Scritto da Giacomo Bottos
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La traiettoria seguita dall’economia negli ultimi decenni, e le crisi che ne sono derivate, spingono ad una riflessione critica sul pensiero economico. In questa intervista Stefano Zamagni ricostruisce nella prospettiva dell’economia civile il movimento del quarantennio che abbiamo alle spalle, riflette sul ruolo del mercato e sul suo rapporto con lo Stato e discute il concetto di terzo settore. Zamagni è Professore di Economia all’Università di Bologna, Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e Presidente della Commissione Scientifica di AICCON – Associazione Italiana per la promozione della Cultura della Cooperazione e del Nonprofit.
Per iniziare la nostra conversazione le chiederei di fornirci qualche coordinata sul movimento generale dell’economia globale negli ultimi decenni, in particolare partendo dalla fase di passaggio avvenuta tra anni Settanta e Ottanta, che ha inaugurato una nuova fase del sistema economico, per poi soffermarsi sulla crisi del 2007-2008.
Stefano Zamagni: Il periodo storico nel quale ci è dato di vivere può essere opportunamente caratterizzato come ‘seconda grande trasformazione’ di tipo polanyiano, riprendendo il titolo di un libro – veramente magistrale – pubblicato nel 1944 da Karl Polanyi. Ne La grande trasformazione, Polanyi faceva riferimento a quanto accaduto alle società occidentali, e in particolare a quelle dell’Europa occidentale, a seguito della prima e della seconda rivoluzione industriale. Ebbene oggi ci troviamo nel pieno di una seconda grande trasformazione di tipo polanyiano caratterizzata da due fenomeni di portata epocale che sono, da un lato, la globalizzazione e, dall’altro, la rivoluzione delle tecnologie digitali. Due fenomeni che si sono accavallati – avendo preso le prime mosse nel periodo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – e che hanno profondamente contraddistinto gli ultimi quarant’anni. Tanti sono stati i documenti e i lavori che hanno analizzato e descritto sia l’uno che l’altro, ma la prevalenza di questi studi ha riguardato l’aspetto fenomenico, di superficiale. Lavori utili beninteso, ma a mio modo di vedere gli studiosi, salvo qualche rara eccezione, non hanno indagato le cause profonde di questi mutamenti e soprattutto le conseguenze collegate ai due fenomeni. Penso che oggi, soprattutto alla luce dell’attualità più recente, sia giunto il momento di interrogarsi proprio su quelli che sono stati le cause e gli effetti di questi due processi intrecciati. Limitarsi a rispondere – come spesso accade – che la globalizzazione ha rappresentato un allargamento delle opportunità di scambi non è sufficiente, perché questi fenomeni avevano luogo anche in fasi precedenti e l’internazionalizzazione delle relazioni economiche risale addirittura all’antichità. La globalizzazione, invece, aggiunge qualcosa di specifico che quasi mai viene preso in considerazione. Non dimentichiamo che tecnicamente la globalizzazione ‘inizia’ in seguito all’incontro avvenuto nel novembre del 1975 vicino a Parigi, quando nel castello di Rambouillet si tenne il primo G6 a cui parteciparono Stati Uniti, Francia, Germania Occidentale, Giappone, Regno Unito e Italia. L’anno successivo all’incontro venne ammesso anche il Canada, e il G6 divenne l’attuale G7.
