Tecnodestra: un estratto dal libro di Andrea Venanzoni
- 24 Marzo 2025

Tecnodestra: un estratto dal libro di Andrea Venanzoni

Scritto da Andrea Venanzoni

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In Tecnodestra. I nuovi paradigmi del potere (Signs Publishing 2025) Andrea Venanzoni affronta l’ascesa della tecnodestra e dei suoi protagonisti: uno dei nuovi paradigmi della politica statunitense.

Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’autore, un estratto del libro tratto dal capitolo Demiurghi del caos? Elon Musk, Peter Thiel e gli altri che si sofferma sulla biografia e la formazione culturale di Thiel, una delle figure cruciali nell’attuale assetto della Silicon Valley.


Vedo Satana cadere come la folgore: Peter Thiel

 

I palmizi aperti a raggiera conducono al corpo architettonico centrale di Stanford, in una cartolina soleggiata che sembra racchiudere, in una baudrillardiana dimensione di ologramma, una nuova Atene californiana.

È qui che prende avvio l’avventura di Peter Thiel, una delle figure più importanti e centrali della Silicon Valley e dell’alta tecnologia. Nonché una delle figure più controverse, ostracizzate, malviste, spesso strumentalmente distorte da un’opinione pubblica che ama odiarlo.

Thiel, di origini tedesche, vive sin da piccolissimo negli Stati Uniti. È brillante, intelligente, colto e curioso. A differenza di molti altri abitanti della Silicon Valley e magnati del tech, in genere informatici o ingegneri, è uno dei pochi a provenire da un solidissimo background di humanities.

Si laurea infatti a Stanford in filosofia, sotto gli auspici di René Girard, da cui prenderà molte delle sue idee filosofiche applicandole con grande acume e puntuto ingegno al mondo degli affari, degli investimenti e soprattutto della inventiva tecnologica.

In seguito si dedica alla carriera legale, avendo conseguito una laurea in legge. Si impiega come assistente di un giudice della Corte suprema, poi si concede una parentesi nella professione d’avvocato e, non ancora pago, nel trading.

Thiel è un uomo che si è ingegnato e reinventato molte volte. Nonostante venga dipinto come un ontologico bastian contrario, tanto da avergli meritato l’appellativo che fornisce il titolo alla sua biografia, The Contrarian, Thiel è un visionario pragmatico che ha percorso, in coerenza con lo spirito americano della frontiera, sentieri oscuri e mai battuti prima.

La sua idea imprenditoriale di base è che la competizione non sia necessariamente un bene; non è importante primeggiare in un segmento sovra-affollato di idee, invenzioni, concorrenti, quanto scoprire nuove piste, nuovi cieli, nuove idee.

L’appellativo, non esattamente commendevole, di bastian contrario oltre che fuori focus è anche piuttosto riduttivo; perché un bastian contrario rifugge di riflesso, con moto pavloviano, la massa, e Thiel questo non lo ha mai fatto.

Molto più semplicemente ha cercato di sviluppare una sua propria visione del mondo, non esattamente coincidente con quella delle masse. Perché Thiel è prima di tutto Signore dei paradossi.

Si laurea a Stanford, epicentro dell’alta tecnologia, dove Internet ha preso avvio, ma anche agglomerato teorico del post-strutturalismo, di irradiazione delle teorie francesi di Foucault, Derrida, Deleuze, Bourdieu, Latour, che si avvitano e si incistano nel cielo incandescente delle teorie critiche e del post-colonialismo e degli studi di genere e delle teorie critiche sulla razza.

Giustizia sociale, redistribuzione, discriminazioni positive, destrutturazione, ai limiti della criminalizzazione, della religione cristiana e dell’Occidente, negli anni Ottanta sono già diffuse, per divenire a tutti gli effetti brodo di coltura della deriva woke che avrebbe impregnato nel profondo gli Stati Uniti, e facendosi in seguito campo di azione su cui confrontarsi nel dibattito civile e politico.

Attorniato da questo clima, Thiel si fa conoscere per la adesione a una agenda intellettuale di segno radicalmente opposto.

Fonda nel 1987, come ricorda Alessandro Aresu, assieme a Norman Book la rivista The Stanford Review, sulle cui pagine si assembla un dibattito che pone in questione, sin dalla radice, gran parte dei convincimenti maggioritari, ai limiti della religione laica e del dogma, nel prestigioso campus e poi a seguire nelle altre università della Ivy League.

La nascita della rivista origina dalla ferma e convinta opposizione alla Rainbow Agenda patrocinata da Jesse Jackson e che in California, e più precisamente proprio a Stanford, ebbe notevole successo, tanto da essere culminata in manifestazioni, cortei, convegni e più in generale nell’adesione di studenti, intellettuali, professori e politici ai suoi punti programmatici.

