Recensione a: Domenico Quirico, Succede ad Aleppo, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 138, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Belmonte
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In un lavoro che attinge all’esperienza accumulata in molteplici “missioni” sul fronte di guerra, Domenico Quirico descrive la distruzione e il massacro della città più colpita dal terribile evolversi dei sussulti del popolo siriano che si era inizialmente sollevato in nome della libertà. Succede ad Aleppo è la testimonianza di un vissuto, della ricerca da parte del giornalista di un alone di verità che sembra assai opaco in un luogo che sembra rappresentare la morte di ogni speranza.
Il reportage si pone su un doppio binario. Il primo è quello del racconto delle esperienze e delle emozioni di un uomo che affronta la terribile lotta siriana, scampando in molteplici occasioni alla morte. Infatti, tutto il testo, è pregno di considerazioni soggettive, e si evince chiaramente il legame affettivo dell’autore con la vicenda narrata. Parallelamente, Quirico analizza, sempre basandosi sulle proprie esperienze, il divenire e l’evolversi di tutta la vicenda bellica. Il giornalista, subito, si appresta a descriverci tutto il suo viaggio siriano come l’Apocalisse di Dürer e la “furia lugubre” di El Greco, e dei suoi cieli agonizzanti.
La penna di Quirico, che dunque unisce nel resoconto analisi e sentimenti, riproduce con impressionante minuziosità ciò di cui l’inviato italiano è stato spettatore. E nel fare questo non si limita ad adottare il punto di vista proprio dell’informazione occidentale, che come lo stesso autore afferma (pag.54), “lavora e arrotonda”. Egli è il testimone oculare della devastazione e della industria democida che quel luogo è divenuto. L’aggettivo poc’anzi usato, democida, non è casuale: viene frequentemente usato dal giornalista italiano che, nel voler rendere parola la sua visione della città come fagogitante il suo stesso popolo, usa questo particolare termine, forse influenzato dall’inventore di tale neologismo, il politologo statunitense Rudolph Joseph Rummel.
Domenico Quirico ripercorre in queste pagine gli anni della guerra civile con la forza di una testimonianza vissuta drammaticamente. Dalle prime manifestazioni contro il regime, sulla scia delle speranze suscitate dalla primavera araba, alle battaglie nelle vie dei vecchi quartieri ormai abbandonati. Dallo scontro tra Armata siriana libera, esercito di Bashar e milizie dello Stato islamico, alla fine della rivoluzione. Un affresco corale che racconta le tormentate vicende dei diversi attori coinvolti nel dramma siriano.
Quirico, in tutto il testo, riporta molteplici dialoghi con vari ribelli siriani, e anche se nel suo lavoro non affronta direttamente il tema delle varie alleanze che si prospettano sui diversi fronti, non evita di esprimere il proprio pensiero su questioni legate al supporto esterno agli insorti siriani e all’aiuto che in qualche maniera viene dato a Bashar al-Assad.
Nei quartieri di Aleppo, nei quali sembra di avvertire gli echi di Guernica, Stalingrado, Sarajevo e Grozny insieme, Quirico entra all’inizio dei tumulti di massa libertari del luglio del 2012, quando stavano manifestandosi le prime insurrezioni contro il regime. La richiesta di instaurazione dello Stato di diritto muoveva le masse che ricordavano il “venerdì della dignità” e il mese del Ramadan del 2011, quando per la prima volta Bashar al-Assad aveva dato ordine agli shabiha di intimidire, scoraggiare e reprimere tutti gli oppositori.
Gli shabiha, genericamente definiti come teppisti di strada, hanno assunto un ruolo significativo durante la rivoluzione siriana. Con questo termine si vogliono indicare gruppi di uomini, organici de facto al regime di Assad, che in abiti civili ma armati, si infiltravano nelle manifestazioni contro il regime, per poi attaccare i manifestanti.
Le masse ricordavano limpidamente anche il 3 maggio del 2012, quando vennero massacrati, durante una spedizione punitiva, quattro studenti universitari. Infatti è proprio allora che diviene evidente l’insorgere dello scontro tra Servizi di Sicurezza e l’ormai formatasi Armata siriana libera, composta da ragazzi, disertori e civili.
Una delle formule più spesso evocate è il takbir Allāhu Akbar, richiesta d’aiuto di un popolo al suo Dio.
Questa volta il popolo si ribella, non rimane inerme e immobilizzato, come quando Bashar padre avevo ucciso quarantamila persone che si erano ribellate. Infatti, Hafiz Al-Asad, nel 1982 aveva affrontato una grave insurrezione di matrice islamica, guidata dai Fratelli Musulmani che portò all’assedio della città di Hama e che ebbe come esito la repressione degli insorti per mezzo dell’esercito e dell’aviazione.
