Uguaglianza di opportunità e meritocrazia: note su due concetti ambigui
- 16 Novembre 2017

Uguaglianza di opportunità e meritocrazia: note su due concetti ambigui

Scritto da Lorenzo Cattani

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Negli ultimi anni il dibattito pubblico si è strutturato attorno a due concetti che recentemente hanno “viaggiato” sugli stessi binari. Il primo è la cosiddetta “meritocrazia”, ovvero un governo che amministra la cosa pubblica premiando gli individui unicamente in base alle loro capacità, anziché ad elementi clientelari o “lobbistici”. Il secondo è invece quello dell’uguaglianza di opportunità, che riguarda invece un particolare principio di giustizia distributiva a cui un governo dovrebbe ispirarsi quando deve indirizzare la propria azione politica in materia di redistribuzione. Questi due concetti hanno avuto genesi differenti, soprattutto per quanto riguarda la meritocrazia[1], e solo in seguito hanno iniziato ad avere una relazione “sinergica”. In questo articolo il focus sarà principalmente concentrato su questo secondo concetto, che negli ultimi anni è stato spesso al centro del dibattito politico ed è stato più volte presentato come un importante punto di riferimento dell’azione di governo in materia di politiche sociali.

Uguaglianza di opportunità: cosa e perché

L’idea di uguaglianza di opportunità si basa su un’idea semplice: vi sono disuguaglianze che le politiche sociali non devono colmare. Un ipotetico approccio di giustizia distributiva potrebbe essere infatti quello che, data una comunità di cittadini, mira ad ottenere un’uguaglianza di esiti: ciò significa che la società dovrebbe impegnarsi a distribuire le risorse col fine di eguagliare il grado di successo dei piani individuali dei suoi membri, a prescindere da quali essi siano (uno di loro può investire sulla creazione di una start-up mentre un altro dedicherebbe le sue risorse unicamente per il suo tempo libero senza fare altro).

L’uguaglianza di opportunità afferma che se degli esiti diversi producono disuguaglianza è in parte spiegabile dalle scelte deliberate degli individui. La disuguaglianza prodotta da due esiti va quindi scomposta in più componenti: elementi controllabili dagli individui, elementi non controllabili e, infine, elementi derivati dalle scelte di politica economica e sociale. Il presupposto su cui si fonda l’uguaglianza di opportunità prevede che non debba esservi compensazione per gli elementi controllabili, ovvero per le scelte deliberate degli individui. È una riflessione fatta anche da Ronald Dworkin, il quale distingueva fra brute luck e option luck: la prima è quando veniamo investiti una macchina che non ha rispettato il rosso, la seconda è quando veniamo investiti perché abbiamo attraversato la strada col rosso senza nemmeno guardare. I cittadini dovrebbero essere compensati per le perdite subite per via della brute luck, ma non per quelle riguardanti la option luck.

Per un decisore politico, l’idea è innegabilmente affascinante: non solo viene “accettata” l’idea che esistano delle disuguaglianze, ma viene addirittura affermato che è giusto che queste disuguaglianze esistano, poiché discendono dalla responsabilità con cui gli individui hanno gestito le loro risorse. Ma come dovrebbe trovare applicazione nella pratica un simile principio? Sostanzialmente tramite un approccio sequenziale: prima che la competizione fra individui abbia inizio bisogna assicurarsi, anche tramite politiche redistributive, che non vi siano differenze fra i singoli riconducibili alle circostanze, quindi a tutta quella serie di variabili che non sono sotto il loro controllo[2], ma una volta che la competizione è iniziata non si deve intervenire[3]. È sostanzialmente questo il concetto di “livellare il piano di gioco”, che dovrebbe garantire agli individui di partire dallo stesso punto ma che allo stesso tempo non prevede alcun intervento una volta che la gara è finita, lasciando invariati gli esiti della competizione.

Uguaglianza di opportunità: è possibile?

