Recensione a: Gabriele Santoro, Tutti i colori del rosso. Un viaggio nella storia della sinistra per ritrovare l’orgoglio dell’alternativa, Introduzione di Massimiliano Tarantino e Postfazione di Giorgia Serughetti, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2024, pp. 240, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Ludovica Taurisano
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Un recente spettacolo di Łukasz Twarkowski intitolato “Rohtko” narra di un dipinto di Mark Rothko venduto per otto milioni di dollari e poi scopertosi un falso. Una storia che suggerisce una riflessione: quando una buccia di banana diventa di valore? Quando una tela monocromatica assurge a simbolo?
Pensiamo al colore rosso che, come colore simbolico, non ha un significato univoco. Tuttavia, la reazione emotiva che genera è, al contrario, riconoscibile, e non è un caso che gli heart, i like, le notifiche abbiano questa tonalità, perché il rosso è il colore dell’allerta, stimola una reazione immediata. Per questo motivo, del colore rosso si sono appropriate le parti politiche più disparate: è stato a lungo il colore delle sinistre da questa parte dell’oceano, mentre indica i repubblicani dall’altra.
Per la nostra storia politica, il rosso in tutte le sue tinte ha sempre significato qualcosa di specifico, un ambito di riconoscimento immediato e intriso di orgoglio. Come scrive nella prefazione al libro Tutti i colori del rosso il direttore di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Massimiliano Tarantino, sono stati i gesti, le azioni, gli ideali a riempire di significato e contenuto quel colore. E anche una certa dose di orgoglio nell’identificarsi con il vermiglio. Ecco, ma la sinistra non è nuova a “emorragie” interne. Eros Francescangeli, in un libro recentemente edito da Viella dal titolo Un mondo meglio di così. La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), ha percorso le innumerevoli fratture a sinistra, dal dopoguerra fino all’affaire Moro: molte di quelle spaccature spingevano sempre un po’ più a sinistra. Si incontravano personalismi, sostanziali divergenze su temi cruciali di politica interna e collocazione internazionale, ma l’ideologia forte si accorpava sempre attorno a questo nucleo di un rosso riconoscibile.
Da questa consapevolezza parte il “viaggio nella storia della sinistra per ritrovare l’orgoglio dell’alternativa” contenuto in Tutti i colori del rosso, come annuncia il sottotitolo: un’operazione coraggiosa in un Paese smemorato. Gabriele Santoro, che ha curato il volume, non cede alla tentazione della nostalgia, anzi pungola la politica a prendere quel bagaglio un po’ usurato e a usarlo come gradino per guardare fuori dalla finestra di una casa in cui troppo a lungo ci si è rifugiati, in nome di un’eredità poi dissipata, come conferma anche Giorgia Serughetti, che ne firma la postfazione.
«La nostalgia gioca un ruolo molto significativo nella politica contemporanea, principalmente a destra, dove vive il mito di una “età dell’oro” da ricostruire, fondata su confini solidi, salde gerarchie di genere, razziali, sociali, e consumo spensierato di energia fossile», ha raccontato Serughetti a Pandora Rivista, a proposito del ruolo della nostalgia nella politica contemporanea. «La sinistra non partecipa a questa nostalgia, né si può dire che sia rimasta vittima della sua storia gloriosa: troppo in fretta, specialmente dopo il 1989, si è preoccupata di archiviare le radici socialiste, che affondavano nella storia del movimento operaio, del conflitto tra lavoro e capitale. È così che ha smarrito la sua identità. Il vantaggio è ritrovarsi oggi a poter guardare al futuro recuperando dal passato gli elementi vitali dell’eredità dei partiti del Novecento, ma nella consapevolezza di parole e contenuti che siano all’altezza delle sfide nuove del presente».