Quirico racconta come il seme della rivolta germogli lentamente e i motivi per battersi man mano aumentino. E dunque, come dice il colonnello Abdul Jabbar al-Okaidi, il primo ad accompagnare il giornalista italiano ad Aleppo, prima o poi bisogna iniziare.
Sin dall’inizio l’armata siriana libera richiede l’aiuto dell’Occidente in quanto civili, studenti e disertori non potrebbero nulla contro l’esercito di Bashar, senza armi e soprattutto senza l’artiglieria contraerea necessaria ad abbattere gli elicotteri che ogni giorno flagellano e castigano gli insorti e le zone non controllate dalle forze governative. I ribelli, ripetutamente, sono colpiti da nails bomb, bombe di chiodi. Quella di Aleppo è una guerra che si consuma tra le strade. Strade parallele in mano a fazioni opposte, che casa per casa lottano tra loro. Il colore della guerra della città non è solo il rosso del sangue, versato a fiumi, ma anche il grigio dei calcinacci, dei palazzi distrutti, delle strade smembrate, del cielo color polvere.
Ma un altro spettro si aggira per Aleppo, quello dell’islamismo radicale. Una componente non sottovalutata dai ribelli che ben sapevano come questi gruppi sarebbero riusciti a infiltrarsi nel conflitto siriano. Due fattori avevano dato il via all’inserimento dei jihadisti, finanziati dall’Arabia Saudita, nella controversia nazionale. Come riporta l’inviato italiano in un dialogo con il dottor Kriem, il primo era stato il disinteresse e la disinformazione dei media occidentali, che avevano fatto sì che tutto passasse inosservato, che la rivoluzione passasse inosservata. Il secondo fattore, quello più importante, era stato il comportamento degli Stati Uniti, della Francia e della Gran Bretagna. Infatti, secondo Kriem, i paesi occidentali avevano fatto pressione sugli Stati del Golfo (volutamente non vengono esplicitati i nomi di tali paesi) che inizialmente avrebbero voluto vendere all’armata siriana libera le loro armi ma poi, a seguito della pesante pressione dei paesi occidentali, avrebbero cambiato piano, non venendo più le loro armi agli insorti.
I più ricchi e i più forti divenivano così i gruppi estremisti, ben armati e finanziati dai Sauditi. Ed erano gli unici che avrebbero potuto sconfiggere Bashar al-Assad. L’interesse dei Sauditi nell’appoggiare gli estremisti in Siria è sicuramente da ricercare nelle profonde differenze religiose e politiche che separano i due paesi. Il primo sunnita wahabita, il secondo a guida sciita alauita. Ed è proprio nelle origini del wahabismo che si trova la risposta. Per al-Wahhab, vissuto tra il 1703 e il 1792, infatti, l’austera moralità del Profeta e l’esercizio della shari’a non lasciavano spazio ad alcun compromesso con alcun ramo dell’islam. Per al-Wahhab si rendeva necessario condurre una jihad contro tutti coloro che erano ancorati ad un islam non radicale o edulcorato attraverso sincretismi religiosi, ritenuti blasfemi dal teologo arabo. Ibn Saud, da cui prende il nome l’Arabia Saudita, aveva sposato le teorie di al-Wahhab.
La posizione dei ribelli, almeno all’inizio, era completamente differente rispetto a quello sparuto gruppo di guerriglieri che cominciarono a intravedersi nella città di Homs, i jihadisti. L’assoluta differenza tra una rivoluzione islamica e quella siriana emerge dalla conversazione di Quirico con il dottor Abderaduf Kriem, direttore finanziario del Consiglio militare dell’armata siriana libera di Aleppo. È lui che spiega all’inviato italiano che la rivoluzione siriana è una rivoluzione borghese di uomini di cultura, professori, dottori, uomini d’affari, pronunciando poi le pesanti accuse, più volte ricorrenti in tutto il libro, contro la negligenza occidentale: «È l’assenza dell’Occidente che aiuta gli islamisti a installarsi! Noi, è terribile dirlo, dobbiamo combattere su due fronti» (pag.60).
Questa assenza è calcolata, secondo alcuni interlocutori del giornalista italiano, perché le dittature sono più “malleabili” di un popolo che si auto-determina al grido “Hurrieh, Bashar, Hurrieh”, “Libertà, Bashar, Libertà”.