In quell’occasione venne presa la storica decisione di rendere oggetto di transazioni economiche internazionali non solo gli output, cioè le merci e i servizi prodotti, come era sempre stato, ma anche gli input, ed è così che nascono il mercato globale del lavoro e dei capitali, da cui il fenomeno ormai noto come finanziarizzazione dell’economia. Un fenomeno inizialmente generato, voglio pensare, in buona fede, con l’intento di potenze dell’epoca in chiave migliorativa delle condizioni di vita del genere umano. La superficialità di questo processo è stata quella di focalizzarsi sulla dimensione puramente economico-commerciale e molto meno su quella filosofico-culturale. Occorreva inoltre porsi una serie di interrogativi, ad esempio quello su come liberalizzando il movimento dei capitali si sarebbe potuti arrivare alla grande crisi del 2007-2008, che è il punto di arrivo di quel processo. Liberalizzare il movimento dei capitali ha significato deregolamentare: pensiamo all’abrogazione – da parte del presidente Clinton nel novembre del 1999 – del famoso Glass-Steagall Act del 1933 che aveva garantito la stabilità finanziaria dopo la crisi del 1929 fino ad allora. Otto anni dopo scoppia, non a caso proprio negli Stati Uniti, la crisi che poi si diffonderà anche in Europa e che diverrà globale. Questa è stata la prima grande ingenuità, dovuta a una visione miope che ha anticipato soltanto gli effetti di breve termine e non quelli di lungo periodo. L’altro limite è stato quello di non tener conto dell’impatto di tutto questo sui modelli culturali delle persone. Come è stato possibile non porsi il problema che la globalizzazione non avrebbe soltanto aumentato il volume degli scambi, semplificando le transazioni commerciali, ma avrebbe avuto anche un enorme impatto sui sistemi di pensiero e sulle culture?
Così ha cominciato ad affermarsi, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, quel modello di individualismo oggi noto come individualismo di singolarità, le cui caratteristiche sono differenti dalle precedenti forme di individualismo. L’individualismo nasce infatti nel Settecento – mettendo al centro della realtà sociale l’individuo rispetto al comunitarismo fino ad allora prevalente –, ma fino agli anni Ottanta del Novecento l’individualismo è stato un individualismo dell’appartenenza, cioè il singolo era al centro, ma lo era in quanto appartenente ad una famiglia, ad una chiesa, ad un’associazione o ad un movimento e così via. Quindi l’io era pensato sempre in relazione con altri io. L’individualismo libertario che comincia ad affermarsi all’inizio degli anni Ottanta – come alcuni filosofi importanti dell’epoca avevano già prospettato, anche se inascoltati – è invece l’idea secondo cui volo ergo sum, ‘voglio dunque sono’ o ‘io sono quel che voglio essere’. Con l’affermazione a macchia d’olio di questa forma di individualismo, sono venuti meno tutti quei legami di tipo orizzontale, variamente denominati, che tenevano insieme la società e che erano alla base della coesione sociale. Con chi pensa ‘io sono quel che voglio essere e il mio destino dipende solo da me stesso’, con chi pensa che il principio sociale unico sia il principio competitivo, com’è possibile cooperare? Al massimo è possibile intrattenere scambi. Ma il principio cooperativo ha ben poco a che vedere con il principio dello scambio di equivalenti. Non v’è dunque nulla da meravigliarsi quando si legge il recente lavoro di Anne Case e Angus Deaton, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 2015, pubblicato negli Stati Uniti e tradotto in italiano nel 2021 per i tipi del Mulino, che ha per titolo Morti per disperazione e il futuro del capitalismo. Deaton e Case scrivono che oggi si muore più per mancanza di speranza che non per malattia o per fame. Il libro fa riferimento agli Stati Uniti, patria dei due autori, ma l’analisi si applica anche all’Europa occidentale e alle altre aree sviluppate del mondo.
