“I riformismi socialisti al tempo del centro-sinistra” a cura di Enzo Bartocci
- 12 Maggio 2019

“I riformismi socialisti al tempo del centro-sinistra” a cura di Enzo Bartocci

Recensione a: Enzo Bartocci (a cura di), I riformismi socialisti al tempo del centro-sinistra. 1957-1976, Viella, Roma, 2019 pp. 544, euro 40 (scheda libro)

Scritto da Domenico Romano

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Il volume oggetto di questa analisi è il settimo e conclusivo prodotto della ricerca condotta dalla Fondazione Brodolini sulle culture del Socialismo italiano. L’oggetto della pubblicazione, a cura di Enzo Bartocci, già professore ordinario di Sociologia e Presidente della Fondazione Brodolini, nonché deputato per il PSI nella VI legislatura, è l’analisi dei punti di forza e dei punti di debolezza nella cultura politica che ha accompagnato il Partito Socialista Italiano a diventare partito compiutamente di Governo, abbandonando la postura da partito esclusivamente “di classe”. Il decollo di questa fase inizia nel 1962 quando il IV Governo Fanfani venne supportato dall’esterno (cioè senza ministri) dal Partito Socialista e, dopo le elezioni politiche del 1963 e successivamente al “governo balneare” guidato da Leone, si completa con il primo Governo Moro che vedrà la partecipazione di ministri socialisti (il così detto centro-sinistra organico). L’arco temporale di questa combinazione parlamentare durerà con qualche interruzione fino al 1976.

Volendo sintetizzare al massimo il nucleo problematico oggetto del volume, la domanda di fondo sembra essere questa: considerato che raramente è possibile trovare un periodo così tanto importante e ricco di elementi positivi e politiche favorevoli agli interessi dei lavoratori, talmente duraturi che più di qualche studioso lo ritiene il periodo di maggiore successo per le istanze popolari nell’intera storia d’Italia, come si spiegano i contemporanei esiti contraddittori per il PSI? È bene specificare che per esiti contradditori intendiamo sia quelli propriamente elettorali sia la subalternità politico-organizzativa del PSI sia verso la DC che verso il PCI.

I dati elettorali sono significativamente chiari: il PSI nelle politiche del 1963 raggiungeva il 14% dei voti alla Camera pari a poco più di 4 milioni di elettori per terminare il ciclo del centrosinistra con 3.5 milioni di elettori e il 9.64% dei consensi nel 1976. Nello stesso arco di tempo gli aventi diritto sono cresciuti dai 34 milioni del 1963 agli oltre 40 milioni del 1976. Nei turni intermedi la dirigenza socialista viene colpita molto duramente dal fallimento della unificazione con il PSDI e la scissione del PSIUP) e non recupererà mai la dimensione elettorale del 1963.[1]

Il volume studia questa stagione sotto molteplici punti di vista. I saggi, opera di diversi studiosi, sono classificabili in quattro diverse tipologie. Sono presenti saggi di natura storico-politica che analizzano le vicende del centro-sinistra e dell’autonomia socialista dall’interno del PSI: c’è un resoconto della vicenda della Direzione centrista del PSI (saggio di Luca Bufarale) guidata dalla corrente Riscossa, vincitrice del congresso immediatamente successivo alla doppia sconfitta[2] alle elezioni del 1948; il centrale ed estremamente denso saggio di Bartocci analizza la natura composita degli autonomisti del PSI evidenziando le molte differenze sugli intendimenti e la natura della collaborazione con la DC; viene analizzato il contributo e l’evoluzione specifica della corrente di sinistra del Partito Socialista (saggio di Tommaso Nencioni) e la capacità dei socialisti italiani di leggere bene i cambiamenti della società italiana sul tema del nuovo diritto di famiglia, la cartina tornasole forse più indicativa della trasformazione sociale del Paese in quegli anni senza peraltro slegarli dalla “questione sociale” e quindi mantenendo una differenza sostanziale con i Radicali (saggio di Cesare Pinelli).

