Recensione a: Ilvo Diamanti e Marc Lazar, Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie, Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 176, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Magni
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Nella lunga serie di pubblicazioni aventi ad oggetto il vasto e a tratti indefinibile argomento “populismo” si è recentemente inserito l’ultimo lavoro di due politologi di lungo corso, Ilvo Diamanti e Marc Lazar, che per l’editore Laterza hanno firmato Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie.
Lungi dal voler rappresentare una summa di stampo accademico delle pubblicazioni più significative sul tema, Popolocrazia, pur avvalendosi di autorevoli spunti, si pone come un originale tentativo di sistematizzare e semplificare per un pubblico vasto la generale questione “populismo” attraverso due fondamentali direttrici: la prima, che significativamente troviamo in apertura (introduzione e capitoli 1, 2 e 3) e chiusura (capitolo 7 e conclusione), è il tentativo non tanto di definire quanto più di circoscrivere e identificare i tratti essenziali del fenomeno (o, meglio, dell’epifenomeno) populista; la seconda è la trattazione delle realtà francese e italiana, ben conosciute dagli Autori, che rappresentano, pur con le loro peculiarità, due significativi ed emblematici rappresentazioni della questione populista.
Pur riconoscendo che “populismo” (un po’ come tutti gli –ismi) sia un termine-contenitore valido per indicare e abbracciare concetti ed esperienze variegati – una “scarpetta […] adatta a piedi di tutti i tipi” (p. 15, riprendendo un intervento di Isaiah Berlin) – ne viene di fatto accettata la validità, anche sulla scorta di quanto recentemente fatto dal politologo inglese Jan-Werner Muller (si veda Cos’è il populismo, Università Bocconi editore 2017, pp. 137).
Partendo, pertanto, dalla considerazione di Berlin secondo cui “una parola molto utilizzata doveva per forza descrivere una realtà” (p. 16), gli Autori scelgono di circoscrivere il fenomeno populista nella sua complessità, con l’intento di “proporre una definizione operativa […]: da una parte, lo sviluppo di movimenti politici che pretendono di incarnare il popolo sovrano e denunciano le élite al potere; dall’altra, la mutazione sostanziale del modo di concepire e fare politica determinata dall’esistenza di questi movimenti, ma anche di altri fattori”.
Si legge nella Introduzione, infatti, che “il populismo, o meglio i populismi […] non sono un problema in quanto tali, ma la manifestazione di un problema democratico. In particolare, con l’espansione del fenomeno considerevole dell’antipolitica, che comporta due grandi aspetti, uno di rigetto verso qualsiasi genere di politica, l’altro di aspirazione a una democrazia diversa”. Rappresentano, pertanto, al contempo tanto una espressione quanto un vettore di metamorfosi fondamentali delle nostre democrazie e della forma di Stato per come l’abbiamo conosciuta sinora, in modo particolare nel Vecchio continente.
Riprendendo il pensiero del politologo Bernard Manin, Diamanti e Lazar illustrano sapientemente come la democrazia del pubblico, emersa tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo in seguito al declino delle culture politiche novecentesche e concretizzatasi nel triplice processo di “personalizzazione, presidenzializzazione e mediatizzazione” (p. 7), stia lasciando il passo alla “popolocrazia”.
Il termine non è un mero espediente linguistico. Già utilizzato pochi mesi or sono dallo stesso Diamanti (si veda “Dalla democrazia alla popolocrazia”, su la Repubblica del 20 marzo 2017), sta a significare, nelle intenzioni degli Autori, il processo di trasformazione della menzionata democrazia del pubblico per effetto della accelerazione della globalizzazione dei mercati su larga scala e per la progressiva perdita di potere di intervento degli Stati-nazione rispetto al capitalismo finanziario e all’ascesa del potere tecnocratico dovuta al processo di integrazione europea.
L’emergere, in poche parole, di quelle che il filosofo Giacomo Marramao definisce con una illuminante espressione potestas indirectae (si veda, in modo particolare, l’opera significativamente intitolata “Dopo il Leviatano”, Bollati e Boringhieri, ult. ed. 2013) sta portando a una radicale trasformazione dello Stato moderno, modificandone (forse intaccandone?) le stesse fondamenta. Il populismo e la trasformazione della democrazia in popolocrazia sarebbero, pertanto, l’epifenomeno di un fenomeno ben più profondo e complesso, la crisi dello Stato democratico liberale.
Nell’individuare i precedenti storici più significativi (il narodnicestvo russo e il boulangismo francese di fine ‘800, il Partito del Popolo statunitense fondato nel 1891), gli Autori segnalano sapientemente come “il populismo è comparso e compare sempre in periodi di forti incertezze, momenti traumatici, fasi di crisi” (p. 21). Il ruolo della crisi – o meglio delle crisi, in quanto crisi di tipo economico, politico, sociale, culturale – appare fondamentale per l’emergere e lo sviluppo del sentimento populista. Viene accettata, come detto, la validità del termine “populismo” ma ne viene rigettata una valenza ideologica, consistendo piuttosto in una “sindrome dalle forme diversificate” (p. 23), come già aveva avuto modo di segnalare Peter Wiles.