L’altra grande questione riguarda la rivoluzione delle tecnologie digitali. Anche su questo vi è stata e vi è molta superficialità di analisi. Se ne sono descritte le potenzialità, un aspetto reso evidente dall’aumento costante della facilità delle connessioni e dagli aumenti di produttività generati. Al tempo stesso, però, si riconosce poco la criticità per cui le nuove tecnologie, mentre aumentano enormemente le connessioni, tagliano e riducono le relazioni intersoggettive. È un grave errore confondere la connessione con la relazione. Poiché la felicità è una questione di relazione interpersonale – l’aveva già detto Aristotele 2.400 anni fa – è ovvio che aumentando le connessioni e riducendo le relazioni si ampliano gli spazi di solitudine esistenziale. Questa è una prima conseguenza; la seconda riguarda il lavoro: è vero, come si dice, che le nuove tecnologie non distruggono il lavoro ma lo modificano, ma se il lavoro cambia e cambiano i profili professionali richiesti e non c’è una strategia, a livello globale, che consenta alle persone che vengono espulse di formarsi e poter inserirsi sulla nuova frontiera tecnologica, si generano fenomeni di esclusione sociale molto seri. Ecco allora che occorre riflettere maggiormente su come le nuove tecnologie interagiscano con la condizione umana, un aspetto che continuerà ad aumentare il cosiddetto mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Si badi che il mismatch non è per nulla un ‘fatto di natura’, ed è grave parlarne come se fosse tale. Il mismatch è conseguenza del non aver saputo cambiare l’assetto istituzionale ed educativo allo stesso ritmo in cui andavano mutando le tecnologie. È maldestramente riduttivo identificare la quarta rivoluzione industriale unicamente come un nuovo paradigma tecnologico. Insistere solamente su tale dimensione non permette di cogliere gli elementi di rottura sui fronti sociale e culturale che questo fenomeno emergente sta evidenziando. Il che non consente di impostare linee di intervento all’altezza delle sfide odierne. Personalmente non mi riconosco né nella posizione dei cosiddetti tecno-pessimisti, né in quella degli esaltatori acritici delle nuove tecnologie. Se hanno torto i laudatori della quarta rivoluzione industriale, non hanno ragione i suoi denigratori. Considero, infatti, l’attuale traiettoria tecno-scientifica come qualcosa di in sé positivo, e comunque inarrestabile, che però va governato con saggezza, cioè con ragionevolezza, e non solo con competenza, cioè con razionalità.
Già in questa prima risposta, che ci permette di avere un quadro preliminare in cui inserire il prosieguo dell’intervista, sono emersi numerosi elementi di un modo diverso di guardare all’economia, in cui anche lei si inserisce, e che potremmo definire ‘economia civile’. Quali sono i tratti principali di questa prospettiva?
Stefano Zamagni: Due sono i paradigmi in economia che oggi si confrontano: quello dell’economia politica e quello dell’economia civile. Paradigma è parola greca che significa ‘sguardo’; quindi il paradigma è come un berillo, nel senso utilizzato da Niccolò Cusano: il berillo è un minerale che gode di una interessante proprietà, infatti osservando la realtà attraverso di esso è possibile vedere cose che diversamente non si possono scorgere. Fino a 35-40 anni fa c’era un terzo importante paradigma, quello dell’economia marxiana, ma dopo la caduta del Muro di Berlino questo è sostanzialmente scomparso, il che non è un bene, perché il pensiero di Karl Marx merita attenzione, sia pure per criticarlo. Il paradigma dell’economia civile nasce in Italia, a Napoli. L’Università di Napoli è la prima al mondo a istituire nel 1753 una cattedra di economia denominata ‘Economia Civile’. Il primo cattedratico fu Antonio Genovesi. Il paradigma dell’economia politica si consolida invece in Scozia e Adam Smith ne è il punto di riferimento. Storicamente, dunque, nasce prima l’economia civile. Fra i due paradigmi vi sono molti punti di sovrapposizione, ma anche punti di differenziazione. Il principale punto di convergenza è che entrambi sono a favore dell’economia di mercato, intesa come modello per organizzare la vita economica e sociale di una comunità. Invece, i principali elementi di differenza sono tre, da cui discendono una serie di conseguenze pratiche.