Una seconda tipologia di saggi analizza sul piano culturale questa stessa fase, anche qui cominciando con le origini. Analizzare le origini del centro-sinistra sul piano culturale significa affrontare l’originalità dei contributi che il PSI ricevette dalla tradizione liberalsocialista e da quella azionista[3], (saggio di Paolo Bagnoli); nel saggio a cura di Paolo Borioni vengono analizzate le conseguenze sul piano organizzativo della cultura politica degli autonomisti del PSI (e più tardi anche del PCI). L’assenza di rapporto paritario tra partiti (PSI e PCI) e sindacati, tra centro e periferia degli stessi partiti e tra autonomia sul piano sociale e partiti del mondo del lavoro consentono di argomentare la tesi per cui neanche i socialisti effettivamente sono classificabili come partito “socialdemocratico” nel senso che il termine ha se comparato con l’esperienza del centro e del nord Europa. Il saggio d Andrea Riccardi offre il punto di vista degli intellettuali di area azionista anche se non entrati formalmente nel PSI rispetto all’esperienza del centro-sinistra ed infine il testo di Vittorio Emiliani traccia un quadro molto rilevante sulla “penetrazione” dei socialisti nella società italiana dell’epoca. La terza tipologia di saggi riguarda invece delle vere e proprie biografie: quella di Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti e Loris Fortuna (a cura di Alberto Benzoni e Francesco Russolillo, Gianluca Scroccu, e Michele Mioni, tre socialisti che hanno avuto un rilevantissimo ruolo nella storia del Partito e del Paese. Infine un saggio di Benzoni analizza il tema della politica internazionale degli autonomisti del PSI.

Storia di una“epopea”

Come potrà vedere il lettore, questa ampiezza di punti di vista consente di tirare i fili di una “epopea”, quella del centro-sinistra e di spiegarne la contraddizioni di cui si diceva poco fa. È utile mettere brevemente in luce gli aspetti che in positivo ed in negativo sembrano caratterizzare questa stagione.

Innanzitutto tra i punti a favore bisogna parlare del contesto: il centro-sinistra comincia con la fine della lunga coda del dopoguerra e vede il Paese consolidarsi come una moderna e competitiva società occidentale. Come le altre società occidentali anche l’Italia viene attraversata dai movimenti di trasformazione che nascono sia sul fronte giovanile che su quello della rivendicazione da parte dei lavoratori di una maggiore partecipazione ai dividendi della crescita sotto forma di salari e stato sociale. Il regime repubblicano nato con la Costituzione del 1948 garantisce la possibilità che questo conflitto avvenga dentro i canali della democrazia rappresentativa. Sul piano internazionale i cardini della politica estera impostata da De Gasperi dopo il trionfo elettorale del 1948 (alleanza atlantica e processo di unificazione europea) rimangono sostanzialmente immutati ed anzi incrociano in quegli anni la stabilizzazione “pacifica” almeno in Europa occidentale che consente un ulteriore “scongelamento” anche della politica interna. In questo quadro il blocco sociale del lavoro può organizzarsi, stabilendo radicamento ed alleanze, anche sfruttando la peculiare sensibilità di una parte della Democrazia Cristiana in questo senso.

centro-sinistra

L’altra caratteristica che emerge è la profondità progettuale con cui i Socialisti si avvicinano al Governo, un processo ben precedente l’approdo al Governo e che fa leva su due elementi: la tradizione stessa del socialismo italiano che ha radici lunghissime e risale fino al socialismo originario di Turati e, in secondo luogo la qualità dei dirigenti socialisti, una generazione che ha affrontato dei decenni davvero unici della storia d’Italia e del mondo. Il centro-sinistra è stato, per l’osservatore di oggi, veramente un progetto organico, che ha anche completato una quantità di riforme davvero ragguardevole.

