Recensione a: Marco Almagisti, Una democrazia possibile. Politica e territorio nell’Italia contemporanea, Carocci, Roma 2016, pp. 388, 30 euro (scheda libro)
Scritto da Eleonora Desiata
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Che cosa determina la qualità di una democrazia? Dove possiamo ricercare i fattori che nel tempo hanno determinato fisionomie, novità e persistenze del sistema politico italiano? Quale relazione intercorre fra culture politiche, territori e capitale sociale? La riflessione proposta da Marco Almagisti in Una democrazia possibile riannoda in una certa misura le fila della sua intensa attività di ricerca degli ultimi quindici anni e parte, fra altri, da questi quesiti. Un’elaborazione che prende le mosse proprio dalla nozione di democrazia: se il Novecento è stato il secolo delle ondate di democratizzazione e di un progressivo, sempre più universale affermarsi dell’accezione elogiativa del termine stesso di democrazia, nondimeno la storia della forma di Stato oggi più diffusa al mondo è stata plasmata da una prolungata diffidenza verso un modo di organizzare la vita politica giudicato di scarsa qualità da un lato, poco praticabile dall’altro. A distinguerla dalle altre non è il perseguimento di specifici obiettivi ideali; sono invece le procedure attraverso le quali essa si declina, ossia quei meccanismi attraverso i quali i governati scelgono i propri governanti. Al tempo stesso, però, tali procedure sono tutt’altro che neutre, al contrario esse si configurano come intrinsecamente permeate di valori, principi e obiettivi propri di una ben determinata cultura politica e condizionate da fattori di ordine antropologico e linguistico.
Alla luce di questi elementi, sostiene l’autore, la legittimità democratica si fonda sul riconoscimento di un’indiscussa superiorità del sistema democratico e della necessità per tutti i soggetti di una comunità politica di rispettarne le procedure. Eppure come da un lato la contendibilità delle stesse procedure democratiche implica la possibilità di esiti differenti (in altri termini, di differenti gradi di democraticità in un sistema), anche in virtù del margine di manovra concesso dal funzionamento della rappresentanza moderna agli organismi eletti, allo stesso modo la legittimità democratica è sempre potenzialmente minacciata dalla contrapposizione fra ‘pochi’ e ‘molti’, quell’ancestrale antitesi che i populismi interpretano sistematicamente come establishment vs. popolo, gettando un’ombra – forse indissipabile – di indiscutibile fragilità sulla democrazia contemporanea.
Da cosa dipende, dunque, la salute della democrazia liberale? La risposta di Almagisti è chiara: dalla qualità dei rapporti fra governanti e governati, e dalla capacità di un sistema di creare, attorno alle regole democratiche, una legittimazione diffusa e corroborante. Una cultura politica, insomma, in grado di manifestare la memoria sociale di una comunità attraverso l’elaborazione di vincoli esterni condivisi. Si fa così strada la necessità di istituzioni forti e leggi realmente radicate in un contesto sociale fatto di costumi e valori pubblici consolidati. Ed è proprio all’interno del filone analitico delle culture politiche che la letteratura ha, nel tempo, fatto proprio il concetto di capitale sociale. Almagisti riprende qui la definizione di Robert Putnam (1993), che evidenzia il ruolo della cultura civica o civicness, ossia quell’orientamento diffuso dei cittadini verso la politica, sostenuto da una estesa fiducia interpersonale, da norme di reciprocità radicate e da una consuetudine alla cooperazione. Un corpo sociale presente e proattivo, quindi, che partecipa alle associazioni, si informa e si interessa delle questioni inerenti la propria comunità, si reca alle urne, rientra a pieno titolo in un reticolo efficiente di organizzazione sociale che si fa motore di mobilitazione per l’azione collettiva. Se per Putnam le differenze di rendimento fra le regioni del Centro-Nord italiano e quelle del Sud dipendono significativamente dalle diverse dotazioni di capitale sociale (da un lato il prosperare dei liberi comuni, dall’altro istituzioni e culture fortemente gerarchiche e verticistiche), Almagisti focalizza la propria attenzione sulle relazioni tra capitale sociale e sistema politico, analizzando la tradizione civica e politica delle regioni italiane e l’evoluzione delle diverse subculture territoriali. Gli esempi indagati in questo passaggio sono il Veneto ‘bianco’, con il crollo delle roccaforti un tempo in mano alla Democrazia Cristiana, e la Toscana, regione ‘rossa’ di cui l’autore ripercorre le trasformazioni a sinistra.