Partendo da quanto affermato finora, per rendere operativa l’uguaglianza di opportunità bisognerebbe stabilire due diversi principi:

  1. Uguale benessere per uguale responsabilità: chi profonde lo stesso livello di impegno nei propri progetti dovrebbe godere dello stesso livello di benessere a prescindere dalle circostanze in cui è nato. I meritevoli, a prescindere che siano ricchi o poveri, dovrebbero godere delle stesse risorse in seguito all’implementazione della politica sociale ed economica; stesso discorso per i non meritevoli. È un principio di solidarietà che tra le sue radici dall’idea per cui qualora cambiassero le circostanze di riferimento degli individui, il benessere degli stessi non dovrebbe diminuire.
  2. Uguali trasferimenti per uguali circostanze: per le condizioni sociali in cui sono nati, gli individui devono ricevere una compensazione a prescindere dall’impegno che le persone mettono nei progetti, poiché sono elementi che non sono controllabili dai singoli. Se il primo principio trovava applicazione pratica nell’uguaglianza dei livelli di benessere finale, questo invece si applica specificamente ai trasferimenti governativi. Se nel primo caso vi era un richiamo ad un’idea di solidarietà, in questo vi è invece un richiamo ad un concetto di ricompensa. Le istituzioni devono essere neutrali nei confronti rispetto ai parametri di responsabilità e tale neutralità viene espressa tramite un non intervento, al fine di garantire che la politica economica e sociale non muti al mutare delle caratteristiche di responsabilità. È quello che Fleurbaey definisce “principio liberale di ricompensa”[4].

Per garantire che l’uguaglianza di opportunità trovi un’applicazione pratica fattibile bisogna capire se questi due principi siano in conflitto. Assenza di conflitto vuol dire che le caratteristiche di responsabilità e di circostanze siano chiaramente distinguibili nonché implementabili separatamente. L’idea è quindi quella per cui, al momento di applicare dei trasferimenti governativi previsti dalla politica economica e sociale, sia facile capire da quali elementi di responsabilità e di circostanze dipende il grado di successo di un progetto individuale. Cosa possiamo dire al riguardo? È possibile che i due principi siano in conflitto? Molto probabilmente sì.

Il motivo è presto detto. Circostanze e merito non sono indipendenti l’uno dall’altro e pertanto non possono essere considerati separatamente. Uguali trasferimenti per uguali circostanze è insensibile alle caratteristiche di responsabilità, ma il problema è che la responsabilità di un individuo può influire pesantemente sul bisogno di ricevere trasferimenti tramite politiche sociali ed economiche. Come ci si deve comportare con chi prende di sua volontà delle decisioni rischiose? Prendiamo l’esempio di due individui della stessa estrazione sociale, uno fumatore e l’altro no, che hanno problemi di salute e che devono sostenere una serie di visite specialistiche. Per uno dei due non emerge nulla di grave, mentre al fumatore viene diagnosticato un cancro ai polmoni. Secondo il principio di uguali trasferimenti per uguali circostanze ai due individui dovrebbe arrivare lo stesso trasferimento monetario per pagare le cure, anche se uno dei due dovrà solo pagare delle visite di controllo, mentre l’altro dovrà affrontare spese molto più consistenti. Tuttavia, vi sono moltissimi fumatori che non si ammalano, cosa che ci pone davanti al dubbio su dove finisca la brute luck e dove inizi la option luck.