Il primo elemento è di natura antropologica: l’economia politica accoglie, di fatto, l’antropologia hobbesiana secondo cui homo homini lupus. Gli economisti hanno tradotto questo assunto nel meno spaventoso concetto di homo oeconomicus, un’espressione coniata da John Stuart Mill a metà dell’Ottocento proprio per mettere in guardia contro i rischi che si sarebbero corsi seguendo quella linea di pensiero. L’economia civile rifiuta la categoria di homo oeconomicus – di un soggetto cioè totalmente autointeressato e pienamente razionale – che, al contrario, costituisce la vera infrastruttura filosofica del paradigma alternativo. Durante l’Ottocento si consolida nella cultura occidentale una linea di pensiero che concepisce il mercato come l’unica istituzione in grado di conciliare soddisfacimento dell’interesse personale e perseguimento del benessere collettivo grazie all’operare della mano invisibile. È la celebre metafora introdotta da Adam Smith, il quale se ne serve però per significare proprio il contrario di quanto, successivamente, intere generazioni di economisti attribuiranno ad essa. Il genovesiano homo homini natura amicus (‘ogni uomo è, per natura, amico dell’altro uomo’) è, invece, l’assunto antropologico del programma di ricerca dell’economia civile, secondo cui è homo reciprocans la categoria di riferimento di un discorso che voglia tradurre in pratica la nozione di individualità relazionale; una nozione in grado di far stare assieme esercizio della scelta, l’individualità, e relazione con l’altro, la socialità. Di un secondo elemento di distinzione occorre dire, e cioè del deciso rifiuto da parte dell’economia civile della tesi del NOMA (non-overlapping magisteria) nella ricerca economica. Si tratta di una tesi, per primo difesa in ambito economico nel 1829 da Richard Whately, influente cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa anglicana, secondo cui la sfera dell’economia va tenuta separata da quella dell’etica, se si desidera che la prima possa ambire ad acquisire lo statuto di disciplina scientifica, positivisticamente intesa. Dapprima osteggiata da pensatori del calibro di John Stuart Mill, la tesi della ‘grande separazione’ verrà poi accolta con favore dai protagonisti della scuola di pensiero neoclassica e da allora supinamente sottoscritta, salvo rare eppure notevoli eccezioni, come qualcosa di scontato. Da cui la celebre divisione di ruoli: l’etica è il regno dei valori; la politica, il regno dei fini; l’economia il regno dei mezzi, che in quanto tale deve preoccuparsi solo di giudizi di efficienza. È merito del pensiero economico civile aver mostrato quanta ipocrisia si celi in questo riduzionismo metodologico, solo in apparenza innocuo, e quanto male esso abbia finito col produrre – si pensi solo alla distruzione degli ecosistemi e all’aumento endemico delle disuguaglianze sociali.
Da ultimo, ma non per ultimo, i due paradigmi di cui ci stiamo occupando si differenziano rispetto al modello di ordine sociale che contemplano. Mentre per l’economista politico Stato e Mercato sono le due istituzioni necessarie e sufficienti per assicurare il progresso, l’economista civile ritiene altrettanto indispensabile un terzo pilastro, quello della Comunità, costituita dal variegato insieme dei corpi intermedi della società. Per l’economista civile, infatti, il fine da perseguire è quello di chiedere al mercato non soltanto di essere in grado di produrre ricchezza, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale, di uno sviluppo che tenga in armonia tre dimensioni: quella materiale della crescita, quella socio-relazionale, quella spirituale. Invero, il mercato acivile, mentre può assicurare un avanzamento sul fronte della prima dimensione, non riesce a fare altrettanto rispetto alle altre due. Il mercato acivile è compatibile con la giustizia commutativa e con la libertà in senso negativo (la libertà di agire), ma non lo è con la giustizia distributiva, né con la libertà in senso positivo (la libertà di conseguire). Del pari, mentre il mercato acivile può ‘andare a braccetto’ con assetti politici non democratici, così non è con il mercato civile. Inoltre, l’infrastruttura concettuale del paradigma dell’economia politica non consente che si possa andare oltre la versione orizzontale del principio di sussidiarietà; ma sappiamo che la versione piena di tale principio è quella circolare, secondo cui ente pubblico, business community, società civile organizzata cooperano tra loro, con pari dignità, in vista del bene comune. A questo proposito, è bene ricordare che è alla scuola di pensiero francescana e, in particolare, a Bonaventura da Bagnoregio che si deve la prima formulazione del principio di sussidiarietà circolare come modello di organizzazione dell’ordine sociale.
