Scritto da Paul Collier
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In Poveri e abbandonati. Una nuova economia per i luoghi lasciati indietro l’economista Paul Collier compie un viaggio nello spazio e nel tempo tra città, regioni e Paesi che hanno visto il loro benessere non decollare mai o evaporare rapidamente, investito da un declino economico e sociale dal quale non sono riusciti a riemergere. Obiettivo del libro è individuare gli elementi comuni alla crisi e al declino dei territori ma anche, laddove possibile, alla loro rinascita.
Collier è professore di economia e politiche pubbliche alla Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford. Economista dello sviluppo, è tra i più grandi esperti mondiali di disuguaglianze. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Bocconi University Press / Egea, un estratto del testo.
Nei decenni che hanno fatto seguito al 1990 la cosiddetta “globalizzazione” ha reso l’economia internazionale più integrata, ma le condizioni economiche delle persone sono diventate più eterogenee e imprevedibili. In alcuni Paesi i redditi personali sono aumentati (la Cina è un esempio straordinario in tal senso). Ma in parallelo a questa inedita prosperità si è verificato per alcuni un processo opposto: il coacervo di luoghi e comunità rimasti indietro si è allargato. Dove si trovano esattamente questi luoghi e queste comunità?
Un tempo, per una maggioranza di voi che state leggendo questo libro la risposta era: “altrove”». In effetti, i Paesi lasciati indietro si trovavano soprattutto nelle zone più povere del mondo: l’Africa e l’Asia Centrale. I dati più recenti confermano la triste realtà: come gruppo, questi Paesi poveri sono ancora indietro rispetto al resto dell’umanità. Paesi come il Malawi e il Mali, da tempo poveri rispetto agli standard mondiali ma una volta moderatamente floridi rispetto al loro passato, stanno ora accumulando ritardi a una velocità mai vista prima.
Ma anche all’interno di Paesi a medio reddito ci sono numerose comunità che stanno accumulando ritardo, tra cui quella di Barranquilla in Colombia. Le Nazioni a medio reddito vanno ora collettivamente sotto l’allegro epiteto di “economie dei mercati emergenti”: l’innovazione tecnologica e l’integrazione dei mercati globali hanno funzionato bene per molti dei loro cittadini, ma non per tutti. In media stanno rapidamente colmando le distanze con il miliardo di fortunati che vivono nelle economie avanzate: oltre alla Cina con il suo strabiliante successo, sono molti altri i Paesi che, come la Colombia, hanno conseguito livelli di prosperità del tutto inediti. Ma all’interno della Colombia si è aperta una faglia: un tempo le regioni costiere erano ricche tanto quanto la capitale Bogotà; con il mutare delle opportunità globali, Bogotà ha conosciuto un vero e proprio boom, mentre queste aree sono rimaste fortemente indietro. I giovani più capaci vanno via e quelli che restano sentono che la loro regione natia è diventata un luogo marginalizzato. Questa esperienza si ripete in molte economie emergenti di tutto il mondo. È una divergenza che genera disperazione, e la disperazione genera rabbia.
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I Paesi più poveri stanno diventando sempre più poveri[1]
Creata nel 1944 per finanziare la ricostruzione e lo sviluppo nel dopoguerra, la Banca mondiale è di gran lunga la più grande agenzia pubblica internazionale del mondo. Nel 1973, quando la necessità di ricostruire si era attenuata e molti Paesi da poco divenuti indipendenti vi avevano aderito, Robert McNamara comunicò i nuovi obiettivi dell’organismo da lui all’epoca presieduto. La Banca mondiale avrebbe dovuto “accelerare la crescita economica e ridurre la povertà assoluta”. Lo stesso edificio trasmette chiaramente questo messaggio, inciso nella scritta “Il nostro sogno è un mondo senza povertà”» che campeggia sulle pareti dell’atrio. Ma la Banca mondiale ha scelto un’interpretazione alquanto grossolana di questo obiettivo: il conteggio annuale del numero di persone che vivono con meno di 2,15 dollari al giorno, l’importo ritenuto necessario per non morire di fame. Si tratta di una misura molto conservativa dell’operato della Banca, raggiungibile anche consentendo all’abisso che separa tutti i Paesi più poveri dal resto dell’umanità di allargarsi sempre di più. Ma, nonostante stesse utilizzando un parametro del tutto inadeguato, prima del 1990 la Banca mondiale stava fallendo. Quanto accaduto dagli anni Sessanta agli anni Novanta non è più in