La crisi valutaria turca tra finanza, geopolitica e consenso
- 27 Agosto 2018

La crisi valutaria turca tra finanza, geopolitica e consenso

Scritto da Gianluca Piovani

5 minuti di lettura

Negli ultimi anni la Turchia è stata al centro di un contesto politico complesso. Il dibattito riguardo il ruolo di questo paese nello scacchiere internazionale si è concentrato sulla crisi in Siria, sui rapporti con l’Unione Europea, su una possibile deriva autoritaria imposta al Paese dal presidente Erdoğan. Dalla metà del 2018, a questi temi si è aggiunta una questione economica che, come si mostrerà nel seguito dell’articolo, diverse connessioni con tale contesto politico. Proprio per questo ai fini di comprendere appieno la rete dei rapporti internazionali turchi risulta fondamentale, in particolare alla luce della recente crisi, approfondire le questioni economiche che la legano al resto del mondo.

La crisi turca può risultare difficilmente comprensibile ad un primo sguardo. Negli anni passati l’economia della Turchia è cresciuta a ritmi elevati e questa crescita prosegue tuttora in modo robusto. Nei primi sei mesi del 2018, il PIL turco è cresciuto ad un ritmo annualizzato del 7.4%: ben al di sopra dell’obiettivo formulato dal governo per il periodo 2018-2020 pari a 5.5%. Il debito pubblico turco è inoltre al di sotto della soglia del 30% del PIL. I buoni risultati da un punto di vista di economia interna hanno permesso ad Erdoğan di rafforzare il consenso e di intraprendere un percorso politico che, sebbene al netto di pesanti scontri, sta per ora portando ad un rafforzamento della sua posizione di potere all’interno del paese.

La situazione turca potrebbe sembrare invidiabile ad un osservatore occidentale, abituato a tassi di crescita del PIL mediamente minori ed a debiti pubblici più elevati. Bisogna tuttavia ricordare che i paesi già sviluppati crescono tendenzialmente a ritmi più bassi di quelli in via di sviluppo poiché per un paese in via di sviluppo è più facile adottare tecnologia già esistente rispetto a quanto lo sia per un paese già sviluppato produrne di nuova. Come conseguenza di quanto sopra si ha inoltre che il debito pubblico in rapporto al PIL si mantiene a livelli inferiori perché il PIL cresce rapidamente. È inoltre tipica l’accumulazione di debito sovrano durante il processo di sviluppo per finanziare a livello statale gli enormi investimenti richiesti: il debito pubblico durante la fase di sviluppo parte quindi da livelli molto bassi, per poi incrementare nel tempo. Ciò può aiutare ad interpretare e spiegare i numeri dell’economia interna turca, senza tuttavia sminuirne gli ottimi risultati.

L’attuale crisi economica turca non riguarda però i dati menzionati, ovvero l’economia interna nazionale, quanto invece quelli che misurano i legami economici del paese col resto del mondo. Erdoğan mantiene rapporti internazionali conflittuali, che dipendono dal ruolo turco in alcune delle più significative partite geopolitiche oggi in corso: dall’intervento sempre più ambiguo nel conflitto siriano alle questioni energetiche e migratorie. D’altra parte è innegabile che l’economia turca, per crescere ed ottenere gli ottimi risultati di cui sopra, si è avvalsa della cooperazione e di legami economici forti con il resto del mondo. La bilancia commerciale turca (che misura la differenza tra le esportazioni e le importazioni) è da sempre stata tipicamente negativa, segnalando la dipendenza dall’estero ad esempio per i consumi di petrolio e per i forti flussi di capitali e investimenti[1]. I capitali esteri hanno svolto un ruolo fondamentale nel finanziare la crescita degli ultimi anni, nonché i grandi progetti infrastrutturali promossi da Erdoğan.

In un mondo di tassi di interesse bassi e spesso nulli, come quello che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, per via delle politiche monetarie estremamente espansive e dei programmi di Quantitative Easing promossi dalle banche centrali dei principali paesi sviluppati, era conveniente per gli investitori alla ricerca di un maggiore rendimento impiegare capitali nei paesi emergenti, dove il ritorno poteva essere maggiore. Ma questa tendenza si sta invertendo. Il rialzo dei tassi d’interesse in corso da parte della Federal Reserve e l’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato americani sta portando al trasferimento di importanti flussi di capitali negli Stati Uniti, come evidenziato dal rialzo del dollaro. A questo movimento corrispondono una serie di crisi valutarie in economie periferiche come l’Argentina, il Brasile e, appunto, la Turchia.

Un altro elemento molto rilevante per comprendere la crisi monetaria è la circostanza che il forte ritmo di crescita interna della Turchia ne ha surriscaldato l’economia. La crescita della domanda e dei consumi interni ha causato, parallelamente ad un aumento del benessere e dei consensi di Erdoğan, un significativo aumento dell’inflazione. Il livello dei prezzi in Turchia sta aumentando e, parallelamente, vi è una caduta del valore della moneta. L’inflazione turca, che a inizio anno era pari a circa il 10%, ha già raggiunto il 16%[2]. Da un punto di vista di economia interna, nel medio periodo ciò potrebbe intaccare i risparmi della classe media ma nel breve periodo sta prevalendo l’effetto positivo dell’aumento dei redditi e della crescita reale diffusa.

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Scritto da
Gianluca Piovani

Nato nel 1991 a Bologna, ha conseguito la laurea magistrale in Finanza Intermediari e Mercati presso l’Università di Bologna. Durante il periodo universitario ha fatto parte del Collegio Superiore dell’Università di Bologna. Ha collaborato con la rivista elettronica «Il Chiasmo». La sua esperienza lavorativa inizia con ricerca economica in Prometeia e prosegue in Banca di Bologna con la gestione patrimoniale. Attualmente lavora per la multinazionale Crif e si occupa di servizi informatici per banche.

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