Lei si è soffermato, ovviamente, sull’importanza del principio della cooperazione all’interno della prospettiva dell’economia civile e, da questo punto di vista, vorrei chiederle di affrontare il ruolo delle diverse forme di organizzazione economica e di attività imprenditoriale proprio a partire dal ruolo della forma cooperativa. Le chiederei in seguito una riflessione sul concetto di terzo settore di cui si è occupato in numerose occasioni, per ragionare anche sul rapporto che esiste tra le attività per profitto e non a fine di profitto: è una distinzione significativa ancora attuale all’interno di questa prospettiva?
Stefano Zamagni: L’espressione ‘terzo settore’ è stata coniata negli Stati Uniti nel 1973 in un saggio del sociologo e antropologo israelo-americano Amitai Etzioni e, sempre nel medesimo anno, in un saggio di Theodore Levitt. Ricordo che nella tradizione italiana non è mai esistita l’espressione terzo settore, ma influenzati dall’egemonia culturale americana, abbiamo finito, come spesso accade, con il conformarci. Non si tratta di una questione meramente terminologica, ma di di sostanza. Nella concettualizzazione culturale americana, fino a non molto tempo fa, l’ordine sociale era pensato come fondato su due pilastri: lo Stato e il mercato. In estrema sintesi, il mercato aveva il compito di garantire l’ottima allocazione delle risorse e di massimizzare il prodotto, mentre lo Stato doveva garantire certi beni pubblici a partire dalla sicurezza. Nel periodo del secondo dopoguerra, ci si è resi conto dell’esistenza di spazi della società dove né lo Stato né il mercato erano in grado di intervenire o nei quali, intervenendo, essi producevano risultati subottimali. È in tale contesto che nasce l’espressione ‘terzo settore’, inteso come settore che viene dopo lo Stato e dopo il mercato, e tipicamente composto da volontariato, associazionismo di promozione sociale, imprese sociali, cooperative sociali, fondazioni, il cui medium finanziario è la filantropia. La filantropia è un’invenzione americana; in Italia abbiamo avuto piuttosto il modello del mecenatismo, tanto che negli Stati Uniti tutte le principali fondazioni portano il nome e cognome del fondatore. Ben diversa, come sappiamo, è la figura del mecenate. Oggi l’espressione ‘terzo settore’ è in via di superamento, anche se passeranno ancora degli anni prima che questo avvenga, perché ci si è resi conto – e i primi sono stati proprio gli americani – che l’ordine sociale si regge su tre pilastri e non solo due: ossia Stato, mercato e comunità. Il terzo pilastro – quello della comunità – è formato da quelli che la nostra carta costituzionale all’articolo 3 chiama corpi intermedi della società. Fra non molto tempo l’espressione ‘terzo settore’ verrà sostituita perché non rappresenta più la realtà: nella concezione descritta poc’anzi, ai soggetti di terzo settore era riservato un ruolo residuale, quello di operare laddove non arriva lo Stato e dove non ha convenienza ad operare il mercato. Diversamente, la nuova concezione, che è tipica dell’economia civile, è quella di affidare ai corpi intermedi della società compiti specifici e soprattutto una pari dignità costituzionale rispetto alle altre due tipologie di soggetti: un avanzamento di non poco conto.