In tale ottica, assume validità la felice espressione del politologo britannico Paul Taggart, secondo il quale “il populismo riempie un cuore vuoto. Per esistere, il populismo ha bisogno di eccitare le passioni, cosa che si manifesta nel suo linguaggio, mentre la democrazia liberale e rappresentativa cerca di prosciugarle, al fine di far trionfare la ragione” (p. 25).
Anche da tale tipo di argomentazioni, emerge la posizione degli Autori che cercano di spiegare la questione populista mediante la contrapposizione tra tale sindrome e la democrazia liberale classica, che ne rappresenterebbe il nemico dichiarato.
Ne deriva, però, una grande contraddizione, insita nella problematica affrontata.
Nella convinzione di rappresentare i sentimenti più autentici del popolo sovrano, i partiti e i movimenti populisti non si limitano, oggi, a criticare il modello dello Stato liberale, ma pretendono, al contempo, di esserne gli unici possibili rappresentanti in quanto unici possibili interpreti di tali sentimenti.
I principali nodi da sciogliere, pertanto, sembrano essere due: il rapporto tra populismo e democrazia e il concetto di “popolo” di cui i populisti pretendono di essere i soli possibili rappresentanti.
Per quanto concerne la prima questione, appare significativa la acuta notazione fatta da Diamanti e Lazar in merito alla differenza che emerge tra movimenti populisti storici (fascismo, nazismo e in una certa misura il comunismo sovietico ma anche il qualunquismo italiano e il poujadismo francese oltre agli innumerevoli attori del movimento degli anni ’60 e ‘70) i quali si ponevano in aperta antitesi con il parlamentarismo democratico e la posizione dei movimenti populisti attuali che, al contrario, si propongono come gli unici, i soli, gli autentici democratici.
Ciò è per un verso dovuto a un lento ma irreversibile e oramai consolidato processo di istituzionalizzazione e di giudiziarizzazione della democrazia, di un suo profondo radicamento nell’opinione comune.
Rimane, però, anche al giorno d’oggi, una sottile e strisciante diffidenza verso il principio della rappresentanza e dell’istituto della delega. Ecco, allora, come, per altro verso, tale nuovo atteggiamento delle forze populiste poggi le basi, altresì, sua una loro peculiare – agli occhi di alcuni, distorta – visione della democrazia. Sotto tale aspetto l’esperienza del Movimento Cinque Stelle in Italia appare significativo ed emblematico. Pur ponendosi come i più autentici interpreti della democrazia, gli esponenti di tale Movimento ne caldeggiano una visione particolare che, partendo dal concetto della democrazia diretta sperimentabile grazie alle nuove tecnologie della rete, deve arrivare al vero e proprio superamento delle istituzioni della rappresentanza (sul punto, si vedano le recentissime dichiarazioni di Davide Casaleggio al quotidiano “La Verità” in merito alla progressiva inutilità del Parlamento).
La visione, effettivamente propria dei più disparati modelli di populismo, di superamento della rappresentanza e del rifiuto di una qualsivoglia forma di istituzionalizzazione del conflitto è a doppio filo legata con la visione unanimista del concetto di “popolo” che tali movimenti propongono. Come acutamente osservato dagli Autori, infatti, “riconoscere questa necessità” [quella di istituzionalizzare il conflitto, ndr] “significherebbe ammettere che il popolo non è sempre unito, ma diviso, traversato da molteplici contraddizioni interne, combattuto tra aspirazioni opposte. Il popolo è allo stesso tempo unico e plurale, in democrazia. Per i populisti, se le divisioni esistono non possono essere altro che il prodotto dell’azione nefasta delle élite o di elementi perturbatori infiltrati nella società” (p. 36). Sotto tale aspetto, i populisti esprimerebbero una “concezione illiberale della democrazia”.
Arriviamo, qui, a una delle domande cruciali del libro: quando i populisti evocano il popolo, parlano veramente della stessa cosa?
Attraverso un breve ma illuminante excursus nella Roma antica viene illustrato come per alcuni il popolo da rappresentare sia la plebs, ossia gli esclusi, la gente semplice la cui esistenza è schiacciata dalle decisioni di istituzioni lontane. Per altri, invece, va data voce al populus, un insieme di cittadini attivi, perennemente politicizzati i quali, attraverso il referendum e un’altra serie di strumenti utili a vivacizzarne (o, forse, orientarne) la partecipazione, assurgono a fondamentale elemento della nuova democrazia (ovverosia, della popolocrazia).
Tali differenti accezioni non sono necessariamente in antitesi, anzi spesso si manifestano entrambe in seno al medesimo movimento a seconda della peculiare circostanza del caso.
