Scritto da Silvia Righi
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Questo contributo è tratto dal numero cartaceo 3/2020, dedicato al tema delle “Piattaforme”. Questo contenuto è liberamente accessibile, altri sono leggibili solo agli abbonati nella sezione Pandora+. Per ricevere il numero cartaceo è possibile abbonarsi a Pandora Rivista con la formula sostenitore che comprende tutte le uscite del 2020 e del 2021. L’indice del numero è consultabile a questa pagina.
La pandemia ha reso evidenti molte debolezze del nostro modello di sviluppo, accelerandone spesso la manifestazione delle contraddizioni. È indubbiamente il caso delle disuguaglianze, dello sfruttamento del pianeta e, al contempo, della dipendenza dell’uomo dalla tecnologia. Nell’impossibilità per la popolazione di accedere a servizi essenziali per vie tradizionali, negli ultimi mesi le aziende del Big Tech, attraverso le piattaforme digitali (non basate in Europa), sono divenute strumento indispensabile del vivere comune. Si pensi ad istruzione, comparto della giustizia, telemedicina, svolgimento di moltissime mansioni lavorative, che – senza l’ausilio delle piattaforme – sarebbero stati pressoché impossibili in tempo di pandemia.
Pochi soggetti privati si sono così trovati a svolgere funzioni pubbliche, sociali ed economiche, venendo in possesso di una mole enorme di dati e ricavando profitti elevatissimi. Ciò risulta incredibilmente evidente anche in ambiti fino a ieri impensabili: Zuckerberg lancerà Libra, una moneta digitale, che ha determinato una rincorsa da parte della Banca centrale europea ad un progetto parallelo; Elon Musk ha cancellato il monopolio pubblico dell’aerospaziale.
Le prime reazioni dei poteri pubblici a questa nuova fonte di potere – di fatto – concorrente non sono tardate ad arrivare. Di qua e (perfino) di là dall’Atlantico interventi anti-trust cercano di spezzare l’oligopolio dei giganti tecnologici. Lo scorso ottobre il dipartimento di giustizia americano e undici procuratori generali di Stato hanno messo sotto accusa Google per condotte finalizzate all’esclusione dei concorrenti sui mercati dei motori di ricerca e della pubblicità online con l’obiettivo di «mantenere la posizione di monopolio»; ancora, l’indagine iniziata un anno e mezzo fa nei confronti di Facebook ha condotto, in questa chiusura d’anno, alla denuncia per violazione della normativa anti-trust da parte della Federal Trade Commission americana e 48 Stati – e ora Zuckerberg teme il famigerato “spezzatino”, la separazione del suo impero. Sulla nostra sponda, dopo le multe comminate alla stessa Google negli anni scorsi (per un totale di più di 8 miliardi di euro), il 10 novembre la Commissaria UE alla concorrenza, Margrethe Vestager, ha annunciato che l’indagine su Amazon è arrivata a una conclusione preliminare: abuso di posizione dominante nei due mercati più importanti in Europa, Germania e Francia. I dati raccolti dal colosso verrebbero infatti aggregati per ‘nutrire’ in modo continuo gli algoritmi del business a marchio Amazon, che evita così di assumersi il rischio di impresa. Ma non è finita qui: è stata aperta una seconda indagine sulla società di Jeff Bezos, volta a verificare se favorisca in modo sistematico le aziende che utilizzano i suoi servizi di logistica, a danno di quelle che effettuano le consegne autonomamente. Infine, ha sollevato forti perplessità la sentenza del Tribunale UE nel caso Apple, che la Commissione deciderà, con ogni probabilità, di appellare davanti alla Corte.
Altro angolo di attacco è quello della tassazione: la cosiddetta web tax che la UE vorrebbe imporre ai colossi del web (made in USA) anche per coprire parte dei costi di Next Generation EU, e che incontra invece l’ostilità statunitense. Trump aveva sospeso i negoziati in sede OCSE ed è difficile che l’amministrazione Biden – con Kamala Harris attenta alle esigenze della Silicon Valley – abbia sul punto una visione molto differente. In assenza di un accordo, a fine novembre Parigi ha deciso di sfidare gli Stati Uniti e rompere (nuovamente) gli indugi: sarà presto seguita da Londra, e, forse, anche da Roma. L’Unione Europea ha deciso poi di intervenire per difendere non solo il mercato unico ed i consumatori, ma anche i nuovi lavoratori legati alle piattaforme – Ursula von der Leyen l’ha promesso – e la salute della democrazia stessa. Il ruolo che esse hanno nella diffusione delle cosiddette fake news in qualità di veri e propri ‘spazi pubblici’ costituisce infatti un pericolo per la tenuta democratica, e l’immensa quantità di dati che hanno a disposizione, come si è già visto (si pensi solo allo scandalo Facebook-Cambridge Analytica), possono essere utilizzati con finalità destabilizzanti.