La svolta è avvenuta nel 2017 quando il Parlamento ha approvato il Codice del terzo settore, che fissa un principio assolutamente fondamentale: il passaggio dal regime concessorio al regime del riconoscimento. Fino al 2017, infatti, un soggetto di terzo settore per iniziare ad operare doveva chiedere il permesso di una qualche autorità che aveva la facoltà di concederlo o meno. Nel corso di non poche audizioni in Parlamento e altrove ho sempre ricordato quello che ha scritto Aristotele: ‘Per fare il bene non si deve chiedere il permesso a nessuno’. Dal mio punto di vista, era fondamentale che l’ente pubblico superasse il sistema della concessione per concentrarsi piuttosto sul compito, molto importante, di operare i necessari controlli. Oggi siamo passati al regime del riconoscimento, nel quale l’ente pubblico riconosce ciò che già esiste e questa è una grande conquista di civiltà. Per il periodo più recente ricorderei la sentenza numero 131/2020 della Corte costituzionale secondo la quale, nella trattazione di certe aree, principalmente quelle afferenti il welfare oppure l’ambiente e i beni comuni, enti di terzo settore ed enti pubblici devono essere posti sul medesimo piano, dunque non vi è più una primazia dell’uno sull’altro. È in questo contesto che va considerata l’evoluzione del paradigma dell’economia civile e il suo guadagnare sempre più terreno. Si pensi solo all’ingresso, nella nostra normativa, dei principi di coprogrammazione e di coprogettazione, vale a dire della amministrazione condivisa. Si tratta del riconoscimento, finalmente, del ruolo proprio del principio di sussidiarietà circolare, fino ad ora maldestramente confuso con la versione verticale e orizzontale dello stesso. Una parola di chiarimento è qui opportuna. Tre sono le versioni della sussidiarietà: quella verticale, che chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (in buona sostanza, si tratta del decentramento politico-amministrativo); quella orizzontale che, invece, ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della Pubblica amministrazione così da realizzare una cessione di sovranità; quella circolare che costituisce una forma, ancora inedita nel nostro paese, di condivisione di sovranità. Se la sussidiarietà in senso verticale dice del rifiuto del centralismo e del dirigismo e parla dunque a favore del decentramento amministrativo, la sussidiarietà in senso orizzontale attiene piuttosto al criterio con cui si ripartisce la titolarità delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile, suggerendo in tal modo che la sfera del pubblico non coincide precisamente con la sfera dello Stato e degli altri enti pubblici.
Che dire della versione circolare della sussidiarietà? Si tratta di un principio la cui prima elaborazione risale alla fine del XIII secolo e che deve molto al pensiero di Bonaventura da Bagnoregio e di altri importanti autori della Scuola francescana. Al solo scopo di fissare l’idea, si pensi ad un triangolo, ai cui vertici si collocano l’ente pubblico, la comunità degli affari, cioè il mondo delle imprese, e il variegato mondo degli enti di terzo settore, espressione della società civile organizzata. I tre soggetti devono interagire tra loro in modo sistematico, non sporadico, sulla base di predefiniti protocolli operativi per decidere sia le priorità degli interventi da realizzare sia le modalità di esecuzione degli stessi. È questa una specifica forma di governance basata sulla co-programmazione e sulla co-progettazione degli interventi, il cui fine ultimo è la rigenerazione della comunità. Quella dell’organizzazione della comunità è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta; piuttosto, è una strategia la cui mira è quella di articolare in modo nuovo le relazioni tra Stato, mercato, comunità. Si tratta di riconoscere che non sono soltanto il pubblico e il privato, ma anche il civile, a favorire lo sviluppo umano integrale. La sentenza 131 del 26 giugno 2020 della Corte Costituzionale ha, per così dire, costituzionalizzato tale principio, chiarendo che l’interpretazione degli articoli 118 e 111 introdotti nella Carta nel 2001 – come noto, la Carta del 1948 neppure menzionava il termine sussidiarietà – va intesa come comprensiva delle tre versioni del principio e non solamente delle versioni verticale e orizzontale, come purtroppo si continua a sostenere. Giova sottolineare che mentre le pratiche di sussidiarietà verticale e orizzontale hanno natura additiva – e ciò nel senso che si aggiungono alle pratiche già in esistenza attuate da Stato e mercato, subendone pertanto un doppio isomorfismo –, le pratiche di sussidiarietà circolare hanno natura emergentista: l’entrata in campo del pilastro della comunità va a modificare, col tempo, anche i rapporti preesistenti tra Stato e mercato, oltre che al loro stesso interno. È con la sussidiarietà circolare che il principio di reciprocità può veramente prendere il largo. La grande virtù nascosta della reciprocità – che è un dare senza perdere e un prendere senza togliere – è la sua capacità di trasformare sia la logica dell’obbligazione (Stato), sia la logica dello scambio di equivalenti (mercato). Non è capace di futuro la società in cui scompare o anche solo si affievolisce la reciprocità.
