Recensione a: Giovanni Gerardi (a cura di), Progetti di pace. Il dibattito sulla “Pace perpetua” in Germania (1795-1800), presentazione di Renato Pettoello, Morcelliana / Scholé, Brescia 2024, pp. 256, 25 euro (scheda libro).
Scritto da Giuseppe Perinei
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«Certamente non è mai esistita una combinazione di termini più insensata di quella contenuta nell’espressione diritto di guerra» (p. 116). Queste le lapidarie parole di Fichte con cui il filosofo tedesco nel 1796 tornava a riflettere sulla idea kantiana di pace perpetua. Certo, Fichte e altri come lui, più tardi, problematizzeranno le proprie posizioni, ma fa una certa impressione, più di duecento anni dopo, rileggere oggi, da qui, queste granitiche convinzioni, che si aggiungono a quelle di Kant e di diversi altri intellettuali dell’epoca: la guerra per loro, in quanto violenza e ingiustizia, era talmente incompatibile con una qualunque accezione del diritto, che sarebbe stato impensabile trovare questi due concetti, guerra e diritto, presenti addirittura nella stessa frase.
In Progetti di pace. Il dibattito sulla “Pace perpetua” in Germania (1795-1800), edito per Morcelliana/Scholé, Giovanni Gerardi traduce in italiano e raccoglie in un unico volume i contributi più significativi del dibattito tedesco sulla pace avviato da Kant nel 1795 con la pubblicazione di Zum ewigen Frieden (opportunamente tradotto con Alla pace perpetua, più fedele alla lettera del titolo kantiano). Sono la recensione pubblicata nel 1796 da Johann Gottlieb Fichte, il Saggio sul concetto di repubblicanesimo di Friedrich Schlegel, comparso lo stesso anno, il pamphlet politico di Joseph Görres La pace universale, un ideale del 1798 e il saggio di Friedrich Gentz Sulla pace perpetua uscito nel 1800.
La traduzione dei cinque scritti è preceduta da un saggio introduttivo, in cui Gerardi ricostruisce con puntualità il confronto tra i contemporanei innescato dalle tesi kantiane. Il testo di Kant fu, già allora, un grande successo editoriale e anche oggi appare aver perso pochissimo della sua efficacia. Non soltanto perché, per dirla con Norberto Bobbio, propone «idee fra le più audaci e illuminanti che mai siano state concepite sul grande tema» ma probabilmente anche per il fatto di rappresentare l’uscita da un approccio solo retorico ed esortativo al tema, proprio di gran parte della tradizione precedente, e si ancora invece ad una prospettiva critica che mette in questione direttamente la necessità di ripensare l’ordinamento statale e il complesso dei rapporti tra gli Stati.
È risaputo che il testo di Kant simula un trattato di pace tra gli Stati, con articoli preliminari, definitivi (quelli in cui più propriamente si trova «un sicuro orientamento per chiunque sia convinto che il problema dell’eliminazione della guerra è diventato il problema cruciale del nostro tempo», ancora Bobbio), i supplementi e l’appendice. Separazione dei poteri e rappresentanza, consenso dei cittadini, legittimità giuridica degli enti sovranazionali (Stato mondiale o federazione di Stati?), per non parlare del diritto alla ospitalità universale: è superfluo (e forse un po’ sconfortante) sottolineare quanto gli stessi nodi politici indicati da Kant in questo testo mantengano oggi intatta tutta la propria urgenza. A colpire (sia in considerazione dell’allora sia, di nuovo, dell’oggi) è poi la cura con cui Kant respinge allo stesso tempo tanto il rischio di una prospettiva utopistica (l’anelito alla pace universale come sogno impotente, incapace di influire sul corso delle cose), quanto quella del realismo politico, ovvero il rifiuto di applicare le categorie della morale individuale alle relazioni politiche.
Il merito principale di Gerardi, nella sua lunga introduzione, consiste nell’offrire al lettore una comprensione chiara ed efficace dei problemi in questione, nel rendere trasparente il linguaggio adoperato da Kant e dai suoi recensori a dispetto di alcune asperità terminologiche, nell’appianare alcuni nodi teorici ricostruendo fedelmente e semplicemente le argomentazioni di tutti. Le zone d’ombra che possono aprirsi attorno ai concetti vengono illuminate riportando in modo rigoroso il dibattito al clima dell’epoca, alla temperie illuministica, al contesto degli eventi in corso nella Francia rivoluzionaria (eventi che rappresentano forse il centro di gravità per tutti gli autori di cui qui si tratta), in modo che sempre si abbia un quadro limpido delle posizioni in gioco.
