“Rebus immigrazione” di Giuseppe Sciortino
- 28 Novembre 2017

“Rebus immigrazione” di Giuseppe Sciortino

Recensione a: Giuseppe Sciortino, Rebus immigrazione, il Mulino, Bologna 2017, pp. 176, 13 euro (scheda libro)

Scritto da Domenico Antonio Capone

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L’immigrazione è un problema presente sulla bocca di molti ma in modo ben chiaro e definito nella mente forse di pochi, visto l’enorme numero di interpretazioni e soluzioni paventate al riguardo, prive spesso di fondamento alcuno: dal respingimento totale all’accoglienza incondizionata.

Giuseppe Sciortino, docente di sociologia generale presso l’Università di Trento, nel suo ultimo libro Rebus immigrazione cerca di far luce su un tema, quello immigratorio, che egli reputa sì difficile ma non per questo impossibile da affrontare. La trattazione, alternando un’analisi più generale nei primi capitoli ad una più specifica e legata ad una scansione cronologica nella restante e maggiore parte del testo, non dà un peso primario alle soluzioni, pur importanti, dell’autore sull’argomento; mira piuttosto a far capire il perché del rebus, e le modalità del suo manifestarsi.

La tesi sostenuta da Sciortino, con una sintassi semplice ma non semplicistica e un linguaggio sarcastico e sferzante, quasi da pamphlet, è che l’immigrazione sia un rebus poiché fin dalla metà del Cinquecento vi è uno ius emigrandi ma non uno ius immigrandi. Lungo le pagine del testo l’autore indicherà implicitamente al lettore quelle che a suo avviso sono le cause di tale mancanza: da un lato la definizione, a partire dalla Rivoluzione Francese, del moderno concetto di cittadinanza; dall’altro le dinamiche del lavoro succedutesi nel tempo.

Saranno infatti la cittadinanza e il lavoro a determinare tutte le scelte compiute dagli uomini e dagli stati in tema di immigrazione, orientandoli fra liberalismo interno-liberalismo esterno, apertura-chiusura, immigrati-rifugiati, nuclei tematici dell’intera narrazione.

 

Uscire è un diritto, entrare una concessione

Dai tempi della Pace di Augusta del 1555, con l’affermazione del principio del cuius regio eius religio, ad oggi costante è la presenza di uno ius emigrandi ma non di uno ius immigrandi (facendo sì che l’uscire sia un diritto ma l’entrare una concessione), con motivazioni di base però differenti. Nell’Europa moderna, così come in quella medievale, la mobilità delle genti non era fenomeno raro né negato, essendo i sovrani del tempo alla costante ricerca di braccia per l’agricoltura, specie dopo eventi particolarmente cruenti come le guerre di religione del XVI° e XVII° secolo. Ad essere ostacolata era semmai l’emigrazione per la quale non di rado era previsto un indennizzo per tutti quei regnanti orfani dei loro sudditi.

I migranti (compresi gli Ugonotti post Editto di Fontainebleau del 1685, primi rifugiati in senso stretto della storia per l’autore) non destavano grosse preoccupazioni: spesso economicamente benestanti, questi «avevano l’obiettivo di non fondersi con la popolazione locale del nuovo stato, chiedendo ai sovrani condizioni che consentissero la riproduzione di un’identità sociale e legale distinta» (pag.43). Eccezion fatta in alcuni frangenti per alcune categorie di persone, fra cui gli Ebrei in quanto non cristiani. Attualmente invece negli stati liberali (la precisione è d’obbligo come si vedrà), sebbene solo il 3,3% della popolazione sia in movimento (di cui lo 0,5 % costituito da rifugiati, numero non trascurabile[1]), si assiste ad una ciclica insofferenza dell’opinione pubblica in materia, essendo gli immigrati sempre in un numero maggiore rispetto a quanto i cittadini siano disposti a tollerare.

Questa insoddisfazione non è però presente negli stati autoritari, dove la quota di popolazione non autoctona può raggiungere soglie del 85% come in Qatar. Per l’autore ciò è riconducibile sia alla mancata libertà di protesta in tali realtà che alla natura dell’accoglienza: se lo straniero negli stati autoritari è posto in condizioni di subalternità, correndo il costante rischio di essere espulso ipso facto per volere o capriccio del satrapo locale; negli stati liberal-democratici può usufruire invece di una lunga serie di diritti e garanzie. In sostanza: gli stati autoritari possono permettersi una politica meno restrittiva perché vi è un sistema per caste, non dissimile da quello esistente nell’Europa medievale e moderna, dove l’autocrate è l’unico a stabilire chi entra. Gli stati liberal-democratici, fondati sul concetto di eguaglianza degli uomini, devono invece per necessità essere più restrittivi perché tendono all’inclusione dello straniero: in molti casi solo parziale; in alcuni totale con il riconoscimento della cittadinanza.