In precedenza abbiamo citato la crisi del 2007-2008: che cosa è successo negli anni seguenti alla Grande recessione, quali dinamiche sono venute maturando? Inoltre, come valutare le più recenti tendenze, e gli effetti dei tragici eventi relativi alla guerra in Ucraina?
Stefano Zamagni: Inizierei dalla parte finale della domanda, quella che riguarda la guerra in Ucraina, una tragedia che chiude il primo ciclo della globalizzazione che era iniziato nel 1989 a Berlino. Con la guerra in Ucraina si chiude la fase che per tanti anni i cultori, anche in buona fede, del pensiero neoliberista avevano caldeggiato, cioè l’idea secondo cui allargare l’area del mercato, accrescere gli scambi di mercato, facilitare tutti i movimenti di beni, di capitali, di conoscenza e di persone avrebbe fatto dimenticare la parola guerra. In molti avevano sostenuto che con la globalizzazione la guerra non avrebbe più avuto ragione d’essere – potrei citare decine di libri e di articoli di prestigiosi economisti e scienziati politici che andavano in questa direzione. La vicenda dell’Ucraina ha dimostrato tragicamente che si trattava di un’illusione. Siamo di fronte ad un conflitto ideologico e identitario, non a una guerra dovuta a ragioni economiche; su questo bisognerà riflettere con attenzione ed è necessario attrezzarsi culturalmente per capire che d’ora in poi occorrerà rivedere le regole della governance sia geoeconomia sia geopolitica. Per essere più specifico, questo significa un ritorno di importanza della politica sull’economia. Fino allo scoppio della guerra in Ucraina, l’idea dominante era che della politica non ci sarebbe stato più grande bisogno, perché il potere economico-finanziario sarebbe stato capace di mettere in subordine quello politico. È in ciò la radice del declino, ormai irreversibile, del neoliberismo.
Venendo alla prima parte della domanda, la crisi finanziaria del 2007-2008 era stata ampiamente anticipata e prevista; qualcuno seguendo il fortunato libro di Nassim Nicholas Taleb l’ha chiamata ‘cigno nero’, ma non è vero. Un articolo dell’economista statunitense, Albert Carr, della Scuola di Chicago, pubblicato nel 1968 sulla prestigiosa «Harvard Business Review» si intitolava, in maniera rivelatrice, Is Business Bluffing Ethical? (cioè ‘è eticamente lecito negli affari truffare?’). Carr, assimilando la finanza al gioco del poker, sosteneva che nell’attività finanziaria non si devono seguire le norme etiche che valgono per gli altri ambiti della vita associata, perché se l’obiettivo è vincere allora è lecito bluffare. Questa visione ha avuto un impatto enorme, anche se spesso la fonte non veniva citata. Tanto è vero che l’articolo non era mai stato tradotto in italiano, l’ho fatto tradurre io pochi anni fa per renderlo più facilmente accessibile agli studenti del nostro Paese e per farlo circolare nelle aule universitarie. Questo contributo, collegato al pensiero di Milton Friedman, nel 1970 ha ricevuto ulteriore sostegno da John Ladd, il cui saggio contiene frasi semplicemente scandalose. Scrive Carr che «gli unici vincoli cui deve sottostare chi fa business sono la legalità e il profitto. Se qualcosa non è illegale in senso stretto ed è profittevole allora è eticamente obbligatorio che l’uomo d’affari lo realizzi». Il punto di arrivo dell’argomento è quello di rovesciare la ben nota regola aurea, un rovesciamento che suonerebbe all’incirca così: ‘Fai agli altri quello che non vorresti che gli altri facessero a te’. Scrive, infatti, Carr: «La regola aurea, per quanto abbia meriti come ideale per la società, non va bene come guida per gli affari finanziari. Per buona parte del suo tempo, l’uomo d’affari cerca di fare agli altri quello che