Recensione a: Marco Almagisti, Una democrazia possibile Politica e territorio nell’Italia contemporanea. Nuova edizione aggiornata, Prefazione di Ilvo Diamanti, Carocci, Roma 2022, pp. 440, 39 euro (scheda libro)
Scritto da Alessandro Maffei
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«Marco Almagisti ha (ri)scritto un testo importante». Così decide di aprire la sua prefazione a Una democrazia possibile Ilvo Diamanti, uno dei più importanti sociologi e politologi italiani. In effetti, si ha proprio questa impressione leggendo la riedizione di questo libro, aggiornata e arricchita con analisi e interpretazioni inerenti agli ultimi anni della politica nazionale e locale, recentemente uscita con Carocci. Il testo sviluppa una delle tematiche più care all’autore, ovvero la qualità delle forme democratiche e come esse si sviluppino. La democrazia, per Almagisti, è un corpo vivo, fatto di movimento, culture e talvolta conflitti. Soprattutto, Almagisti è convinto che per comprendere davvero la qualità e il funzionamento della democrazia serva studiarla considerando le peculiarità storiche, geografiche e culturali e come esse si relazionino con le forme istituzionali e partitiche.
Il testo è composto da cinque capitoli. Il capitolo 1, intitolato Democrazia e capitale sociale, introduce i principali concetti politologici che verranno utilizzati nel corso di tutto il libro. Nel capitolo 2, invece, Capitale sociale e partiti, si restringe il focus dell’analisi, mostrando come la democrazia si debba costruire sulla base di regole e procedure condivise. Allo stesso tempo, ispirandosi anche ai classici del pensiero politico come Machiavelli, Almagisti mostra come il sale della democrazia stia proprio nel conflitto tra parti e opinioni diverse. Incanalato, regolamentato, istituzionalizzato, ma pur sempre conflitto. È dunque fondamentale dirigere e non reprimere tale conflitto, se non si vuole rischiare di reprimere la democrazia stessa con esso. I primi due capitoli sono densi di contenuto teorico e politologico e gli sforzi di Almagisti, dotato di una scrittura chiara e puntuale, riescono a rendere il testo (salvo qualche rara eccezione) accessibile anche ai lettori meno esperti di scienza politica.
Nei capitoli successivi, tali concetti vengono applicati al contesto italiano, in un viaggio che parte dal Cinquecento e arriva fino a oggi. Lungo questo viaggio, oltre alle riflessioni più generali rispetto alla Penisola, verrà costantemente data attenzione a due casi studio particolarmente rilevanti: la Toscana “rossa” e il Veneto “bianco”, enfatizzando l’importanza delle subculture locali qui sviluppatesi. Il capitolo 3, intitolato Capitale sociale e sistema politico. Attraverso subculture politiche territoriali copre la parte cronologicamente più lunga, andando dal Rinascimento fino alla nascita della Repubblica, e ancorando alcune delle peculiarità delle due regioni e della politica italiana nel suo complesso alle condizioni politiche dei secoli passati. Il capitolo 4, Capitale sociale, territori e partiti dell’Italia repubblicana, invece, analizza la cosiddetta Prima Repubblica, concentrandosi inevitabilmente sui due partiti dominanti di quel periodo: Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. Infine, il capitolo 5, L’Italia in bilico. Una lunga transizione politica, si concentra appunto sulla fase di transizione iniziata a seguito del processo Mani pulite arrivando fino ad oggi.
Metodologicamente, Almagisti si ricollega alla tradizione della scienza politica padovana utilizzando un approccio multidisciplinare. In particolare, come si sarà intuito dalla struttura del libro appena riportata, grande rilevanza viene data alla ricerca storiografica, vista come gemella della politologia. Il connubio tra queste due branche delle scienze sociali è particolarmente riuscito nel testo di Almagisti, che riesce a dare spunti di dibattito e ricerca per entrambi i settori. Questo approccio è particolarmente meritevole poiché, come Almagisti stesso ammette, «a differenza di quanto sta accadendo da tempo in altri Paesi, la consuetudine al confronto fra la scienza politica e la storiografia in Italia non è ancora una pratica molto diffusa e la politologia storica appare una disciplina ancora poco frequentata» (p. 15).