Certamente comune a tutti i movimenti populisti è la necessaria presenza di un leader supremo, vero e proprio uomo o donna immagine del movimento e, conseguentemente, del popolo, seppur, nella maggior parte dei casi, senza un vero e proprio mandato elettivo. Il leader populista si differenzia dal politico tradizionale (che può altresì essere carismatico ma nel senso più weberiano del termine) in considerazione della capacità di quest’ultimo di andare talvolta contro le opinioni del popolo. Riemerge, anche da tale punto di vista, il problema già affrontato del ruolo della rappresentanza e della fiducia del popolo nei confronti degli attori istituzionali e dei corpi intermedi. Attraverso l’incensamento del leader e il superamento della rappresentanza i populisti si propongono, secondo gli Autori, di superare il conflitto tra il Demos e il Kratos, tra il popolo e il governo.
Affrontando la peculiare situazione francese e italiana, Diamanti e Lazar segnalano come il modus operandi populista non riguardi esclusivamente gli attori politici tradizionalmente inseriti in tale cornice (Front National/Rassemblement National, Lega e Cinque stelle) ma sia oramai proprio, seppur con caratteristiche più sfumate, di tutto l’arco politico.
Certamente non tradizionali risultano le modalità di emersione delle leadership di Macron e Renzi, che hanno fatto del superamento della vecchia classe politica uno dei principali – e più fortunati – argomenti delle rispettive campagne. Altrettanto appiattita su tematiche e condotte senza remore definibili populiste è apparsa anche la campagna del Sì per il referendum costituzionale del dicembre 2016, con slogan come “Vuoi meno politici”.
Il linguaggio e la sindrome populista sembrano aver contagiato, in altre parole, anche coloro che si pongono come i più strenui difensori del sistema.
Meno approfondita risulta la questione del rapporto tra il mondo della sinistra più o meno tradizionale e il populismo. Se appare senz’altro condivisibile la notazione per cui la tradizione marxiana e, per alcuni versi marxista, di ragionare in termini di classi piuttosto che in termini di popolo abbia comportato rischi minori di cadere nella trappola populista per i Partiti Socialisti e Comunisti storici, vi è, altresì, da riscontrare, per un verso, come la assimilazione dei nuovi movimenti della sinistra europea (Podemos, Syriza, La France Insoumise) sic et simpliciter al fronte populista appare quantomeno azzardata e, per altro verso, come anche i Partiti della sinistra tradizionale abbiano in alcune occasioni tradito elementi di populismo.
In modo particolare con riferimento alla seconda questione, appare significativo, a mero titolo di esempio, con uno storico esponente della sinistra italiana e in modo particolare romana, Walter Tocci, abbia definito come “populismo comunista” la particolare politica del Pci capitolino di assecondare, e non di guidare e di educare, la nascita e lo sviluppo dell’abusivismo edilizio di necessità nelle borgate romane, poi trasformatosi rapidamente in abusivismo di speculazione (oltre che in una irreversibile perdita di consenso. Si veda “Sulle orme del gambero”, Donzelli 2013, pp. 34 e ss).
Il percorso che dalla democrazia novecentesca passa per la democrazia del pubblico e quindi porta alla popolocrazia sembra, pertanto, giunto a uno dei suoi stadi finali.
Ne risultano intaccati i meccanismi tradizionali di gestione di conflitti, la fiducia delle persone nei confronti degli attori istituzionali, le fondamenta stesse dello Stato.
A fronte di Stati nazionali sempre più deboli e formalmente ancorati al sistema dei Partiti e della rappresentanza, per un verso i nuclei del potere sembrano sempre più allontanarsi dallo Stato centrale e slegarsi dal principio della sovranità popolare e per altro verso proliferano e si diffondono forme nuove di coagulazione del consenso.
Il tema della rappresentanza continua ad esistere e sembra legato a doppio filo a quello del rapporto tra economia e politica e tra finanza e politica.
Oggi molte decisioni che incidono sulla quotidiana vita degli esseri umano vengono prese in consessi sprovvisti di una qualsivoglia legittimazione democratica e ciò non può essere irrilevante ai fini della valutazione dello stato di salute della democrazia occidentale. Prima che tale valutazione diventi un esame autoptico occorre discutere delle ragioni di alcune degenerazioni e immaginare nuovi orizzonti.
Il richiamo a un patriottismo di facciata consente a molte forze politiche di riaffermare oggi uno dei temi classici del pensiero semplice: l’orgoglio nazionale. È utile per addossare a qualche ente esterno e lontano – immigrati, banche, vertici sovranazionali – lacune e incapacità politiche. Eppure, illudersi che la questione non esista sarebbe un errore altrettanto grave. A un Governo nazionale e alle forze politiche che lo guidano viene chiesto innanzitutto di difendere l’interesse nazionale. Fin quando i confini, anche geografici, degli Stati-nazione per come si sono formati rimarranno gli stessi il tema della rappresentanza continuerà a porsi ogni giorno in modo più prepotente.
Spetterà a chi crede nei principi della democrazia rappresentativa, nella capacità istituzionale di risolvere i conflitti e di guidare l’andamento dei governati saper rifondare tali principi su nuove basi senza essere contaminato dal germe semplificatorio del populismo, pena il cedimento definitivo a nuove ere dell’organizzazione e delle forme della politica.