Pur non appiattendo il rebus immigrazione su un’unica dinamica di possibile o mancato riconoscimento della cittadinanza, Sciortino presta molta attenzione nel suo scritto alla definizione della stessa negli anni della Rivoluzione Francese, momento in cui nasce la moderna contrapposizione fra cittadino e straniero. Se nella sua prima fase cosmopolita la Rivoluzione tende a non creare differenza alcuna fra queste categorie, concedendo ai pélerins de la libertè, i rivoluzionari stranieri, gli stessi diritti di quelli francesi; in un secondo momento, con una svolta nazional-repubblicana richiesta dal dover istituire un nuovo esercito, non più assemblabile come in passato con mercenari, le cose cambiano: saranno infatti cittadini solo coloro che serviranno nell’armée.

Le conseguenze, già profetizzate da Rousseau, sono tangibili: se al cittadino si chiede un di più (nei doveri) rispetto allo straniero, è logico dargli un qualcosa in più (nei diritti) a cui lo straniero non può accedere se non raramente. Durante la Rivoluzione nasce anche la figura dell’émigré, un nuovo tipo di emigrato non più religioso ma politico, appartenente a corpi sociali transnazionali (clero, nobiltà) e in genere stabilizzatosi in uno stato confinante nella speranza di un’imminente restaurazione. Saranno proprio questi nuovi emigrati, francesi divenuti étrangers, estranei alla nazione in quanto nemici della Rivoluzione e pronti a tramare con tutte quelle forze straniere anti-repubblicane, ad alimentare l’immagine dello straniero come nemico del popolo.

 

The Times, They Are a-Changing’

Nei secoli a venire il lavoro, in un mondo sempre più globalizzato, sarà responsabile del maturarsi e complicarsi del rebus immigrazione. Nell’Ottocento, a causa delle prime massicce forme di diseguaglianza economica indotte dalla Rivoluzione Industriale, cambia nuovamente l’immagine del migrante: non più, con l’eccezione dei patrioti di tutta Europa, uomo che si allontana dalla sua terra per preservare il proprio essere (protestanti, chierici, nobili) ma individuo che emigra per cambiarlo, che si muove per viver meglio e guadagnare di più. Le ripercussioni sono evidenti: riprendendo Weber (pag.67) «la migrazione determina una rottura dalla comunità domestica ed economica patriarcale e dai rapporti di forza delle zone di partenza»; il migrante diventa colui che, ad esempio, non si toglie più il cappello al passaggio dei signori. Il costante aumento demografico rende l’immigrazione, nelle parole di Nitti, «una potente valvola di sicurezza contro l’odio di classe» per gli stati di partenza ma una problematicità per quelli accoglienti, pronti a chiudere le frontiere in sintonia con motivazioni etniche e nazionalistiche (pp.79-80).

In queste realtà le principali dimostrazioni anti-immigratorie provengono dalle classi lavoratrici, essendo il lavoratore straniero in genere pagato di meno o adoperato come crumiro. I maggiori stati occidentali provano a superare il problema imponendo un’eguale retribuzione per tutti i lavoratori, con l’obiettivo di rendere il lavoro straniero complementare ma non sostitutivo di quello autoctono. Questa misura, per l’autore, comporta però non solo di richiedere al lavoratore straniero gli stessi doveri (nel monte ore di attività) ma anche gli stessi diritti (nella paga e nell’assistenza sociale) di un lavoratore autoctono. Così facendo si salva l’unione fra liberalismo interno (proteggere il cittadino dagli abusi del potere) e quello esterno (stessa prassi per gli stranieri presenti nel territorio) ma si alimenta l’immagine del migrante parassita della società, che gode degli stessi diritti di un cittadino pur non essendo spesso ancora tale.

Contrariamente alle tesi di Hobsbawn, per Sciortino il Novecento è invece, almeno sul versante dell’immigrazione, un secolo lungo. Se con la Prima Guerra Mondiale emergono molti degli odierni strumenti di controllo (visti, permessi, centri di trattenimento) e la discrezionalità, riconosciuta dal diritto, per ogni stato di fissare con autonomia le condizioni di ingresso e permanenza degli stranieri; con la Seconda, portatrice di un’enorme popolazione in eccesso (apolidi, esuli, reduci dalla Shoah), nasce il diritto internazionale all’asilo (individuale, non collettivo), sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Esso, facendo perno sul principio del non-refoulement, del non respingimento, definisce il rifugiato come colui che a causa delle proprie opinioni politiche o della propria appartenenza a un determinato gruppo sociale ha un timore fondato di persecuzione (pp.107-109).