È proprio secondo queste dinamiche che si stabilisce la sorte di tutta la rivoluzione. Da una parte Assad, con il suo esercito, brutalmente cerca di riprendere il possesso del suo territorio. Dall’altra vi sono i ribelli, animati dalle loro rivendicazioni ma senza mezzi, costretti a costruire lanciarazzi artigianali con tubi di ottone. Nella piena instabilità, nello scontro di queste due forze, nessuno prevale. Il vecchio mondo non muore e il nuovo mondo stenta a nascere. Con Gramsci, diciamo che è “in questo interregno che si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.
E così, i jihadisti diventano sempre più forti sul territorio siriano, e ad Aleppo. A tre anni dall’inizio della rivoluzione tutto sembra essere cambiato. Quando Domenico Quirico torna ad Aleppo i gruppi islamisti sono diventati la potenza dominante anti-Bashar.
Al-Nusra, Al-Farouk, Ahrar al-Sham sognano l’emirato siriano. Anche se bombardati pesantemente da Russia e Iran, resistono e contrattaccano.
Mentre prima, i gruppi radicali in Siria erano formati da poche decine di persone, adesso presidiano la frontiera di Antiochia con la Turchia, finanziati dagli arabi (Arabia Saudita e Qatar) e comprando armi sui mercati russi. L’armata siriana libera, che sin dall’inizio aveva visto in maniera sospettosa i gruppi radicali, e se ne era servita però contro Assad, per poi pensare di ringraziare e mandarli a casa una volta finita la rivoluzione, adesso giaceva nelle retrovie, tagliata fuori da tutto, tagliata fuori dalla sua rivoluzione a suon di bombe iraniane e russe.
Ed è così che finisce la rivoluzione della Siria libera. E la sua condanna viene firmata da Barack Obama, quando alla fine del suo mandato, nel 2016, dichiara di dover fermare in tutti modi i gruppi radicali, non operando però alcun distinguo tra i ribelli e gli estremisti islamici. E così il dittatore siriano ha vinto, riuscendo a ribaltare qualunque previsione. Anche l’America aiuterà Assad, indipendentemente dalle frasi retoriche come «non aiutiamo il despota».
L’Occidente ha tradito la Siria e siriani che hanno chiesto aiuto sin dall’inizio lo sanno. Nel drammatico teatro di Aleppo si è consumata la più grande manifestazione della tragedia civile. Una battaglia tripolare si è trasformata in una battaglia dicotomica tra potere costituito e potere rivoluzionario islamista. E malgrado tutti i discorsi sul diritto internazionale che si risolve nell’essere un mero riflesso dei rapporti di potere mondiali, e i tanti trattati per contenere le guerre, la violenza, il nudo potere, il Macht weberiano, «può esercitarsi e prevalere senza ostacolo come ai tempi di Attila e Hitler» (pag.130).
Il 2 febbraio 2016, la battaglia decisiva è iniziata e si è conclusa mesi dopo con la vittoria del nudo potere costituito, aiutato in un modo o nell’altro sia dalle potenze occidentali sia dalla Russia, come se tutti fossero sempre stati dalla stessa parte. Ma di chi è, si chiede Domenico Quirico, la responsabilità di tutto questo? Di chi è la colpa della distruzione totale di Aleppo e di tutte le speranze che con essa ha sepolto? Tra Bashar Assad che lotta per riprendere il controllo dei «territori paterni» e per mantenere al potere la sua etnia alauita e i ribelli o i jihadisti che sognano un nuovo ordine attraverso una palingenesi sanguinaria, la colpa dov’è? Ebbene, l’inviato italiano risponde alla domanda che egli stesso si è posto con un lapidario pensiero che è racchiuso tutto in questa frase: «[…] ho avuto sempre l’impressione che avessero tutti torto e ragione, che tutti fossero colpevoli» (pag.97).
Perché in questa tremenda carneficina umana, la verità è stata perduta, tutti hanno perso la verità. «Perché la verità era da un’altra parte. Era con i morti. E forse, ma questa sarebbe la sconfitta più grave, era morta, la verità, con loro. Ad Aleppo». (pag.97).
Quirico, che sin dall’inizio aveva manifestato la sua simpatia per i ribelli siriani, alla fine della sua esperienza sul fronte, riflette su quanto accaduto. Nemmeno i ribelli posseggono la verità. La ragione l’hanno persa anche loro nel corso di questa guerra fratricida che ha messo tutti in ginocchio, che ha trasformato tecnici informatici in cecchini (si veda Capitolo 13), che ha trasformato persone comuni in feroci assassini, che ha distrutto un intero popolo. Questa è la conseguenza di una guerra civile dove, alla fine, nessuno ha ragione e nessuno ha vinto.