discussione: secondo le misure statistiche standard, in ognuno di questi tre decenni i redditi dei Paesi più poveri sono andati nella direzione opposta rispetto a quelli dei Paesi più ricchi. Quando nel 2003 mi sono occupato per la prima volta del problema della divergenza globale, ho scoperto che racchiudeva un altro problema passato inosservato. Un gruppo di sessanta Paesi poveri, concentrati in Africa e in Asia Centrale ma con alcune sacche anche in altre aree, non era riuscito a far partire la crescita economica e stava gradualmente arretrando rispetto a tutti quanti gli altri. La popolazione complessiva di questo gruppo era di circa un miliardo di persone – da me definiti “l’ultimo miliardo”. All’inizio la Cina e l’India erano molto più povere di gran parte di essi, ma a partire dagli anni Ottanta la Cina ha avviato un processo di crescita sostenuto e dagli anni Novanta anche l’India e l’America Latina hanno spiccato il volo. Se nel 1990 queste tre regioni dominavano ancora le classifiche sulla povertà globale, oggi gli investitori le apprezzano al punto da definirle “mercati emergenti”, ed entro il 2035 i loro problemi di fame di massa saranno un ricordo del passato. È stato grazie alla loro crescita che la povertà globale ha cominciato a diminuire, probabilmente per la prima volta nella storia dell’umanità. Ma quel successo non ha raggiunto l’ultimo miliardo, i cui redditi hanno continuato a divergere dai miliardi di persone che vivevano nei Paesi dei mercati emergenti e dal miliardo di fortunati che popolava i Paesi ricchi.
La divergenza dell’ultimo miliardo è proseguita fino al 2003, quando i prezzi mondiali delle risorse naturali hanno avviato una fase di boom decennale talmente eccezionale da meritarsi il titolo di superciclo. Poiché nell’ultimo miliardo il processo di crescita non era mai stato avviato, lo sfruttamento e l’esportazione delle loro risorse naturali erano diventati la principale modalità d’interazione di queste persone con l’economia internazionale, ragion per cui il superciclo ne ha fatto aumentare i redditi. Questo è stato il loro “decennio d’oro”, durato dal 2003 al 2014. Nel 2014 i prezzi sono crollati e da allora sono rimasti altamente volatili. Dopo il 2014 l’economia mondiale è entrata in una fase nota come nuova normalità[2] e per l’ultimo miliardo la nuova normalità è stata in tutto e per tutto simile alla vecchia normalità, quel lungo periodo fino al decennio d’oro durante il quale aveva accumulato un ritardo. Tirando le somme, è possibile distinguere tre periodi: la vecchia normalità, prima del 2003; il decennio d’oro, dal 2003 al 2014; e la nuova normalità, dal 2014 al 2019. Solo durante il decennio d’oro l’ultimo miliardo ha vissuto una breve tregua dalla tragedia del continuo e progressivo arretramento rispetto al resto dell’umanità.
Se la tendenza affermatasi nella nuova normalità dovesse proseguire, il conteggio della povertà globale riprenderebbe presto la funesta marcia in avanti registrata nel periodo antecedente al 1990. A partire dal 2035 il numero di persone al di sotto della soglia di povertà di 2,15 dollari (ossia il numero di persone così povere da soffrire la fame) aumenterebbe inesorabilmente. E i poveri si concentrerebbero in luoghi molto diversi rispetto al 1990: al posto di Cina, India e America Latina, troviamo oggi l’Africa e l’Asia Centrale. Vista la missione della Banca mondiale, la prospettiva di un aumento della povertà globale dovrebbe spingerla all’azione.
Naturalmente ci sono molte ragioni per dubitare di queste proiezioni, ma molte di queste non sono incoraggianti. La ricchezza nazionale nei mercati emergenti non implica necessariamente l’eliminazione della fame: uno dei punti che sollevo in questo libro è che i luoghi abbandonati abbondano. Inoltre, le crisi iniziate nel 2019 con il Covid possono lasciare in eredità danni duraturi[3]. Possiamo tuttavia integrare le tendenze previste con i dati sulle variazioni della ricchezza nazionale pro capite, includendo per esempio beni privati come le case e beni pubblici come le infrastrutture. Per quanto imperfetta, l’osservazione dell’evoluzione dei beni ci fornisce un’indicazione di come potrebbero cambiare i redditi in futuro. Sia nella vecchia che nella nuova normalità i pochi beni dell’ultimo miliardo sono rimasti fermi, mentre i beni dei mercati emergenti sono cresciuti velocemente – a un tasso pari o superiore al 3 per cento annuo. Anche quelli del miliardo fortunato hanno fatto registrare un discreto tasso di crescita, pari a circa il 2 per cento.