Questi strumenti porteranno con sé una certa e voluta ambiguità: si affaccerà alle porte dell’Europa una massa di potenziali rifugiati in veste però di migranti, di potenziali lavoratori, essendo le economie del Vecchio Continente nei trent’anni gloriosi alla costante ricerca di manodopera a buon mercato. Si veda il caso francese (dove alla manovalanza algerina, di cittadinanza francese se nata prima dell’indipendenza del 1961, si preferisce quella mediterranea a basso costo e subito regolarizzabile) o quello tedesco (con i festeggiamenti a Colonia nel 1964 per l’arrivo del milionesimo lavoratore straniero). Quando però la congiunta positiva negli anni Settanta finirà ad essere colpiti saranno soprattutto questi lavoratori stranieri, meno qualificati; i quali tuttavia, pur non potendo più contribuire al welfare dello stato di residenza, continueranno a riceverne forme di assistenza poiché per il lavoro svolto per anni sono divenuti ormai denizen, semi-cittadini. Ancora una volta per l’autore, la giusta difesa del binomio liberismo interno ed esterno alimenta l’immagine degli immigrati parassiti della società; i quali d’ora in poi per poter entrare in Europa si presenteranno quasi sempre come rifugiati.

 

L’immigrazione e il mostro gentile

Uno degli aspetti più interessanti del testo, scritto da Sciortino con chiarezza espositiva ed evidente trasporto umano (pag.164), è la descrizione fatta nei capitoli conclusivi del «mostro gentile»[2], somma delle misure prese negli ultimi decenni dall’UE per affrontare il nodo immigrazione e culminanti nella Convenzione di Dublino (del 1990 ma rivista nel 2003 e nel 2013). Queste misure, comprendenti fra l’altro l’istituzione dell’Eurodac (banca dati delle impronte di tutti i richiedenti asilo e degli immigrati irregolari) e robuste azioni contro il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, permetteranno il rispetto del diritto internazionale all’asilo ma renderanno difficile arrivare in Europa per ottenerlo; molto più difficile scegliere dove chiederlo; complicato conseguirlo come protezione perenne (pag.130).

La bellezza di questa «mostruosa creazione» verrà meno quando i principali paesi di transito delle tratte migratorie (specie la Libia) con lo scoppio delle Primavere Arabe si riducono a dei pallidi ricordi di entità statali, facendo al contempo emergere con forza alcune differenze strutturali in seno all’UE. Da un lato i paesi dell’Europa del Nord in grado da tempo di riformare le loro economie e non desiderosi di manodopera a basso costo e non qualificata; realtà dove lo straniero spesso disoccupato è voce negativa sul bilancio del welfare, costantemente invocanti un contenimento dei richiedenti asilo e pronti a spingere gli altri stati dell’Unione a migliorare le loro accoglienze (per non esser più uniche mete ambite). Dall’altro i paesi dell’Europa mediterranea, con economie non riformate appieno e con ampia domanda di lavoratori stranieri poco qualificati[3]. Ne è derivato un generale cortocircuito poiché questi ultimi stati, per l’accordo di Dublino («il primo paese sicuro attraversato dal rifugiato deve concedergli il diritto d’asilo»), accolgono persone desiderose ma impossibilitate ad andare in quelli del Nord; i quali ottengono il massimo risultato pur contribuendo minimamente ai controlli delle frontiere e alla pur prevista ridistribuzione dei rifugiati.

Nonostante ciò, dinanzi alle cretinerie sia del muscoloso populismo di destra che di quello da anime belle di sinistra («l’internazionalismo proletario rivisto da John Lennon», pag.153) il mostro gentile appare per Sciortino unica risposta al rebus immigrazione; naturalmente emendandolo dai suoi limiti: in Europa cercando una collaborazione con i paesi confinanti di transito oltre che ridistribuendo realmente i rifugiati e i costi dei controlli alle frontiere fra gli stati membri; in Italia affrontando strutturalmente e non in modo emergenziale il problema (controllando i posti letto, le procedure per fare domanda di asilo e i relativi tempi di valutazione); stroncando il lavoro nero con l’azione degli ispettori competenti (poiché una volta che le recenti crisi economiche saranno passate ritorneranno flussi irregolari di lavoratori stranieri); concedendo la cittadinanza a chi è cresciuto nella Penisola e decenti luoghi di culto per la popolazione musulmana; selezionando i rifugiati direttamente nei campi (questa misura in verità lascia dei dubbi: non si “rischierebbe” di scegliere solo i migliori?).

Tali proposte appaiono al momento difficili ma non impossibili da attuare: serve forse solo, come ribadito da Sciortino, una classe politica competente che abbia la capacità e il coraggio di farlo.


[1] Abel e Sander, Quantifying global international migration flows [2014].

[2] L’espressione è di H. Enzensberger, che l’ha coniata per definire l’UE nel suo complesso [N.d.A].

[3] Cvajner, The presentation of Self in emigration: Eastern European women in Italy [2012];  Sciortino, Immigration in Italy: Subverting the logic of welfare reform? [2013].

Scritto da
Domenico Antonio Capone

Classe 1993. Laureando in Lettere moderne presso l'Università degli Studi di Foggia. Interessato di storia e antropologia culturale, collabora con una testata locale.

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