Il viaggio di Tutti i colori del rosso comincia negli anni Ottanta, un momento che per Piero Ignazi segna inequivocabilmente l’inizio della crisi delle sinistre. È un viaggio in tutto il mondo, che dal cuore dell’Europa approda negli Stati Uniti e poi in Brasile, che si dipana attraverso capitoli in cui vengono incastonati ritratti personali e interviste. Un viaggio in cui non si perde mai di vista l’obiettivo del percorso: riconnettere i punti, attraversare uno per uno gli snodi storici che hanno contribuito a generare le attuali galassie politiche, tentando nell’impresa di individuare il bivio dirimente, la strada più impervia. Questo valore può, forse deve, assumere il resoconto storico, del resto, soprattutto per le generazioni più giovani. Ridestare l’incanto, ad esempio, nell’apprendere che già nel 1978 a Ginevra, Willy Brandt presiedeva la Commissione Nord-Sud, e pubblicava il Rapporto Brandt come “programma per la sopravvivenza”. Desta sconforto assumere, quarant’anni dopo, che la modernizzazione si è svolta in effetti senza sviluppo, e che la globalizzazione neoliberista mossa da soggetti privati abbia soppiantato un dialogo multilaterale corposo per riplasmare i rapporti tra un Nord e un Sud ancora spaventosamente iniqui. C’era ancora, in quella sinistra composta da politici come Brandt, Kreisky, Palme, Soares, l’elaborazione di una piattaforma di dialogo, sostenuta da un’Internazionale socialista impegnata nei diritti civili e nell’ecologismo, due pilastri che oggi animano i ricchi e fecondi movimenti nei Paesi democratici, ma anche la resistenza civile di quelli autoritari. Un legame generativo, quello con i movimenti, che alla socialdemocrazia di Brandt, dice Bertinotti, consegnarono il volto più umano, non corroso dall’economicismo. Ma ci resta anche quel vizio antico di disconoscersi, di guardarsi con sospetto: tra comunismi mediterranei, tra sinistre riformiste, impegnate a contendersi la ragione teleologica del capitalismo liberista, così tanto da non accorgersi del contemporaneo disfacimento del movimento operaio novecentesco, che ne aveva fatto il successo e la ragione di esistere.
Ecco, è proprio il lavoro la grande rimozione nel subconscio della sinistra dell’ultimo Novecento. Un tema che la Francia di Mitterand fece l’errore di collegare alle politiche migratorie, nel momento in cui si stava formando il Front National che trattava il tema in modo securitario e strumentale, facendo dei migranti prestatori di manodopera conseguentemente trasformati in rivali. Comincia così una certa confusione, quelle ambiguità che nascono dal trattare le questioni con il linguaggio dell’avversario politico: una rincorsa al voto secondo le regole dell’altra parte, che non si traduce mai in consenso solido perché è pantomima, e come tutte le messe in scena deve terminare, una finzione destinata a essere smascherata.
La deindustrializzazione mal gestita, la mancata capacità delle sinistre di sostenere i lavoratori nella loro paura senza prendere in prestito la manipolazione populistica del senso di precarietà, ha rotto un patto, tra base e partiti, e ha spezzato la base stessa. Crollava dunque la fede nella difesa del lavoro, si sfaldava la garanzia di pace su cui l’Europa si era costituita. Il conflitto in Jugoslavia e la guerra in Iraq misero in discussione la tradizionale repulsione verso la guerra e la fiducia nel funzionamento di un organismo sovranazionale e nel multilateralismo, prontamente descritta come «indispensabile» da Emma Bonino. Scrive il curatore Santoro: «L’avallo della dottrina della guerra preventiva di Blair segnò la fine rovinosa della politica fondata per decenni sul multilateralismo». Fu l’asse Blair-Bush a sostenere l’abbaglio dell’esportazione della democrazia, confondendo la sicurezza nazionale con la moltiplicazione degli spazi democratici.