«Poche grandi piattaforme online hanno un impatto enorme, ma dobbiamo riuscire a integrarle nella nostra democrazia» ha dichiarato ad ottobre davanti all’eurocamera Vestager, vicepresidente responsabile dell’agenda digitale, «non possiamo lasciare che le decisioni che influenzano il futuro della nostra democrazia siano prese nella segretezza di poche sale riunioni aziendali». La Commissione europea ha presentato il 15 dicembre un pacchetto normativo che mira ad affrontare le molteplici criticità derivanti dalla mancanza di un’adeguata ed uniforme regolamentazione. Con il Digital Service Act e il Digital Market Act, attraverso l’introduzione di norme omogenee in tutti gli Stati membri, vengono perseguiti due scopi principali: da un lato la salvaguardia della concorrenza sul mercato digitale, con la possibilità di prevedere regole che spezzino lo strapotere oligopolistico delle grandi piattaforme agevolando l’ingresso di nuovi competitor; dall’altro un focus su responsabilità e obblighi delle piattaforme, chiamate ad assicurare la trasparenza sugli algoritmi utilizzati per moderare i contenuti e suggerirli agli utenti, per gestire la pubblicità ma anche per contrastare la disinformazione.
Vestager esclude, in ogni caso, categoricamente la possibilità di un controllo generale da parte delle piattaforme sui contenuti pubblicati dagli utenti, e uno degli aspetti più delicati della nuova normativa – che dovrà ora passare al vaglio di Parlamento europeo e Consiglio e sarà bersaglio di una durissima azione di lobbying da parte delle Big Tech – sarà proprio l’equilibrio tra libertà di espressione e diritti degli utenti da un lato, e lotta ai contenuti nocivi dall’altro. Anche per questo, e per coordinare la sorveglianza delle autorità nazionali nonché fornire loro assistenza tecnica, la Commissione vorrebbe un board europeo per i servizi digitali che possa fornire orientamenti uniformi.
Ma il primo motivo per cui le piattaforme digitali costituiscono un potenziale rischio per la democrazia è anche la principale fonte del loro potere (sul mercato e fuori): i dati. La tecnologia permette lo stoccaggio di un’enorme quantità di dati e il fatto che i dati di centinaia di milioni di cittadini europei siano nelle mani di soggetti privati con sede negli Stati Uniti costituisce un vulnus per la sicurezza. Da questa consapevolezza nasce, su spinta franco-tedesca, il progetto Gaia X cui partecipano già oltre 100 aziende europee (di cui 28 italiane, che fanno dell’Italia il terzo polo promotore con adesioni del calibro di Banca Intesa e Leonardo) e molteplici istituti di ricerca. Presentato come il ‘primo grande cloud europeo’, persegue obiettivi analoghi a quelli evocati dall’espressione, a ben vedere con strumenti parzialmente differenti. Esso mira infatti alla realizzazione di infrastrutture e di pacchetti di servizi digitali ma, soprattutto, all’introduzione di un sistema di regole trasparenti per l’interoperabilità di reti e servizi cloud che garantisca agli europei la sovranità sui propri dati. In forte ritardo sul terreno dei grandi campioni del digitale, l’UE punta, come spesso accade, a fissare in alto l’asticella degli standard di trasparenza e sicurezza. La stessa logica muove l’azione del Commissario europeo al Mercato Interno, il francese Thierry Breton, circa il 5G e la cybersicurezza: Bruxelles mira al potenziamento delle autorità nazionali di controllo, affinché sviluppino standard atti a garantire la resilienza di tutto il sistema, anche facendo ricorso a fornitori differenziati di tecnologie. In entrambi questi casi, la sicurezza è solo uno dei profili rilevanti, gli altri sono la sovranità (non solo tecnologica, come sottolineato), e la possibilità per l’UE di sviluppare un’autonomia strategica.
Queste, le principali linee di intervento messe in campo dalle istituzioni europee per cercare di regolamentare l’attività delle piattaforme tecnologiche, ma è possibile che ancora manchi un tassello. Il dibattito sullo loro status giuridico non è infatti affatto superfluo, data la loro funzione di fornitori di servizi pubblici, e una delle idee in campo è quella di considerarle digital utilities, sottoposte quindi alle regole cui devono attenersi gli altri fornitori (si pensi alla fornitura d’acqua o di energia elettrica).
In ogni caso, per accedere al ricco mercato europeo, i colossi del digitale dovranno adeguarsi, come già è successo – ad esempio – in ambito alimentare, ambientale e di protezione dei dati. Ciò fa dell’Unione, anche in questo caso (oltre ai tre appena citati) un potenziale rule maker globale, capace di affermare i suoi standard anche al di fuori dei propri confini.
Traslando la riflessione di Galimberti dalla dimensione individuale a quella collettiva, la globalizzazione di fine secolo scorso ha visto la politica lottare per riprendersi il primato sull’economia (ad oggi senza successo), ma la sfida che essa ha davanti ora è forse ancora più difficile: la sfida per il dominio della politica sulla tecnica e la tecnologia.