Allo stesso tempo però, uguale benessere per uguale responsabilità, è insensibile alle circostanze e queste hanno un impatto indiscutibile sul grado di successo di un piano individuale, cosa che rende molto complesso il riconoscimento di quanta parte di quel successo sia attribuibile al merito. Prendiamo il caso due neolaureati che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro: uno dei due è nato in una famiglia della classe media, in cui entrambi i genitori sono laureati, e si è laureato in tempo col massimo dei voti, l’altro invece proviene dalla working class, si è laureato fuori corso e con un punteggio nella media, ed è il primo della sua famiglia a laurearsi. Supponiamo anche che trovino lavori diversi e che il primo studente trovi un impiego meglio retribuito del secondo. Si potrebbe dire che il secondo studente sia meritevole come il primo, poiché le sue circostanze di partenza erano più sfavorevoli, e allora il principio di uguale benessere per uguale responsabilità prevedrebbe che al secondo studente venisse concesso un trasferimento che uguagliasse il benessere del primo. Però è proprio questo il problema, come si fa a capire in che misura il risultato ottenuto dai due studenti è imputabile al merito o alle circostanze? Analogamente al primo caso, anche in questo viene da chiedersi dove finiscano le circostanze e inizi la responsabilità.

Riguardo ciò, Anthony Atkinson fornisce una serie di riflessioni molto interessanti nel suo ultimo libro. Secondo l’autore, ci sarebbero tre motivi per cui limitarsi a preparare un campo di gioco livellato per la gara sarebbe insufficiente per ridurre la disuguaglianza. Il primo è che ciò che succede dopo il segnale di partenza non può essere ignorato così facilmente; se qualcuno avesse sfortuna, inciampandosi durante la gara, e come risultato finisse in povertà, sarebbe normale fornirgli aiuto e assistenza. E, come fa notare benissimo Atkinson, secondo molti non sarebbe giusto indagare le cause che hanno portato a quel particolare esito[5]. Come affermano Kanbur e Wagstaff sarebbe moralmente ripugnante “far dipendere la distribuzione di una scodella di minestra da una valutazione, se siano state le circostanze o il suo impegno che hanno portato all’esito per cui quell’individuo […] è in coda per avere un po’ di minestra”[6].

Bisogna anche distinguere fra uguaglianza di opportunità competitiva e non, afferma Atkinson. L’uguaglianza di opportunità competitiva afferma che “tutti possono avere l’opportunità di seguire un corso di nuoto; l’uguaglianza di opportunità competitiva significa solo che abbiamo tutti le stesse possibilità di partecipare a una gara di nuoto in cui sono in palio premi disuguali. In questo caso, che è il più comune, vi sono ricompense ex post disuguali: qui entra in gioco la disuguaglianza di esiti”[7]. La determinazione della struttura dei premi, che avviene socialmente, deve quindi essere presa in considerazione.

Infine, ed è uno degli argomenti più importanti con cui Atkinson commenta questo principio, gli esiti di oggi danno forma alle opportunità domani. L’uguaglianza di esiti influenza l’uguaglianza di opportunità per la generazione successiva e “chi beneficia della disuguaglianza di esiti oggi, può trasmettere un vantaggio iniquo ai propri figli domani”[8]. Questo punto è fondamentale perché quando si parla di uguaglianza di opportunità raramente viene fatto un discorso intergenerazionale, che invece deve essere tenuto in considerazione, poiché le diverse circostanze in cui gli individui nascono sono indiscutibilmente legate alle scelte fatte dalle generazioni precedenti[9].

Conclusioni

L’uguaglianza di opportunità è un concetto affascinante, ma appare abbastanza evidente che i limiti che lo caratterizzano ne impediscano una corretta applicazione pratica ed è naturale chiedersi cosa fare. Probabilmente, se l’intento del decisore politico è quello di ridurre le disuguaglianze, la cosa migliore da fare è riprendere in mano l’idea di lavorare sull’uguaglianza di esiti, che va vista come un mezzo per ottenere in futuro una migliore uguaglianza di opportunità. Accanto alla motivazione intergenerazionale, per cui gli esiti di oggi plasmano le opportunità di domani, vi sono diversi autori che hanno sostenuto che la disuguaglianza di esiti abbia effetti anche sulla società di oggi. Autori come Stiglitz e Piketty hanno infatti affermato che le disuguaglianze abbiano raggiunto livelli eccessivi e che avrebbero seriamente danneggiato le opportunità degli individui, una realtà che sarebbe dimostrata da come il livello di istruzione dei genitori influenzi le prospettive per i rispettivi figli[10]. Ancora più importante è che queste disuguaglianze non possono essere attribuite alla teoria della “produttività marginale”, cioè che promanino dai diversi contributi che le persone danno alla società e che, quindi, tali disuguaglianze potrebbero essere ricondotte alle diverse competenze, legate ad esempio ai titoli di studio, delle persone[11].