Dunque, mentre la sinistra inseguiva la proiezione di sé stessa altrove, smarrendosi intanto nella diluzione con l’economicismo liberista, gli operai si trovavano smarriti, privi di referenti politici ma anche umani, costretti a una separazione forzosa anche nei luoghi del lavoro. Ma in un mondo complesso con crisi multisistemiche e continui trade-off, la disponibilità al compromesso è il capolavoro ultimo della politica. Ed è un capolavoro che non ha niente di ideale, che è integralmente pragmatico, quando riesce a porsi in ascolto e accoglienza delle istanze coerenti con i valori di eguaglianza e reciprocità. Dunque, mentre la deindustrializzazione poneva i suoi problemi, sgomberava il campo ad altre urgenze. Per esempio, quelle dei movimenti verdi, che per Luigi Manconi non sono mai diventati un’alternativa politica concreta, e non solo in Italia. Dagli eredi di Fischer in Germania a quelli di Langer in Italia, chiunque abbia provato a farsi carico dell’intensa e fulgida stagione movimentistica sessantottina, ha fallito nel tradurre il sacrosanto principio della tutela dell’ambiente in una proposta politica che fosse in grado di interloquire anche con altri interessi in gioco. E questa lacuna anima ancora i movimenti, sempre più transnazionali in questa causa comune, e intersezionali nel perseguimento della giustizia sociale. Tra attivismi e sinistre smarrite si generano collisioni, ma non è un segnale che deve scoraggiare. Come per la teoria degli urti in fisica, in fondo, devono scontrarsi, i movimenti radicali e integrali, forse, con le sinistre più temperate: devono urtarsi per riconoscere la reciproca esistenza. Non distruggersi, né fagocitarsi, piuttosto avanzare proposte nella cornice della convivenza.
«Il rapporto tra movimenti e partiti mi pare radicalmente in crisi, nel contesto di una più generale difficoltà di rapporto tra politica e società. Ma questo non fa che porre con maggiore urgenza il problema della rappresentanza degli interessi e dei valori che emergono dalle lotte dal basso, che più spesso rinunciano a cercare rappresentanza per le proprie istanze, optando piuttosto per l’autorappresentazione», sottolinea ancora Serughetti. «Ricostruire un rapporto con i movimenti può significare fare spazio a temi come l’ambientalismo – o il femminismo, o l’antirazzismo – nell’agenda dei partiti dentro e fuori le istituzioni, ma anche promuovere processi deliberativi e decisionali che coinvolgano le reti sociali, e ripensare la forma partito per favorirne l’apertura alla società».
Seppure difficile da credere nel Paese del meridiano di sangue, gli ultimi due decenni ci hanno consegnato fragorosi fallimenti di rosso. Ma anche se in carminio, scarlatto, o rubino che sia, qualcuno dentro quel rosso è rimasto, come Lula in Brasile. Nel sindacato dei metallurgici prima, nel Partido dos Trabalhadores dopo, Lula ha saputo tenere insieme sindacalisti, studenti, movimenti, intellettuali. Lula, che in Italia aveva imparato il bilancio partecipativo, nel 2003 si insediava in un Paese al dissesto con il proposito chiaro di tassare i ricchi ed eliminare quella malattia che è il lavoro povero. Si tornava al rosso: l’uguaglianza, il contrasto alla povertà, al riparo dai fondamentalismi della legge mai scolpita nella pietra del mercato. Non un santo, né un prestigiatore, Lula ha provato ad accontentare tutti con un riformismo tiepido che ha esaurito la stagione della crescita e delle riforme. Ancora, una questione di sfumature, di misure: a quanto pragmatismo si è disposti a rinunciare rischiando di perdere il potere? Quanta democrazia la sinistra è disposta a difendere? Quanto rossa vuole essere?
Pragmatica è stata la realizzazione dell’Obamacare, una legge imperfetta che «ha interpretato la politica come arte del possibile», scrive ancora Santoro. Una riforma che ha cambiato il volto della sanità negli Stati Uniti, ma che non sembra abbastanza se consideriamo la rabbia che si è tradotta in irrazionale e baccantico consenso per Luigi Mangione, identificato come sospettato dell’omicidio di Brian Thompson, amministratore delegato di United Healthcare. Troppo socialista, forse troppo poco, troppo accondiscendente verso i privati o forse troppo populista, sembra che la medianità di questo approccio al welfare abbia lasciato strascichi e sfide aperte. Eppure, sedici milioni di americani si sono iscritti al programma, e resta qualcosa che prima non c’era, e che neanche si aveva il coraggio di immaginare. Resta un tentativo di difendere la salute tra mille fuochi nemici e dalla tentazione, dice Rosy Bindi, di smettere di “produrre salute” per far quadrare il bilancio, distorcendo un principio di uniformità territoriale irrinunciabile.
