Recensione a: Giampiero Massolo e Francesco Bechis, Realpolitik. Il disordine mondiale e le minacce per l’Italia, Solferino Libri, Milano 2024, pp. 224, 17,50 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Il libro Realpolitik, frutto della collaborazione tra l’ambasciatore Giampiero Massolo e il giornalista Francesco Bechis, si muove tra le fratture del presente con l’obiettivo non solo di analizzarle, ma proprio di rileggerle tramite un nuovo lessico che consenta al nostro Paese di trovare una bussola. Una bussola che si identifica con l’interesse nazionale, concetto dalle sfumature profonde, per anni espunto dal dibattito e oggi ritornato, più che per scelta, per necessità. Come definirlo? Per gli autori, si tratta di un «obiettivo che uno Stato non può evitare di perseguire senza creare danno alla collettività. È un atto di sintesi, una decisione politica per eccellenza che ne definisce i contenuti» (p. 11). Appaiono evidenti le radici vestfaliane: l’interesse nazionale è, per l’appunto, nazionale, in capo allo Stato, a tutela della collettività, ossia il suo popolo, identificabile in un territorio ove si esplica la sovranità, ovvero il governo, organo apicale cui compete la decisione politica.
Di che politica si parla nel volume di Massolo e Bechis? Di realpolitik. L’aspetto è piuttosto interessante, perché descrive sia l’approccio del libro, che le coordinate da programmare nella bussola stessa. Come approccio, l’elemento centrale è un’analisi a-valutativa, che parte dalle condizioni, più o meno oggettive, del contesto di riferimento, al fine di trarre le diverse conclusioni. Come coordinate, si tratta a ben vedere di una direzione precisa, che può fare storcere il naso a chi combatte per cambiamenti radicali dell’esistente, in quanto parte da una serie di elementi ritenuti fermi – per limiti esterni, che possono spesso e comunque anche coincidere con la sensibilità politica di chi scrive – come, ad esempio, la postura atlantica dell’Italia. Sul punto gli autori sono netti: «Per l’Italia la scelta occidentale non ha alternative: siamo con l’Europa, con gli Stati Uniti, con la Nato. L’ambiguità ha un prezzo troppo alto» (p. 21). Ciò non significa, proseguono gli autori, che non si debba commerciare o cooperare con altre realtà su singoli dossier in nome di un huntingtoniano scontro di civiltà. Semplicemente rimane il punto di fondo dell’appartenenza del Paese.
Tale conclusione può essere letta attraverso le diverse facce del prisma: quella del realismo del vincolo esterno, nel senso che l’Italia non può, per limiti politici, economici e istituzionali, immaginarsi in altre collocazioni; quella della effettiva convenienza ad appartenere al blocco atlantico, nel senso che è proprio nell’interesse della Nazione mantenere tale collocazione; infine, quella della affinità politica e ideale, ossia la declinazione della realpolitik nello schema valoriale di chi scrive. L’elemento centrale è quello della bussola, che allontana posizioni estreme o impraticabili: ad esempio, è irrealistico pensare di non commerciare più dall’oggi al domani con i Paesi non democratici; quindi, «ben vengano gli scambi commerciali con la Cina» o «le interlocuzioni con il Sud del mondo», o con chi milita in fronti avversi, «purché non si confondano i piani». Si pensi a Pechino. Un conto è mantenere aperti i canali degli scambi commerciali nei beni di consumo, considerato il traffico merci che dai porti cinesi arriva nei magazzini delle nostre industrie, un altro è cedere quote importanti di imprese strategiche che detengono attivi tecnologici sensibili. In certi campi, dalla difesa all’aerospazio, sino all’intelligenza artificiale, è chiaro che il tracciato atlantico rappresenta una scelta che maggiormente rispecchia l’interesse nazionale. Sul punto, negli ultimi anni è maturata una nuova consapevolezza, come riconoscono gli stessi autori: si pensi al golden power, che ha saputo innalzare un muro giuridico rispetto a diverse operazioni con controparti cinesi.
Gli autori toccano diversi temi, nel tentativo di esplorare il grande disordine globale senza separare le plurime crisi: si va dalla Russia a Taiwan, dal Medioriente al Global South, passando per le filiere della globalizzazione e la loro metamorfosi. Nello sfondo, incombe la competizione tra le due superpotenze, Stati Uniti e Cina, motore centrale dei movimenti nello scacchiere globale in questa fase storica, con implicazioni sui mercati, sullo sviluppo tecnologico e sulle alleanze militari. Si tratta di una sfida che non si può trascurare e che impone, come si diceva, una scelta di campo, seppure con diverse gradazioni.