Il popolo dell’ultimo miliardo è estremamente più povero del resto dell’umanità. Alla fine del 2020 il patrimonio medio pro capite del miliardo fortunato era di mezzo milione di dollari. La media dei mercati emergenti era balzata a 85.000 dollari ed era sulla buona strada per raggiungere il miliardo di fortunati nel giro di una generazione. Ma gli abitanti del miliardo inferiore possedevano meno di un trentesimo di quelli del miliardo fortunato, e i loro patrimoni crescono molto lentamente: come faranno a recuperare il ritardo? A meno di un cambio di rotta radicale, questi abissi di opportunità si trasformeranno in due mondi completamente diversi: società ricche per la maggior parte dell’umanità e vite misere per una minoranza di persone. Ma grazie ai social media questi due mondi possono guardarsi l’un l’altro senza filtri.
Il quadro è desolante, ma il messaggio chiave di questo libro è pieno di speranza. Alcuni dei Paesi che appartengono all’ultimo miliardo hanno trovato la fiducia necessaria per pensare con la propria testa e stanno prosperando. Sono modelli di comportamento per altri luoghi trascurati e tuttora demoralizzati e ci fanno capire come devono cambiare le politiche internazionali: la loro testimonianza è preziosissima. La prospettiva di un nuovo aumento della fame nel mondo avrebbe dovuto galvanizzare l’azione internazionale per scongiurare un tale scenario, e questa sorta di bussola che ci aiuta a capire velocemente che cosa fare avrebbe dovuto ricevere la massima attenzione. Ma non è successo nulla di tutto questo. Per via di ideologie stantie, evidenze statistiche confuse e shock distraenti, il pericolo e la maniera con cui affrontarlo sono stati trascurati o ignorati.
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I luoghi lasciati indietro nelle economie emergenti
La Colombia è una delle economie emergenti più floride dell’America Latina. Ma Barranquilla, capoluogo del Dipartimento dell’Atlántico, può tristemente affermare di aver visto giorni migliori. Una volta poteva vantare una seppur lieve prosperità, ma oggi è rimasta indietro rispetto alle altre aree del Paese che sono in piena espansione. Le elezioni nazionali tenutesi a giugno 2022 in Colombia sono state tese, sul filo di lana e polarizzate. La contesa, in apparenza giocata tra il partito di destra (pro-imprese) e un candidato di sinistra (pro-lavoratori) è sfociata in una vittoria risicata per la sinistra. Tuttavia, la vera linea di faglia non era quella tra destra e sinistra, ma il crescente divario tra le regioni in espansione e quelle arretrate. Un numero sufficiente di elettori in regioni come quella atlantico-caraibica si è schierato a favore del candidato del partito d’opposizione consentendogli di spuntare quella vittoria risicata.
La Colombia è emblematica di quanto sta accadendo in tutta l’America Latina. Le elezioni colombiane sono state una delle quindici tenutesi nel continente nel 2022, e tutte hanno visto la sconfitta del partito in carica, indipendentemente dal fatto che fosse di destra o di sinistra. In tutti questi Paesi a un iniziale shock economico localizzato si è aggiunto un ulteriore declino economico, amplificato dagli effetti psicologici avversi. La storia di Barranquilla è esemplificativa di ciò che non ha funzionato in tutta l’America Latina e in molte altre economie dei mercati emergenti. Un tempo Barranquilla era la porta d’accesso della Colombia verso i Caraibi e gli Stati Uniti, grazie al suo porto posto proprio alla foce del fiume Magdalena. Poi però la città è stata colpita da uno shock naturale: l’estuario ha cominciato a insabbiarsi a causa dell’irregolarità delle precipitazioni a monte. In sostanza, Barranquilla è stata colpita da quell’imprevedibile raffica di vento che l’ha fatta ribaltare, lasciando incolumi altre aree della Colombia. Il declino di Barranquilla, la città principale della regione, ha trascinato verso il basso l’intera area atlantico-caraibica.
Quello che è successo dopo è stato determinato dalle dinamiche avverse della psicologia sociale. Il declino economico rispetto ad altre aree della Colombia ha innescato uno scaricabarile che ha portato a rivalità, frammentazione e disperazione. Ciò a sua volta ha influenzato la politica locale: come nel South Yorkshire, le amministrazioni locali dei villaggi e delle città della regione hanno accusato il governo di Barranquilla, il cui declino ha fatto emergere le solite narrazioni spicciole e ostili dei villaggi e delle aree rurali nei confronti del principale centro cittadino – ritenuto corrotto, incompetente e avido.