Gli interventi di Fichte, Schlegel, Görres e Gentz nel dibattito apertosi in Germania dicono delle immediate reazioni (in Italia probabilmente poco conosciute) suscitate dalle tesi kantiane. I primi tre partono da una generale approvazione, ma subito sviluppano un punto di vista autonomo finalizzato ad andare “oltre Kant”. Fichte, ad esempio, pur elogiando il vecchio maestro, tiene a marcare le distanze su un punto: se appare verosimile in Kant la derivazione della pace perpetua dall’imperativo morale di trattare gli altri individui sempre come fini e mai come mezzi, per lui l’ambito del diritto non può avvalersi di categorie desunte dall’etica, perché con quest’ultima, diversamente che per la sfera della giurisdizione, siamo nella sfera dell’incondizionato (rispetto ai contesti storici, politici, geografici). Interessante, al contrario, risulta la convergenza dei due sui rischi della democrazia, considerata negativamente da entrambi come incline al dispotismo, alla quale è preferibile una più moderata trasformazione repubblicana dello Stato. Schlegel, su questo punto, appare decisamente più radicale: repubblica e democrazia coincidono, la volontà generale di Rousseau (ma contro Rousseau) deve poter pragmaticamente realizzarsi come volontà della maggioranza. Da qui: il rifiuto degli sbarramenti di censo e di genere alla partecipazione politica (sbarramenti che ancora Kant riteneva necessari), la patente di legittimità attribuita alla insurrezione, la pace come coronamento politico dell’unico Stato repubblicano universale in cui sarebbe opportuno vivere (contro la kantiana lega di popoli). La necessità della pace, cioè, deriverebbe per Schlegel non dall’ambito della natura, ma dall’esperienza politica e dai suoi principi pratici. È del tutto evidente, qui, l’eco potente degli eventi in corso nella Francia rivoluzionaria e nelle conseguenti guerre europee, rispetto a cui il mondo intellettuale tedesco prendeva posizione appassionatamente.
Nodo centrale del dibattito è senz’altro la questione dell’analogia: se sia possibile o meno estendere al rapporto tra gli Stati e i popoli le stesse categorie adoperate per regolare i rapporti giuridici tra gli individui all’interno di uno stesso Stato. E dunque: quali organismi sovranazionali? La federazione di repubbliche o un unico Stato di popoli?
Gentz in questa ricostruzione è l’autore che assume le posizioni più nettamente critiche dell’intero impianto teorico kantiano finalizzato alla realizzazione della pace. Dapprima suo allievo, poi conservatore al seguito di Burke, di cui condivideva il giudizio sprezzante per la rivoluzione dell’89, Gentz ha tuttavia il merito di non banalizzare, non sminuire, né di farsi apologeta della guerra: la pace sarebbe certo un traguardo e il pacifismo non è una chimera degli ingenui. Tuttavia, nessuna delle strade indicate da Kant lo persuade, anche perché non tengono conto proprio di quella «grande artefice natura» che, lungi dall’essere garanzia di concordia in quanto in armonia con i fini della ragione, sembra piuttosto alimentare un incoercibile impulso al conflitto e alla distruzione tra gli uomini (interessante qui notare la consonanza con le posizioni del Freud degli anni Trenta, nel celebre scambio pubblico con Einstein sul medesimo tema). Le condizioni della pace in Europa sarebbero invece più realisticamente da cercare nella costruzione di rapporti di equilibrio tra gli Stati, specie tra le potenze: un compito mai assolto una volta per tutte, sempre in fieri.
Al merito maggiore di questo testo, che è risalire a un confronto su un argomento tra i più decisivi della tradizione politica occidentale, se ne aggiunge un altro, più sullo sfondo, che forse si determina perfino al di là delle sue stesse intenzioni. Si tratta del recupero di alcuni termini, di alcune ragioni, di un linguaggio, che paradossalmente appaiono scomparsi dal discorso pubblico proprio nel momento in cui ve ne sarebbe più bisogno.
Nell’epoca in cui tutti dicono di tutto attraverso ogni tipo di canale comunicativo, una specie di segreta proibizione colpisce qualche parola, al punto che chiunque osi ancora ricordarsene, e pronunciarle, viene aborrito, o irriso, o compatito come un reperto del passato. Sembra che pace sia incluso in questa strana lista di proscrizione. Non si è mai speso così tanto in armamenti, mai dalla Guerra Fredda il mondo è apparso così sull’orlo di una spaventosa escalation, eppure la rimozione collettiva impedisce perfino di mettere a tema l’esigenza di una pacificazione universale. Se i limiti del nostro linguaggio fossero davvero i limiti del nostro mondo, allora questo Progetti di pace non sarebbe un testo prezioso soltanto per appassionati lettori di filosofia tedesca.