egli spera gli altri non faranno mai a lui». D’altro canto, scrive Ladd, che le imprese sono istituzioni in cui «gli interessi e i bisogni degli individui [in esse operanti] devono venire presi in considerazione solo nella misura in cui pongono condizioni operative limitanti. La razionalità organizzativa impone che questi interessi e bisogni non debbano essere considerati come un diritto o sulla base del merito. Se pensiamo ad un’organizzazione come ad una macchina, è agevole capire perché non possiamo ragionevolmente aspettarci che essa abbia una qualche obbligazione morale nei confronti delle persone o che queste ne abbiano nei suoi confronti». Poco più avanti nel testo, in convinto appoggio alla tesi di Carr, si legge: «Per ragioni logiche è improprio aspettarsi che la condotta organizzativa si conformi ai principi ordinari della moralità. Non possiamo e non dobbiamo aspettarci che le organizzazioni formali e i loro rappresentanti quando agiscono nella loro veste ufficiale, siano onesti, coraggiosi o che possiedano integrità morale […] Azioni che sono errate in base agli standard morali classici non lo sono per le organizzazioni […] se quelle azioni servono gli obiettivi dell’organizzazione». Il modo di vedere che ne è derivato è entrato nelle aule universitarie e nei dipartimenti di economia, delle più prestigiose business school, finendo con l’influenzare le agende dei policy maker dei Paesi dell’Occidente avanzato.
Mi piace anche fare parola del modello famoso di tre economisti statunitensi, Black, Scholes e Merton – due dei quali ottennero poi il premio Nobel per l’economia, e non il terzo per prematura scomparsa – che contiene un errore teorico assai grave, ma che tuttavia è stato accolto, con grande gradimento, da banche e istituzioni finanziarie desiderose di aumentare all’infinito il volume delle transazioni a mezzo di derivati, come i CDO collateralized debt obligation o i CDS credit default swap. Non si può dunque pensare a questa crisi finanziaria come ad un evento catastrofico, perché è stata il risultato di un percorso ben preciso. Una volta scoppiata, occorreva prendere posizione e cambiare quelle cause, cosa che non è avvenuta; sono stati messi dei cerotti, senza però ricorrere ad un bravo medico per guarire la ferita in maniera definitiva. Si pensi anche al devastante fenomeno dei paradisi fiscali: come è possibile che ancora oggi essi possano operare indisturbati? Un paradiso fiscale è la quintessenza dell’immoralità – e uso questo termine nel senso della business ethics. Pensiamo all’Unione Europea, che al proprio interno consente ancora quattro paradisi fiscali – Olanda, Irlanda, Lussemburgo e Malta. Ecco allora perché occorre essere più seri e che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Certo, è plausibile ritenere che alcuni degli errori che ho citato siano stati anche commessi in buona fede, ma non si può ammettere che una volta scoperto l’errore non lo si dichiari, perché ciò non consente di trasformare – e non semplicemente riformare – l’assetto istituzionale. Per concludere. Se ben note sono le difficoltà di procedere sulla via della strategia trasformazionale, del pari noto è che il ‘senso della possibilità’ (Robert Musil) dipende non solo dalle opportunità e dalle risorse disponibili, ma anche dalla speranza. Due sono i modi, entrambi errati, di affrontare le sfide odierne. L’uno è cedere alla tentazione di restare al di sopra della realtà attraverso l’utopia; l’altro è non contrastare la tendenza a rimanere al di sotto della realtà con la rassegnazione o con il misoneismo. Dobbiamo tutti cercare di evitare trappole del genere, ma soprattutto devono farlo gli intellettuali che sono vocati a ciò.