Queste reazioni psicologiche alla crisi hanno contaminato la politica locale e l’hanno distratta al punto da impedirle di concentrarsi sulla soluzione del problema di fondo: l’interramento dell’estuario. In effetti, una soluzione esisteva ed era anche semplice. Il dragaggio regolare lungo tutto il corso del fiume sarebbe costato una frazione dei danni economici che continuavano ad accumularsi. Il dragaggio a monte richiedeva una collaborazione tra tutte le amministrazioni locali attraversate dal fiume: ognuna avrebbe sostenuto una parte dei costi, così come la stessa città di Barranquilla. Invece di cooperare, tuttavia, ciascun governo locale si è ritrovato intrappolato nel proprio tornaconto a breve termine. La risposta collettiva è stata la sfiducia reciproca, non il riconoscimento di un interesse reciproco. Mancava un modello valido di cooperazione.
La cosa interessante è che esattamente sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico un gruppo simile di governi rivali si trovava a condividere il fiume Mano: Liberia, Sierra Leone e Guinea. Pur non fidandosi l’uno dell’altro più di quanto si fidassero l’una dell’altra le amministrazioni locali della regione atlantico-caraibica che condividono il fiume Magdalena, avevano trovato una soluzione: creare un’istituzione condivisa, l’Unione del Fiume Mano. L’Unione era stata dotata di regole attentamente congegnate e di una leadership efficace: non si fidavano l’uno dell’altro, ma si fidavano tutti dell’istituzione che avevano creato. Era, questo, un possibile espediente cognitivo per i governi locali dell’atlantico-caraibico, ma purtroppo non sapevano neanche che esistesse. Essendo privi di questa conoscenza cruciale, l’incapacità di dragare il fiume fu solo l’inizio dei problemi politici innescati dagli effetti psicologici avversi. All’interno della regione non solo le varie entità territoriali sono arrivate ai ferri corti, ma i conflitti tra imprese e lavoratori sono letteralmente esplosi. Poiché la produttività è diminuita rispetto a quella delle regioni più prospere della Colombia, i sindacati hanno comprensibilmente chiesto che i salari venissero adeguati a quelli delle regioni più ricche, mentre le imprese hanno altrettanto comprensibilmente sostenuto di non potersi permettere di aumentarli. Sono emerse le solite narrazioni ostili e stereotipate, che vogliono le imprese locali incredibilmente avide e i lavoratori locali incredibilmente aggressivi. A causa dello shock economico negativo la regione aveva bisogno di un impulso agli investimenti, ma queste vicissitudini hanno avuto l’effetto esattamente opposto: le imprese locali hanno spostato i piani di espansione nelle aree in cui la produttività dei lavoratori era maggiore, e le imprese di altre zone sono state scoraggiate dalla cattiva reputazione della regione.
Ma a essersi rivoltata contro la regione è stata soprattutto la politica nazionale. In Colombia il potere politico è fortemente accentrato nella capitale Bogotà. La capitale e la sua regione stavano vivendo una fase di piena espansione grazie alle miniere e al petrolio. Avevano le risorse e le istituzioni in grado di rilanciare la regione atlantico-caraibica, ma non ne comprendevano gli affanni né provavano empatia per la condizione di quei luoghi. Occupando l’entroterra del Paese, la regione di Bogotà non ha familiarità con i sistemi fluviali e, ancora una volta, le narrazioni ostili hanno fornito un alibi molto comodo per l’inazione: la regione atlantico-caraibica era ritenuta incapace di affrontare i suoi problemi, per cui sarebbe stato solo uno spreco di denaro pubblico[4].
Alcune strategie messe in atto per invertire queste spirali discendenti hanno funzionato. Ma tutte hanno richiesto che gli abitanti dei luoghi lasciati indietro, come la regione atlantico-caraibica, comprendessero che è necessario unire le forze, rivendicare l’agentività sui loro problemi ed esplorare le alternative a disposizione per risolverli.
[1] Questo paragrafo si basa su: James Cust, Paul Collier e Alexia Rivera-Ballesteros, Are the poorest catching up?, Working Paper WPS10622, World Bank, 2023. Rappresenta il lavoro di un team statistico della Banca mondiale e si basa sui dati più recenti dell’FMI e del servizio The Changing Wealth of Nations della Banca mondiale.
[2] Espressione coniata dal celebre economista egiziano Mohamed El-Erian.
[3] In Gran Bretagna, per esempio, l’effetto combinato della presenza di luoghi arretrati e dello shock pandemico ha portato alla creazione di banche alimentari gestite da enti caritatevoli.
[4] La Colombia e la Gran Bretagna sono entrambe estremamente centralizzate, e non sorprende l’analogia tra il disprezzo di Bogotà per le capacità del governo locale nell’area atlantico-caraibica e il disdegno di Whitehall nei confronti del governo locale nel Nord dell’Inghilterra.