Progettare Babilonia. Città, spazi e politica
- 10 Febbraio 2017

Progettare Babilonia. Città, spazi e politica

Scritto da Andrea Baldazzini

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Questo articolo è concepito come introduzione ad una serie di articoli e di recensioni di libri incentrati sul tema della città, pubblicati a cura di Andrea Baldazzini.


Nel corso degli ultimi decenni il tema dello spazio, o per meglio dire, degli spazi, declinato nelle accezioni di città, territorio, comunità, luoghi, e insieme alle corrispondenti questioni relative alla loro progettazione, produzione, occupazione e condivisione, sembra destare un interesse sempre maggiore. Non per niente infatti già a partire dagli anni Settanta e Ottanta si è cominciato a parlare addirittura di ‘Spatial turn’, volendo con ciò sottolineare proprio la rinascita dell’importanza che la questione spaziale riveste per il mondo contemporaneo, riaffermazione che ovviamente è a sua volta legata in maniera strettissima all’emergere di nuovi fenomeni come quelli della ‘corsa allo spazio’, della globalizzazione, della creazione di spazi virtuali tramite Internet, della possibilità di spostarsi in maniera sempre più rapida grazie a nuovi mezzi di trasporto e delle trasformazioni a livello di movimenti dei flussi del Capitale ecc., fenomeni insomma che contribuiscono a cambiare radicalmente i punti di riferimento dell’intera geografia sociale mondiale.

Ebbene, ‘Progettare Babilonia’ vuole dunque essere un percorso di approfondimento che intende fornire un contributo al ripensamento della politica a partire precisamente da una riflessione sui suoi spazi, in primis quello della città. Come scriveva Carl Schmitt, «non esistono idee politiche senza uno spazio a cui siano riferibili, né spazi o principi spaziali a cui non corrispondano idee politiche»[1]. Le spazialità classiche a cui l’autore fa riferimento: Stato, nazione, impero, città, vengono oggi costantemente rimesse in discussione; la sparizione di confini netti, gli innumerevoli processi di attraversamento dei territori da parte di persone e risorse, nonché la nascita di nuovi modi di abitare i luogo e l’imporsi di bisogni sempre più differenziati, portano alla creazione di spazialità ibride, dove le identità si mescolano, le modalità di esercizio del potere (sia esso politico, economico, religioso, culturale o altro) seguono traiettorie impreviste e in molti casi imprevedibili, così è il caos che appare regnare sovrano.

L’intento consisterà allora nel provare a rispondere al disorientamento che la politica sembra oggi mostrare davanti a quello spazio così complesso e dinamico che è la società contemporanea, partendo nello specifico dall’analisi di alcune tra le forme spaziali più interessanti (comunità, sfera pubblica, territori urbani, metropoli), le quali condividono tutte lo stesso minimo comune denominatore, ovvero la città; cercando in questa maniera di fornire nuove coordinate in modo tale che l’agire politico possa riacquistare una propria seria posizione ed essere all’altezza dei tempi. Che cos’è uno spazio? In che modo la politica produce spazi? Come cambiano gli spazi dell’abitare odierno? Che rapporto c’è tra i conflitti che scoppiano con ormai estrema frequenza e le nuove spazialità metropolitane? Perché la comunità e il ‘comune’ sono semantiche così attraenti? Queste sono solo alcune delle grandi domande sulle quali si intende riflettere nel corso dei prossimi lavori, Progettare Babilonia vuole infatti essere un percorso aperto e desideroso di accogliere i contributi di tutti coloro che trovano interessanti le tematiche a cui si è fatto cenno fin qui. L’intento è anche quello di servirsi di più saperi: dalla filosofia all’urbanistica, dalla sociologia alla scienza politica, guardando magari persino all’economia o all’architettura. Se uno spazio è infatti sempre qualcosa di eterogeneo, moltitudinario, articolato, in divenire, allora lo stesso metodo epistemologico scelto per l’analisi dovrà essere plurale e capace di articolarsi in più saperi, realizzando così quanto già suggeriva Francis Picabia in un suo quaderno: «bisogna essere nomadi, attraversare le idee come si attraversano le città e le strade»[2]              

Ad ogni modo è però necessario precisare il perché della scelta di porre al centro dell’attenzione la città, nelle sue molteplici articolazioni, avendo comunque come obiettivo la riflessione sulla relazione tra politica e le nuove forme di spazialità sociale. Una prima ragione, anche se molto generale, si può indicare nel fatto che la città rappresenta probabilmente uno dei principali centri della politica di oggi e di domani. Di seguito si proverà così a elencare alcune delle motivazioni che sembrano confermare quanto appena detto:

1) La stessa Commissione Europea, già nella stagione programmatoria 2007-2013, indicava nella città il centro propulsore dello sviluppo regionale, nazionale e internazionale, considerandola come snodo nevralgico per la costruzione di alleanze e collaborazioni tra i vari contesti e livelli amministrativi. Volendo riportare un esempio concreto dell’esito di tali indicazioni, si può leggere il ‘Piano per linnovazione urbana’ della città di Bologna, il quale rappresenta il primo tentativo a livello nazionale di elaborazione di una governance condivisa e diffusa per tutto il territorio metropolitano. Nel documento si leggono parole importanti di per sé molto esplicative: «La pianificazione strategica può essere definita come la costruzione di una visione condivisa del futuro che un territorio si dà, ossia una meta che tutti gli attori del processo intendono perseguire e di conseguenza l’individuazione delle azioni e i progetti necessari per il suo raggiungimento. Un percorso che vede la partecipazione, la discussione e l’ascolto come elementi indispensabili del processo stesso. Il patto fra amministratori, stakeholders, cittadini, come atto di responsabilità dei vari attori nella realizzazione e attuazione dei progetti. Si tratta, dunque, di un metodo e di un processo di pianificazione che privilegia le analisi prospettiche e di scenario; riconduce la complessità e la specificità locale a un unico disegno strategico»[3]. La città diventa dunque il centro per un progetto di governance che supera i suoi confini tradizionali, facendosi promotrice dell’intero territorio circostante, ciò implica la sperimentazione di nuove tipologie amministrative, lo stesso concetto di cittadinanza muta radicalmente poiché il cittadino non è più semplice detentore di diritti e doveri, ma si rende co-produttore nella gestione della propria città, il che mostra chiaramente anche come la divisione classica tra governanti e governati è soggetta a profondi fenomeni di ibridazione.

2) Gli studiosi sono concordi nel sostenere che la tendenza riguardante il processo di urbanizzazione a livello mondiale, vede una progressiva concentrazione delle persone nei grandi agglomerati urbani i quali arriveranno a costituire delle gigantesche riserve di energie e valore. Bisogna poi riconoscere che vi è in atto anche un corrispondente processo di segno opposto il quale spinge per un ritorno alla vita in zone rurali ed una conseguente riscoperta della natura in maniera non romantica (ciò costituisce certamente uno degli aspetti che hanno favorito la riscoperta del tema della comunità).

3) Le città rappresentano le radici del sistema produttivo contemporaneo, ne formano la struttura fisica, nonostante l’apparente predominanza della dimensione virtuale (si sta pensando ovviamente alla finanza), ma il Capitale necessita sempre di una spazialità fisica dove istallarsi e di un territorio dove muoversi.

4) La concentrazione di sempre più persone in poche ma gigantesche regioni urbane, risulta essere un fattore decisivo per quanto riguarda la questione relativa alle potenziali conflittualità che possono esplodere in una metropoli, e già oggi si hanno numerosi esempi a questo proposito.

5) Alla luce dei motivi appena elencati è inoltre possibile affermare che le città costituiscano l’unico luogo dove effettivamente può nascere una reale alternativa, in termini di pratiche e forme di vita, capace di spezzare l’egemonia neoliberale.

Così, se Carlo Galli ha ragione quando scrive che «è attraverso rappresentazioni spaziali che le teorie politiche formano i propri concetti, dispongono i propri attori, ne organizzano le azioni, e disegnano i fini della politica in termini di collaborazione e di conflitto, di ordine e disordine, di gerarchia e di uguaglianza, di inclusione e di esclusione, di confini e di libertà, di sedentarietà e di nomadismo, di marginalità e di centralità»[4], allora quanto accade nelle città, finisce inevitabilmente per ridefinire l’intera geografia della politica, sia in termini di strutture che di forze.

Prima di concludere questa breve presentazione, è comunque necessario sottolineare ulteriormente quello che probabilmente costituisce l’assunto teorico-filosofico a partire dal quale prende avvio l’intero progetto, ovverosia, l’idea secondo cui lo spazio sia sempre una costruzione sociale: non esistono cioè spazialità neutrali o vergini. Idea tra l’altro che affonda le sue radici già nel Rinascimento quando per la prima volta emerge la concezione di uno spazio storico, uno spazio dove l’uomo è attore e produttore, soggetto a leggi umane e non solo divine o naturali. Lo spazio smette quindi di essere il risultato di una semplice narrazione immaginosa, esso diventa un soggetto che si differenzia in molteplici parti ed inizia a pensarsi politicamente (si consideri solo il significato dell’introduzione in pittura della prospettiva). Inoltre, nonostante in un primo momento una simile affermazione possa risultare quasi banale, se vi si riflette con attenzione, le implicazioni che comporta sono davvero notevoli:

1) Pensare una spazialità in questi termini, significa pensare contemporaneamente agli interessi che l’attraversano e plasmano, impone quindi lo schierarsi, l’adottare cioè una prospettiva ben precisa che accetta l’impossibilità di un’oggettività scientifica e della neutralità progettuale.