A queste riflessioni va anche aggiunto che il merito è sostanzialmente uno strumento di legittimazione della disuguaglianza e in quanto tale contribuisce a renderla più sostenibile. Come afferma Piketty “se le disuguaglianza sono percepite come legittime, per esempio perché sembrano derivare dal fatto che i più ricchi hanno deciso di lavorare di più […] rispetto ai più poveri, oppure perché il tentativo d’impedire loro di guadagnare di più nuocerebbe inevitabilmente ai più poveri, è anche possibile che la concentrazione dei redditi superi i record storici”. Il decisore politico deve sostanzialmente scegliere su quale piano operare, sapendo che non è possibile pensare una politica sociale che sia allo stesso tempo attiva nel compensare le differenze derivanti dalle circostanze e neutrale di fronte a quelle derivanti dalla responsabilità. Se quindi l’obiettivo dei decisori politici è quello di ridurre le disuguaglianze socio-economiche, sarà fondamentale puntare sul raggiungimento di un’uguaglianza che lavori soprattutto sugli esiti.

Al pari dell’uguaglianza di opportunità, anche la meritocrazia è un concetto molto attraente e nessuno metterebbe in discussione l’idea che i ruoli più importanti debbano essere svolti dai migliori. Creare una società altamente meritocratica può essere una scelta del tutto legittima, ma tendenzialmente è difficile che ciò si sposi con una politica redistributiva efficace. È proprio da questo punto che dovrà partire la riflessione sull’azione politica. Se davvero vogliamo ridurre le disuguaglianze sarà inevitabile mettere in secondo piano determinati principi meritocratici.


[1] Il termine meritocrazia è stato coniato nel 1958 nel racconto The Rise of Meritocracy 1870-2033 di Michael Young, il quale dava al termine un’accezione negativa.

[2] Ovviamente, come afferma Romer, la decisione di quali variabili possano essere considerate come “circostanza” spetta alla società. Sarà quindi probabile che in diverse società la composizione delle variabili considerate come circostanze conoscerà delle variazioni.

[3] Cfr. Romer, J. (1998), Equality of Opportunity, Harvard University Press.

[4] Cfr. Fleurbaey, M. (2008), Fairness Responsibility and Welfare, Oxford University Press.

[5] Cfr. Atkinson, A. (2015), Disuguaglianza: che fare? Raffaello Cortina.

[6] Cfr. Kanbur, R. e Wagstaff, A. (2014), How useful is inequality of opportunity as a policy construct?, ECINEQ Working Paper 338, pp 1-18.

[7] Cfr. Atkinson, A. (2015), Disuguaglianza: che cosa si può fare?, Raffaello Cortina, p 15.

[8] Ibidem.

[9] Un approccio in cui l’elemento intergenerazionale viene inserito in un quadro di uguaglianza di opportunità è stato impiegato da De Barros, Ferreira, Vega e Chanduvi nel loro lavoro per la Banca Mondiale, che però Kanbur e Wagstaff hanno criticato sollevando proprio i dubbi che sono stati riportati in precedenza.

[10] Stiglitz, J., Io premio Nobel vi dico: le diseguaglianze sono troppe, L’Espresso 1/11/2017.

[11] Piketty, T. (2013), Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani.

Scritto da
Lorenzo Cattani

Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Ha frequentato un Master in Human Resources and Organization alla Bologna Business School (BBS) e conseguito la laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna.

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