Oggi il timore è che in questo campo largo in cui la sinistra prova a confluire, si possa perdere la rotta, i punti cardinali che orientano una progettualità politica riconoscibile. La questione verte spesso sull’auspicabilità del compromesso, ad esempio: meglio portarsi a casa una riforma fatta benino, oppure giocarsi una partita con l’ambizione di “rottamare” nella sua interezza il sistema? Matteo Renzi ha costruito attorno alla metafora macchinica la retorica di uno scontro di tipo generazionale: uno scontro che la sinistra stessa sta vivendo, mentre pretende di parlare alle nuove generazioni senza assicurarne l’ascolto in vista di un potenziale, e fisiologico, ricambio. Una riforma, quella del Jobs Act, disegnata per rendere più flessibile il mercato del lavoro, avrebbe richiesto che una simile flessibilità si fosse resa disponibile nella fase di ricollocamento e formazione. Ma come per ogni riforma, gli effetti possono essere soppesati soltanto con il tempo: i dati apportati da Santoro sono eloquenti e toccano anche per l’Italia forse il vero vulnus della sinistra internazionale: il lavoro. Un lavoro che globalmente è parcellizzato, costellato di dasein occupazionale e in cui è il precariato come malattia dello spirito a gettare nell’alienazione e nello struggimento per la sussistenza. Rapporti Istat, Inapp, Eurostat, descrivono una realtà complessa: la riforma ha ottenuto alcuni risultati per crescita occupazionale ma questa va letta dentro molte variabili. Il tasso di inattività, la fascia giovane che resta la più vulnerabile e, soprattutto, il male endemico del lavoro povero, causato dal cocktail micidiale di stagnazione retributiva e bassi salari. Un nuovismo che arranca a sua volta dietro il nostro perenne nuovo, causando per contrappasso una stasi perenne: come nella storia si poteva imparare dalla terza via di Tony Blair.
In questo profluvio di protagonisti maschili, si giunge al presente in cui i due maggiori partiti in Italia sono guidati da donne. Nell’ultimo capitolo del libro, infine, un forte slancio verso la conquista dei diritti in Spagna viene ricondotto alle donne: prima l’anarchica Federica Montseny sotto il franchismo, e ai giorni nostri le due sindache Manuela Carmena e Ada Colau. Anche guardando al rapporto storico tra le sinistre e le sue militanti, il serpeggiante machismo del nostro Paese ha influito sull’espressione delle donne dentro i tradizionali luoghi istituzionali. Eppure, da Nilde Iotti a Livia Turco, che di Iotti ha presieduto la Fondazione, le figure chiave hanno sempre riconosciuto il ruolo storico della base: tutte le donne che, come “sentinelle del cambiamento”, hanno scortato le sinistre, facendo da sismografo nelle perlustrazioni di anni nuovi.
«La speranza oggi è data proprio da un femminismo che resista alla doppia “cattura” da parte delle forze reazionarie e dalla ragione del capitalismo neoliberale. Ma la vedo anche più in generale in tutte le forme di attivismo che nascono dalla consapevolezza del nesso tra le crisi molteplici del presente, segnalando il desiderio di una politica che parli di solidarietà, responsabilità collettiva, uguaglianza», sottolinea Serughetti. «Mi pare che esperienze attuali di mobilitazione – penso al femminismo transnazionale, ma anche al movimento ambientalista, alle lotte per il lavoro – mostrino la capacità di unire istanze quali la giustizia sociale e quella ambientale, la lotta per il reddito e per i diritti civili, contro le discriminazioni di genere e contro la violenza razziale. E così facendo ricostruiscano un lessico per la sinistra del XXI secolo, che in un rapporto positivo con le forze partitiche avrebbe la potenzialità per trasformarsi in offerta politica ed elettorale».