Si pensi alla firma nel 2019 da parte dell’Italia, unico Paese G7, del Memorandum con la Cina sulla “Nuova via della seta”, che aveva nel nostro Paese, e in particolare nei porti di Trieste e Genova, un terminale strategico per consegnare le merci al resto d’Europa, sì da coronare la nuova via cinese alternativa alle tradizionali rotte statunitensi e segnata da investimenti infrastrutturali, strade, ferrovie e soprattutto controllo dei porti. L’Italia ha poi, nel dicembre 2023, abbandonato ufficialmente la Belt and Road. Un dietrofront che ha evidenziato come vi sia stata una inconsapevolezza circa la direzione da intraprendere nei confronti di Pechino, che si è tradotta peraltro in una figura non ottimale, per usare un eufemismo, a livello diplomatico. Peraltro, l’ambiguità ha segnato la stessa fase tra il 2019 e il 2023, anche alla luce dei vincoli esterni di cui si parlava prima, e in particolare di quello atlantico. Ad esempio, se da un lato l’Italia firmava il Memorandum, dall’altro – come contro-altare, per non scontentare troppo gli alleati americani – si univa nella guerra giuridico-economica avviata da Washington contro Huawei proprio nel 2019: in particolare, a partire da quell’anno l’Italia ha iniziato a controllare, tramite golden power, tutti i contratti di fornitura in ambito 5G aventi come controparti soggetti cinesi quali Huawei e ZTE, intervenendo nelle transazioni tramite poteri speciali nella forma di specifiche condizioni e prescrizioni e, nel 2020, addirittura tramite un veto (in un contratto di fornitura tra Fastweb e Huawei). In altre parole, dal 2019 il mercato del 5G è stato sottoposto a particolare attenzione, nell’ottica di scoraggiare le operazioni con i cinesi in favore di altri fornitori del blocco occidentale come Ericsson e Nokia. Questa ambiguità, questi due piani paralleli, indicano chiaramente come un approccio di realpolitik più affine all’interesse nazionale avrebbe suggerito di agire diversamente, per ragioni di utilità e, se vogliamo, anche di vincoli esterni: «L’obiettivo di far deragliare il nostro Paese dai suoi binari diplomatici tradizionali non è stato centrato. L’adesione italiana al progetto-bandiera di Xi, poi rinnegata, non ha portato vantaggi tangibili sul piano commerciale, né ha lasciato un segno durevole sul nostro posizionamento internazionale. Quella firma ha nondimeno sollevato qualche interrogativo sulla reale percezione della sfida e della minaccia cinese in Italia, rafforzando l’immagine, che talvolta proiettiamo, di un’opinione pubblica più sensibile alle sirene della convenienza che a quelle della sicurezza nazionale. Bene è stato uscirne e perseguire il rafforzamento dei rapporti economico-commerciali con Pechino, al pari di Francia e Germania, tramite strumenti più consueti e tradizionali» (p. 76).
In ogni caso, non c’è solo la Cina. Nel volume le diverse fratture che segnano il disordine mondiale sono lette nel loro insieme e nel continuo intreccio che le informa, anche perché una bussola richiede una visione trasversale, «non ristretta a un singolo ambito geografico, ma ampia e interconnessa, all’interno della quale va collocato il perseguimento degli interessi settoriali propri di tutti i Paesi che non possono definirsi superpotenze» (p. 211). Da qui, l’inevitabile sguardo mediterraneo e sull’Africa del nostro Paese, anche nell’ottica di un contrasto a un terrorismo in parte sconfitto ma mai sopito. Ancora, per l’Europa, costrutto ibrido che si muove nelle proprie contraddizioni tra metodo intergovernativo e metodo comunitario, la prossimità geografica rende il conflitto russo-ucraino una questione, anzitutto, europea. Il mosaico è articolato e presenta colori diversi, dalle sfide tecnologiche (come l’intelligenza artificiale), a quelle industriali (la transizione energetica, oppure l’aggregazione a livello europeo nel settore della difesa), sino a quelle politiche (l’allargamento a Est). Lo sguardo della realpolitik non può permettersi di separare le diverse dimensioni. Si pensi al trilemma di questa nuova Commissione europea: tenere assieme il vecchio paradigma ambientale con l’emergente (e poco ecologico) paradigma militare senza sacrificare quello sociale, nella cornice di una infrastruttura giuridico-economica che limita, per sua natura, il ricorso a risorse pubbliche.
Ci sarebbero tanti altri temi, ma per questo si rimanda alla lettura del volume. Un ultimo elemento che vale la pena menzionare? L’inno al realismo che informa le righe conclusive: «Ne emerge un mondo che può non piacerci. Ma che va visto com’è. Con un ordine superato, senza che sia ancora chiaro quello successivo. Con questo ci troviamo a fare i conti» (p. 211).
Come si diceva, l’approccio realista può risultare indigesto per chi crede nei cambiamenti radicali. Il rischio è quello di un effetto conservativo, che rinuncia a priori alla possibilità di incidere sull’esistente. La politica di rado può permettersi il lusso del realismo, che più si sposa con la dimensione dell’analisi. Eppure – e così sembrano dirci anche gli autori – una chiave di lettura realista è forse, quantomeno in parte, necessaria proprio a livello politico, per tracciare una bussola in grado di rispondere a un effettivo interesse nazionale. Rigettare gli strumenti del realismo in nome di grandi ideali è un’operazione nobile, ma molto spesso può comportare deformazioni nell’analisi che finiscono per sacrificare non solo l’interesse nazionale, ma gli stessi ideali per cui si lottava. L’equilibrio è molto delicato. Un messaggio che si può ricavare da questo volume, che unisce l’ampia esperienza di Giampiero Massolo come ambasciatore e dirigente d’azienda con la penna e lo sguardo attento di Francesco Bechis, è che la scelta di partire da un approccio di realpolitik è già, a prescindere, una buona scelta. Da cui poi, al caso, si può provare a tracciare le diverse direzioni a seconda delle singole sensibilità.