Muovendosi abilmente intorno al confine fra scienza politica e storia politica, Almagisti traccia così il profilo di due «subculture territoriali» in profondo mutamento. Realtà, insomma, in cui per gran parte della storia repubblicana i sistemi politici locali hanno sperimentato gradi di consenso elevati per una forza dominante, capace di aggregare e mediare gli interessi del territorio attraverso il coordinamento efficace di una fitta rete istituzionale che comprendeva al proprio interno anche associazioni, organizzazioni collaterali e gruppi di interesse. Protagonisti indiscussi di quest’epoca sono stati senz’altro i partiti di massa, vettori di identità collettive capaci di produrre e riprodurre capitale sociale operando in concomitanza con altri erogatori di partecipazione. Se ieri erano fra i più significativi corpi intermedi che hanno contribuito ad ancorare i processi democratici nei nostri sistemi politici, oggi la crisi dei partiti procede di pari passo con la disintermediazione, con lo stemperarsi delle ideologie e con la personalizzazione crescente delle leadership. Almagisti si richiama alle dimensioni di analisi empirica della qualità democratica individuate da Morlino (2003), ossia: rule of law, l’accountability o responsabilizzazione politica (la quale, a sua volta, presuppone l’esistenza di un capitale sociale reale e capace di riprodursi), la responsiveness (o la capacità delle istituzioni di fornire risposte soddisfacenti alle richieste dei cittadini), il rispetto dei diritti civili, politici e sociali, l’uguaglianza formale e sostanziale di tutte le persone. Laddove la qualità della democrazia va deteriorandosi, si assiste a un fenomeno ineluttabile di ‘disancoraggio’, ad una progressiva crisi dei partiti e all’apparire di nuove linee di conflitto o di discrimine fra i gruppi sociali, ossia di nuove divisioni che si aggiungono o si sostituiscono ai cleavages tradizionali. Man mano che lo scollamento fra rappresentati e rappresentanti si impone prepotentemente sulla scena pubblica, la democrazia si vede progressivamente delegittimata.
Eppure, se oggi non è più opportuno – questa la conclusione della riflessione storico-politologica di Almagisti – parlare di ‘subcultura territoriale’, nondimeno la forza pervasiva delle culture politiche parrebbe reggersi saldamente sulle forme più recenti di mobilitazione (a metà fra i gruppi di interesse e i movimenti single-issue) e sulle spalle delle associazioni di cittadinanza attiva capaci, tuttora, di produrre capitale sociale nelle proprie realtà locali. Il che, in larga misura, giova alla qualità e della stabilità della nostra democrazia.
Nel complesso, il lettore si trova immerso in un’esplorazione che, partendo dalle specificità e dalle evoluzioni storiche di singoli territori, serve all’autore per interpretare e valutare con maggior cognizione di causa le dinamiche politiche convulse degli ultimi decenni di storia nostrana, dipingendola dunque come una democrazia ‘possibile’, non compiuta fino in fondo. Seppur depauperati del loro ruolo di un tempo, i partiti mantengono per Almagisti la funzione essenziale di incapsulare in maniera durevole i conflitti che continuamente affiorano nella nostra società. Comporre le fratture sociali, intercettare e connettere alle istituzioni il capitale sociale prodotto lungo i versanti dei cleavages: questa la grande sfida dei partiti degli anni 2000, sfida da cogliere con uno sguardo lungimirante alle prospettive di lungo periodo, ma anche con la consapevolezza che nella frenesia e nella complessità dei sistemi politici di oggi «non esiste una seconda possibilità per fare una buona prima impressione» di fronte agli elettori.