Al contrario, la politologia di lingua anglosassone, sia nella sua branca delle relazioni internazionali (Edward H. Carr, Robert Gilpin, Martin Wight), che in quella più puramente inerente alla scienza politica (Theda Skocpol), ha da tempo abbracciato con notevoli risultati metodologie proprie della storiografia. In questo senso, si spera che il lavoro di Almagisti possa stimolare il dibattito nella politologia italiana e facilitare la diffusione di queste pratiche, poiché, come sottolineato anche da Leonardo Morlino[1] e Immanuel Wallerstein[2], è proprio l’interdisciplinarità ad avere il maggior potenziale nelle scienze sociali.
Nella sua analisi, Almagisti utilizza alcuni dei concetti fondamentali dei “padri nobili” della scienza politica. Due autori, tra tutti, svettano per rilevanza. Il primo è Stein Rokkan[3]. Ai quattro classici cleavage individuati dal politologo norvegese (centro-periferia, Stato-Chiesa, città-campagna e capitale-lavoro), Almagisti aggiunge quello establishment-antiestablishment. In questo senso, il modello rokkaniano viene presentato come qualcosa di vivo e in movimento, e non come un concetto esaurito, utile per interpretare gli sviluppi politici europei fino alla metà del Novecento. La frattura establishment-antiestablishment sarebbe parte, più generalmente, di una frattura inerente ai processi di globalizzazione cominciati con il crollo del Muro di Berlino e amplificati dalla giuntura critica della Global Financial Crisis del 2008.
Il secondo invece è Robert Putnam, il cui concetto di “capitale sociale” è una delle colonne del libro. Putnam[4] definisce il “capitale sociale” come «la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo». In questo senso, tale concetto è strettamente collegato a quello di civicness, inteso come una fiducia diffusa tra i cittadini vicendevolmente e rispetto alla politica in quanto tale. Come Almagisti nota, capitale sociale e civicness sono termini neutri, nonostante Putnam tenda a darne una connotazione positiva. Proprio per questo, Almagisti decide di focalizzarsi sul rapporto tra capitale sociale e sistema politico a livello locale, dando grande spazio alle subculture territoriali, in particolar modo a quelle della Toscana e del Veneto.
L’analisi dei due casi studio regionali è certamente uno degli aspetti più stimolanti dell’opera di Almagisti. Il focus del libro risulta leggermente sbilanciato sul Veneto. Ciò, tuttavia, non è dovuto a leggerezza o superficialità nel trattare la Toscana, bensì alla profonda conoscenza del Nordest, di cui Almagisti si è oramai unanimemente affermato come uno dei massimi esperti nazionali.
Nel caso del Veneto, la specifica subcultura “bianca”, caratterizzata dalla centralità e dal rispetto della famiglia, della religione, dell’ordine costituito, e dalla diffidenza verso il “centro politico”, trarrebbe le sue origini dai rapporti con la Repubblica di Venezia. Pur trattandosi, formalmente, di una Repubblica, la fine del dominio veneziano nel mediterraneo e il graduale spostamento del commercio verso l’Atlantico portarono la Serenissima a essere guidata da un regime di stampo oligarchico che poco aveva a vedere col repubblicanesimo, come Machiavelli stesso riteneva. Come indicato da Giovanni Arrighi[5], questa involuzione verso l’ancien régime portò a limitare lo sviluppo della borghesia nell’entroterra veneto, in special modo dal lato politico. Le istituzioni politiche della Serenissima assunsero, dunque, una carica simbolica negativa e repellente per le élite dell’entroterra, che iniziarono a percepirsi sempre più estranee da Venezia. In questa frattura centro-periferia avrebbe prosperato la Chiesa Cattolica, alla quale dal 1818 gli Asburgo avrebbero addirittura assegnato l’educazione e l’istruzione dei cittadini. La Democrazia Cristiana riuscirà a farsi interprete solo parzialmente di questi sentimenti, venendo per lo più votata in virtù dell’anticomunismo diffuso e della legittimazione esterna della Chiesa Cattolica.