La Stanford Review riteneva che politiche di integrazione, l’abolizione dei discorsi di odio, la strutturazione di una agenda basata su discriminazioni positive, non fossero altro che maschere comode per celare intenti redistributivi di giustizia sociale e censori, fortemente limitativi della libertà di espressione.

Un punto, questo ultimo, culminato di recente, nel 2016, in una causa intentata dalla rivista contro l’Università e contro la approvazione di un codice di comportamento fortemente limitativo delle espressioni radicali e vinta in tribunale proprio dalla Stanford Review.

Sulle pagine e nella redazione di The Stanford Review, oltre al citato Thiel che peraltro ospitò molti incontri redazionali a casa sua, oltre ad aver continuato a finanziarne la pubblicazione, sono transitate molte delle figure imprenditoriali che la stampa progressista includerebbe nella etichetta di tecnodestra.

Jay Bhattacharya, economista ed esperto di medicina, il quale ebbe un ruolo di primo piano nella prima amministrazione Trump.

Il venture capitalist e angel investor di orientamento fortemente conservatore David O. Sacks, il quale ha avuto un non secondario ruolo di agglutinazione di forze imprenditoriali di sostegno a Trump nella campagna elettorale del 2024, conclusasi con la elezione di Trump alla Casa Bianca.

Joe Lonsdale, venture capitalist con il quale Thiel co-fondò Palantir Technologies.

Bruce Gibney, anch’egli venture capitalist, socio di Thiel nell’avventura di The Founders Fund.

L’intreccio tra cultura, visione del mondo e affari è un aspetto saliente della figura di Thiel, il quale si sente investito a tutti gli effetti di una missione.

Una missione che non consiste solo nel guadagno e nel profitto economico, ambiti in cui ha dimostrato oggettivo, indiscutibile talento, testimoniato da un patrimonio personale che ha scarsi eguali, ma soprattutto nel cercare di fornire una risposta a quella che Thiel vede e legge come una profonda stagnazione della civiltà occidentale.

È Thiel ad aver trasmesso a Musk le preoccupazioni di ordine demografico, ed è sempre lui ad aver brandito la necessità di opporre allo sgretolamento da dentro, per putrefazione e debolezza, del mondo occidentale una forza rinvigorente.

Non è difficile capire, date queste premesse, per quale motivo Thiel risulti così indigesto a politici, imprenditori e intellettuali di sinistra.

In realtà, Thiel è andato oltre e ha dato sufficiente materiale per essere letteralmente, ma strumentalmente, crocifisso in chiave politico-morale ed essere affrescato dai suoi antipatizzanti antagonisti come una sorta di tecno-satrapo che ambirebbe costruire una società feudale tendenzialmente fascista.

Thiel nel 1995 ha pubblicato il libro The Diversity Myth, assieme al prima citato David O. Sacks, un libro urticante contro l’allora germinante politicamente corretto e contro le politiche di inclusione. Alcuni passaggi del testo sono destinati, come inquieti e ritornanti fantasmi, a perseguitare Thiel fino alla fine dei suoi giorni.

D’altronde in una società dell’estrema sensibilità e dell’altrettanto estrema suscettibilità, dentro cui si è fatta largo la cultura del piagnisteo, per dirla alla Robert Hughes, la contestazione brutale dei miti della inclusione, della eguaglianza, non poteva che valere all’autore una lettera scarlatta di ignominia cicatrizzata sulle vive carni.

Thiel e Sacks se la prendevano, nel loro testo, contro i codici comunicativi iper-parcellizzati che finivano per determinare corsie privilegiate per minoranze elevate sul piedistallo di una ontologica minorità, contro la caccia alle streghe di qualunque opinione non conforme ai dogmi delle teorie maggioritarie, contro la torsione e l’inquinamento censorio della libertà di espressione.

E per quanto alcuni passaggi possano risultare un pasto indigesto per animi sensibili, va dato atto ai due autori di aver precorso i tempi visto che il quadro generale, dal 1995 ad oggi, è decisamente peggiorato e molti campus, non solo statunitensi, si sono trasformati in madrase del politicamente corretto e della giustizia sociale.

Scritto da
Andrea Venanzoni

Dottore di ricerca in Diritto pubblico, consulente legale e saggista, scrive regolarmente per «Il Foglio», «TPI», «ItaliaOggi». Ha al suo attivo decine di articoli giuridici scientifici e ha pubblicato volumi su globalizzazione, tutela della libertà, cultura digitale. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Tecnodestra. I nuovi paradigmi del potere” (Signs Publishing 2025), “Pornoliberismo” (Liberilibri 2024), “La tirannia dell’emergenza” (Liberilibri 2023), “La sovranità digitale tra sicurezza nazionale e ordine costituzionale” (con Marco Proietti, Pacini Giuridica 2023) e “Ipotesi neofeudale. Libertà, proprietà e comunità nell’eclissi globale degli Stati nazionali” (Passaggio al Bosco 2020).

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