2) Permette di osservare lo spazio non più solamente come vincolo, sotto la luce della necessità, ma soprattutto in quanto condizione per la perenne potenzialità di ridisegnare forme e limiti, cioè quale dimensione propria della contingenza, che a sua volta acquista una certa rilevanza politica se declinata nei termini ad esempio di possibilità per la creazione di un’alternativa. Questo aspetto diventa poi ancora più importante se pensato a proposito del tema del neoliberismo, la cui spazialità e forma viene così rimessa in discussione a favore della ricerca di differenze produttive e, appunto, realmente alternative.

3) Parlare di spazio nei termini di costruzione sociale solleva poi anche la questione relativa al rapporto tra esso e il corpo, il quale spesso viene assunto in maniera scontata, quale entità presente a priori, oppure viene assunto necessariamente come punto di riferimento privilegiato per la progettazione dello spazio medesimo, quando invece la corporeità è qualcosa di molto più ricco e irriducibile.

Volendo infine individuare un autore di riferimento, certamente si può indicare in Henri Lefebvre colui che per primo e in maniera più esplicita di altri ha posto questi temi e problemi, basti pensare alle sue opere Le Droit à la ville (Il diritto alla città, 1968),  Espace e politique (Spazio e politica, 1972) e La production de lespace (La produzione dello spazio, 1974), le quali permettono proprio di tracciare la via per il ripensamento del rapporto tra nuove spazialità e politiche, nonché di riaffermare un diritto alla città che diventa diritto ad una forma abitativa umanamente degna, ad essere co-sovrani di una spazialità anche personale e quotidiana, fuoriuscendo dagli obblighi governamentali, ma soprattutto alla possibilità di impegnarsi per rompere, dice Lefebvre: «i meccanismi di riproduzione dei rapporti di produzione esistenti»[5]. Un diritto insomma ad una politica realmente capace di pensare gli spazi di vita individuali e collettivi sia presenti che futuri, con la consapevolezza che i territori non sono semplici località astratte, ma luoghi dove vivono e proliferano desideri, bisogni, corpi e dove l’istituito può benissimo essere trasformato. Come scrive Cacciari: «Il territorio post-metropolitano è una geografia di eventi, una messa in pratica di connessioni, che attraversano paesaggi ibridi. Il limite del suo spazio non è dato che dal confine coi è giunta la rete delle comunicazioni […] ma è evidente che si tratta di un confine sui generis: esso esiste soltanto per essere superato. Esso è in perenne crisi». [6] Se la città diviene effettivamente una  ‘Città infinita’[7], sorge spontaneo chiedersi: rispetto ad essa qual è lo spazio della politica?


[1] Carl Schmitt, Le categorie del «politico»: saggi di teoria politica, a cura di Gianfranco Miglio e di Pierangelo Schiera, Bologna: Il Mulino, 2013.

[2] Francis Picabia, Ecrits, testi riuniti e presentati da Olivier Revault d’Allonne, Paris: P. Belfond, 1975, p. 24.

[3] http://comunita.comune.bologna.it/il-piano-linnovazione-urbana-di-bologna

[4] Carlo Galli, Spazi politici: l’età moderna e l’età globale, Bologna: Il Mulino, 2001, p. 11.

[5] Henri Lefebvre, Spazio e politica : il diritto alla città, 2, traduzione di Francesco Pardi, Milano: Moizzi, 1976, p. 12.

[6] Aldo Bonomi e Alberto Abruzzese (a cura di), La città infinita, Milano: B. Mondadori, 2004, p. 52.

[7] Cfr., Ivi.

Scritto da
Andrea Baldazzini

Ricercatore Senior presso AICCON, centro di ricerca dell’Università di Bologna dedicato alla promozione della cultura della cooperazione e del non profit, dove si occupa di imprenditoria sociale, innovazione e trasformazioni dei sistemi di welfare territoriale. Svolge inoltre attività di formazione e consulenza per organizzazioni di terzo settore e pubbliche amministrazioni. Per «Pandora Rivista» è membro della Redazione.

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