La vivacità culturale del PSI, la capacità e la preparazione dei suoi uomini di punta hanno sopperito alle carenze su altri piani, ed hanno contribuito in maniera decisiva a lanciare la società italiana in una profonda fase di modernizzazione.

Il centro-sinistra analizzato in questo saggio ha contribuito in definitiva, alla maturazione politica delle classi popolari del Paese, ha sdoganato la concezione una Stato non più considerato solo uno strumento oppressivo della borghesia al potere e costruito una buona parte del welfare italiano. Questi elementi “luminosi” dell’esperienza del centro-sinistra sono da valutare in maniera ulteriormente positiva se si considerano i rapporti di forza con cui il PSI ha dovuto confrontarsi sia verso destra con la presenza di un vasto segmento conservatore e “resistente” nella Democrazia Cristiana sia verso sinistra con la presenza di un singolare Partito Comunista egemone nel rapporto con il sindacato e più forte da un punto di vista organizzativo ed elettorale.

Il centro-sinistra e la “strategia riformista”

Ma se questi sono stati gli elementi luminosi, sono evidenti anche quelli lacunosi che in ultima analisi si sono abbattuti sul PSI trovandolo molto più fragile ed esposto al logorio.

In primo luogo una vasta, estremamente vasta, parte dell’autonomismo[4] del PSI ha una concezione politicistico-illuminista dell’operazione. I termini non vanno intesi come spregiativi, hanno un significato nobile come erano nobili le intenzioni dei loro promotori (Nenni per i “politicisti” e Lombardi per gli “illuministi”) ma entrambe queste tendenze accreditano l’idea che l’operazione del centro-sinistra non è, in definitiva il graduale coinvolgimento delle classi popolari e dei loro legittimi interessi organizzati tramite partiti e sindacati, ma una operazione “difensiva” in attesa dello scongelamento (dei blocchi sul piano internazionale e del PCI su quello interno). Bisognava difendersi in particolare o verso i rischi di deriva autoritaria di settori dello Stato ritenuti in grado di condizionare la DC; o, nel caso di Lombardi, verso le deficienze intrinseche del capitalismo italiano incapace di generare sufficiente grado di spinta modernizzatrice senza un poderoso intervento dello Stato. I sostenitori della prima versione difensiva finiranno per approvare il politicismo estremo e di fatto l’erosione elettorale (ma anche quella interna al Partito rispetto alla sinistra PSI) o ancora peggio, l’inevitabile nascita di politiche clientelari concepite esse stesse, in origine, come un antidoto al rischio autoritario. Il filone lombardiano appare debole invece proprio per la natura pedagogica. Partendo da una serie di concezioni ritenute razionali in sé, i lombardiani non si concentrano sul nesso tra azione riformatrice e crescita del consenso come leva per costruire, gradualmente, anche i progetti di più lungo periodo preferendo puntare molto su pochi grandi e decisivi progetti. Questa modalità di azione, in sistemi di tipo rappresentativo non funziona. Forse, oltre che una valutazione pessimistica dei capitalisti italiani, qui c’è anche una valutazione pessimistica del ruolo delle classi popolari giudicate come non in grado di costruire nel tempo progetti a lungo termine una volta arrivate nella “stanza dei bottoni”.

È interessante in questo senso aggiungere due note. Da un lato l’evoluzione del pensiero di Antonio Giolitti, in origine un lombardiano e successivamente spostatosi verso posizioni più personali, il quale a fronte delle difficoltà riscontrate in primissima persona nell’azione riformatrice troverà sempre di più nel processo di unificazione europea un ulteriore modalità di produrre modernizzazione ma forse anche qui senza un sufficiente rapporto con la base popolare; dall’altro il rapporto strettissimo tra la cultura politicista-illuminista e l’organizzazione del rapporto tra partito e sindacato che anche per il PSI in definitiva si è configurata secondo i canoni del primato del Partito. Pur se non arrivando al livello della teoria del sindacato “cinghia di trasmissione” questi limiti organizzativi non si sono superati anche perché connessi con i caratteri originari del sindacalismo e del socialismo italiano.