La subcultura toscana, invece, sarebbe caratterizzata da fiducia verso l’interventismo statale (anche in economia) e verso il proprio municipio. Essa discenderebbe dalla capacità dei Medici di integrare le classi sociali in ascesa delle città limitrofe a Firenze nel governo centrale e dal permanere della centralità del commercio rispetto alla rendita fondiaria nell’economia locale. Grazie a ciò, le istituzioni politiche del Granducato di Toscana continuarono a mantenere prestigio e rispettabilità presso le élite economiche e politiche, a differenza di quanto accaduto in Veneto. Questa fiducia verso il governo centrale venne rinforzata dalla dinamica attività riformatrice della casata dei Lorena, volta a ridimensionare il ruolo della Chiesa, come dimostra la legge del 1743 che trasferì i poteri di censura sulla stampa dal clero allo Stato. Il Partico Comunista sarebbe riuscito a egemonizzare questa regione a seguito dell’attivazione del cleavage capitale-lavoro, facendosi interprete del malumore dei mezzadri e degli operai particolarmente danneggiati dalla dittatura fascista. Non è un caso che in Toscana, come nel resto d’Italia, il Partico Comunista trasse molta parte della sua legittimazione dal ruolo cruciale svolto durante la Resistenza antifascista, vista come un mito fondativo dell’esperienza comunista e, sovente, come il prodromo di una rivoluzione socialista.
La conclusione di Almagisti è che, nelle due regioni sopracitate, non si possa più oramai parlare di subculture territoriali. Entrambe, infatti, sono oramai regioni contendibili, in cui non vi è una forza egemone come erano, rispettivamente, Democrazia Cristiana e Partico Comunista. In Veneto, il fatto che la Democrazia Cristiana rappresentasse le istanze della Chiesa «ha contribuito a stabilizzare per decenni il consenso per quel partito, alimentando in ampie porzioni della società locale un voto di appartenenza. […] Difficilmente, in futuro, un partito potrà ritrovarsi in una situazione simile» (p. 306). Similmente, in Toscana, «le consistenti reti locali di attivismo civico hanno smesso da tempo di ritenere i partiti di sinistra quali interlocutori naturali» (p. 311), venendo così a mancare una delle caratteristiche indicate da Carlo Trigilia[6] come fondamentali per parlare di subcultura territoriale, ossia la presenza di una realtà associativa strettamente collegata con il partito.
È interessante notare, tuttavia, come nel caso del Veneto la crescente contendibilità della regione durante le elezioni parlamentari (nel 2013, il Movimento 5 Stelle ottenne il 26,3%) si sviluppi in parallelo a una personalizzazione della politica locale, sempre più dominata dalla leadership di Zaia. Alle regionali del 2020, la coalizione di centrodestra ottenne il 76,8% dei voti contro il 15,7% del centrosinistra e il 3,3% del Movimento 5 Stelle. Dato ancora più impressionante è che la lista Zaia Presidente triplicò la Lega, seconda forza della coalizione, prendendo il 44,6% contro il 16,9% del partito di Salvini.
Un altro dei temi approfondito da Almagisti nel suo libro è proprio quello della struttura dei partiti, visti come un corpo democratico essenziale. Il partito di massa pare avere perso la portata storica che aveva avuto nel Novecento e difficilmente tornerà a ricoprire un ruolo simile. Il superamento dei partiti di massa sarebbe figlio di molti fattori, tra cui le riforme istituzionali che hanno dato maggiori poteri a rappresentanti locali (sindaci e presidenti di regione), la commistione tra elementi maggioritari e consensuali nel panorama italiano, il diluirsi delle ideologie e il superamento dell’economia industriale per andare verso una dei servizi. È difficile stabilire come saranno i partiti del futuro. Almagisti, riprendendo le parole di Paolo Gerbaudo[7], parla di “partiti digitali”, i quali rispetto ai partiti di massa sarebbero caratterizzati da una maggior centralità della leadership e un capitale sociale principalmente articolato sulle relazioni personali. Potenziale sbocco di queste tendenze potrebbe essere il cosiddetto “neotribalismo”, in cui crescente rilevanza verrebbe data all’appartenenza a un determinato gruppo e allo sviluppo di echo chambers.
