economista a riconoscere che le fluttuazioni cicliche sono un fatto fondamentale nella dinamica capitalistica. In tal modo il pensatore di Treviri ha potuto elaborare una delle prime teorie organiche delle crisi economiche; tale primato è stato riconosciuto non solo da economisti eterodossi che hanno dato un contributo fondamentale all’evoluzione della scienza economica applicata allo studio dei processi di innovazione (come Chris Freeman[6] o come lo stesso Paolo Sylos Labini ad esempio), ma anche da un importante rappresentante della Scuola Austriaca come Murray Rothbard[7].

Per quanto riguarda i cicli economici, inoltre, è all’interno dell’ambiente marxista che sono emerse successive influenti spiegazioni, come quelle sviluppate da Michail Tugan-Baranovskij e da Michal Kalecki. L’interpretazione dell’economista ucraino ha fortemente influenzato economisti di diverse tradizioni come Arthur Spiethoff e Friedrich A. von Hayek[8].

Va inoltre notato che l’ambiente intellettuale marxista è ancora vivo, con articoli, riviste e conferenze. Non si deve cadere nello stesso errore commesso dall’ortodossia neoclassica, secondo cui coloro che utilizzano metodi e interpretazioni diverse sono solo attori minori – se non addirittura inferiori – nell’arena scientifica. Al contrario, un dialogo costante tra le diverse tradizioni teoriche può essere estremamente fruttuoso per la rigenerazione di una scienza in profonda crisi di identità. Ed è significativo a tal riguardo che, a partire dalla violenta recessione internazionale fino ad oggi, il mondo degli affari abbia posto molte volte l’attenzione sui nessi fra la centralizzazione dei capitali e l’instabilità finanziaria richiamando proprio Karl Marx sulle grandi testate finanziarie come il Financial Times (per esempio John Authers nel marzo del 2007 e John Plender nell’ottobre 2008), il Wall Street Journal (per esempio Nouriel Roubini nell’agosto 2011) o l’Economist che il 3 maggio 2018 ha addirittura esortato i «rulers of the world» a leggere Karl Marx[9]. Evidentemente i grandi magnati della finanza non considerano propriamente realistica la scienza economica mainstream.

L’insegnamento di Marx può essere importante anche per i non marxisti perché: 1) permette agli studenti di essere consapevoli che le crisi non sono accidenti casuali; 2) chiarisce perché in Marx troviamo potenti strumenti analitici per spiegare le forme assunte dalle crisi capitalistiche; 3) può sollevare dubbi sulla presunta indiscutibilità accordata al metodo scientifico dell’economia ortodossa per la comprensione della realtà[10].

Infine, conoscere e interagire con tradizioni diverse permette agli studenti di mettere in discussione la retorica dominante. Attraverso la lettura diretta dei testi di Marx, avranno l’opportunità di analizzare a fondo i problemi legati alla teoria del valore, del denaro e dello sfruttamento, arricchendosi così della conoscenza necessaria per nuove interpretazioni dei problemi di questo mondo.

In conclusione, si può trovare criticabile una teoria ma, soprattutto nel campo di una scienza sociale come l’economia, la critica delle teorie può ispirare originalità di pensiero e arricchimento delle spiegazioni dei fenomeni economici. Per queste ragioni, contro l’opinione di Magness – opinione che tuttavia serpeggia in tanti corsi di studio nelle università italiane – anche gli economisti dovrebbero continuare a studiare Karl Marx.


[1] Si veda, ad esempio: Alessandro Roncaglia, Breve storia del pensiero economico, Laterza, Roma-Bari 2016/2025.

[2] Cfr. Carmelo Ferlito, Axel Leijonhufvud: A personal recollection from an Austrian perspective, «PSL Quarterly Review», Vol. 75(302), 2022, pp. 299-310.

[3] Cfr. John Maynard Keynes, Contribution to a festschrift for Professor A. Spiethoff, In (id.) Collected Writings, vol. 13, pp. 408-411, Macmillan, Londra 1933/1978.

[4] Cfr. Joseph Alois Schumpeter, Storia dell’analisi economica. Vol. 1: Dai primordi al 1790, Bollati Boringhieri, Torino 1955/1990.

[5] Cfr. Paolo Sylos Labini, Il problema dello sviluppo economico in Marx e Schumpeter, In (id.), Problemi dello sviluppo economico, pp. 19-73, Laterza, Roma-Bari 1954/1977.

[6] Cfr. Christopher Freeman, The Economics of Industrial Innovation, Frances Pinter, Londra 1982.

[7] Cfr. Murray Rothbard, Classical Economics. An Austrian Perspective on the History of Economic Thought, Volume II, Edward Elgar, Cheltenham 1995.

[8] Cfr. Carmelo Ferlito, Disproportionality and Business Cycle from Tugan-Baranovskij to Spiethoff, «Journal of Reviews on Global Economics», Vol. 4, 2015, pp. 108-119.

[9] Cfr. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, La Guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista, Mimesis, Milano-Udine 2022, pp. 19-27. Recensito a questo link da Lucio Gobbi su «pandorarivista.it».

[10] Cfr. Stefano Lucarelli e Giorgio Lunghini, How Can We Teach Marx to Today’s Students, in Il pensiero economico italiano, Vol. XXV(1), 2017, 117-35.

Scritto da
Carmelo Ferlito

Amministratore delegato del Center for Market Education e Faculty Member presso l’Universitas Prasetiya Mulya.

Scritto da
Stefano Lucarelli

Professore di politica economica presso l’Università degli Studi di Bergamo. Ha pubblicato saggi su varie riviste accademiche, tra cui il «Cambridge Journal of Economics» e il «Journal of Evolutionary Economics». È autore di: “La Guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista” (con Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti, Mimesis 2022), “Il labirinto della crescita e dello sviluppo capitalistico” (con Roberto Romano, Ediesse 2018) e “Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale” (con Federico Chicchi ed Emanuele Leonardi, Ombre Corte, 2016).

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