In secondo luogo una posizione di politica estera “debole”. Gli autonomisti sembrano caratterizzati da una visione di politica estera legata ad una logica da terzo polo. L’idea di non essere parte di un blocco (che peraltro aveva accarezzato anche settori della Democrazia Cristiana nel periodo della negoziazione del Patto Atlantico) contribuisce a reiterare una debolezza di schieramento molto poco tollerabile in quella fase dei rapporti internazionali. Anche in questo senso, come detto prima sul fronte della politica interna ed economica, il PSI è in grado di produrre analisi estremamente raffinate, frutto della vivacità del Partito. Vengono ben colte le singolarità nella collocazione geografica dell’Italia, ed il distacco dalla politica pro sovietica, dopo i fatti d’Ungheria, è effettivo e reale; ma non è mai in grado di determinarsi né una scelta chiaramente atlantista come quella operata da alcuni partiti fratelli (Labour) né soluzioni diverse come quelle operate in Francia, date le differenze di status post bellico tra i due Paesi. Tale situazione permarrà probabilmente fino alla presa di posizione sugli Euromissili ma saremo oramai già negli anni Ottanta.

Conclusivamente si potrebbe dire che l’approdo al centro-sinistra appare come il frutto di una riflessione figlia della consapevolezza dei limiti in cui la strategia frontista aveva chiuso il Partito Socialista ma senza l’elaborazione necessaria ad una sfida contro-egemonica. Il prestigio e la storia personale dei dirigenti del PSI garantisce una grande capacità di programmazione e progettazione, adattando la “strategia riformista” al contesto italiano in maniera brillante, ma permane il pessimismo strutturale che i dirigenti socialisti non riescono mai a superare definitivamente. La ricerca continua della “terza via” tra l’approccio socialdemocratico e quello sovietico determina il fatto di non riuscire ad immaginare ed implementare in termini nuovi il rapporto tra blocco sociale del lavoratori ed il complesso partito-sindacato. Il PSI quindi rimane partner minore rispetto al PCI a sinistra perché manca di acquisire anche in parte “l’arma” con cui le socialdemocrazie si avvicinano (o riavvicinano) al governo in Europa nello stesso periodo: la capacità di porsi come soggetto in grado di scambiare pace sindacale con riforme socialiste. L’assenza di quest’arma condanna il PSI alla seconda subalternità, quella verso la DC la cui anima conservatrice riuscirà con successo a rendere molto poco organico l’intervento riformatore di quegli anni proprio perché questo non è sorretto da una vera e propria capacità di radicamento ma solo da una progettazione sia pure molto brillante e profonda.

Nonostante ciò, però, il centro-sinistra va ricordato come una delle fasi di maggiore successo per una politica favorevole ai lavoratori italiani, e di questo i dirigenti autonomisti del PSI portano certamente una parte enorme di merito storico, così come ricostruito in maniera molto profonda dal volume curato da Bartocci.


[1] È il caso di segnalare che oltre i 4.2 milioni di voti del PSI nel 1963 ci sono anche 1.8 milioni del Partito Socialdemocratico.

[2] Del Fronte Popolare contro la DC e del PSI nella concorrenza interna con il PCI.

[3] Va ricordato che diversi esponenti del Partito d’Azione in seguito al fallimento del Partito propriamente detto entrarono nel PSI determinando non poche delle vicende successive del PSI.

[4] Il termine autonomismo va inteso nel senso della corrente del Partito che nei quattro Congressi socialisti tra il 1955 ed il 1961 conduce il PSI alla svolta dalla stagione frontista a quella della collaborazione di Governo con la DC.

Scritto da
Domenico Romano

Nato nel 1984 a Roma. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università La Sapienza. Ha studiato sopratutto i sistemi politici istituzionali anglosassoni ed i partiti politici europei ed americani.

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