Due riflessioni di Almagisti paiono interessanti in questa direzione. La prima è che «la personalizzazione delle leadership non comporta necessariamente il declino delle appartenenze collettive» (p. 95). In questo senso, è interessante notare come, a livello nazionale, la personalizzazione della politica paia molto meno efficace che a quella locale e che, salvo rare eccezioni (Forza Italia con Berlusconi e il primo Movimento 5 Stelle con la figura carismatica di Grillo) sono molto più numerosi i casi di fallimenti di partiti personalistici che i successi (Italia dei Valori di Di Pietro, Scelta Civica di Monti, Nuovo Centro-Destra di Alfano, Italia Viva di Renzi, Coalizione Civica di Di Maio). Il secondo fattore è che «in tutta Europa, la tendenza al declino della membership di partito ha convissuto… con l’incremento della membership nelle organizzazioni di cittadinanza attiva» (p. 97), segno che il calo di interesse verso i partiti non significhi necessariamente un minor interesse verso le tematiche sociali. Entrambe le notazioni paiono suggerire la stessa cosa, ovvero che il superamento del partito di massa non coincida necessariamente con il collasso dei partiti tout court. È realistico immaginare che, quella che stiamo assistendo, non sia la “fine della storia”[8], ma solamente un assestamento e una transizione verso un modello partito nuovo ancora ha da sorgere. In questo senso, il libro di Almagisti è un utile strumento per provare a capire, alla luce delle modalità in cui due partiti di massa si radicarono in due delle loro roccaforti, in che modo potrebbero svilupparsi i partiti di domani.
In definitiva, per riprendere le parole di Diamanti, Una democrazia possibile – scritto da Marco Almagisti e riedito da Carocci – è un libro importante per una molteplicità di ragioni. Almeno tre meritano di essere menzionate. In primis, è un testo che ha molto da insegnare a chiunque si interessi di scienza politica, offrendo un’introduzione efficace ad alcuni dei concetti più rilevanti della politologia moderna. In secondo luogo, è un testo che fornisce, per chiunque si interessi delle vicende italiane, una stimolante ricostruzione storico-politologica del nostro Paese, e in particolare del Veneto e della Toscana. Infine, è un testo che ci spinge a riflettere, con acume e brillantezza, su quanto sia solida la nostra democrazia, su cosa ci tenga uniti in quanto cittadini e cittadine, e sulle modalità istituzionali in cui questi aspetti si articolino. In definitiva, dunque, questo libro ci fornisce mezzi, strumenti e spunti per riflettere sulla nostra libertà. Se i primi due aspetti possono apparire più riservati agli specialisti, il terzo è un tema che dovrebbe stare a cuore a ogni persona, e proprio per questo Una democrazia possibile è un libro che ognuno dovrebbe leggere.
[1] L. Morlino (a cura di), Scienza Politica, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino 1989.
[2] I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo (2006), Asterios Editore, Trieste 2018.
[3] S. Rokkan, State Formation, Nation-Building, and Mass Politics in Europe. The Theory of Stein Rokkan, P. Flora (a cura di), Clarendon Press / Oxford University Press, Oxford 1999.
[4] R.D. Putnam, R. Leonardi e R.Y. Nanetti, Making Democracy Work. Civic Traditions in Modern Italy, Princeton University Press, Princeton 1993, p. 196.
[5] G. Arrighi, Long Twentieth Century. Money, Power and the Origins of Our Time, Verso Books, Londra 1994.
[6] C. Trigilia, Le subculture politiche territoriali, in Sviluppo economico e trasformazioni sociopolitiche dei sistemi territoriali a economia diffusa., Quaderni Vol. 12, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 1981.
[7] P. Gerbaudo, I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme, il Mulino, Bologna 2020.
[8] F. Fukuyama, The End of History?, «The National Interest», 16 (1989), pp. 3-18.