Recensione a: Carlo Invernizzi-Accetti, Vent’anni di rabbia. Come il risentimento ha preso il posto della politica, Mondadori, Milano 2024, pp. 156, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Teresa Guarino
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Vent’anni di rabbia: così Carlo Invernizzi-Accetti caratterizza il primo ventennio del XXI secolo. Il libro mira a individuare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, di «un periodo storico straordinario, caratterizzato da grandi e veloci cambiamenti che hanno coinvolto trasversalmente tutto l’Occidente». Secondo l’autore, il carattere degli ultimi decenni non va ricercato nelle idee, quanto nelle emozioni. E la rabbia emerge come emozione prevalente, umore di fondo che attraversa questi vent’anni.
Ma che cos’è questa rabbia? Nel definirla, l’autore attinge a suggestioni che provengono dai classici della letteratura e della filosofia fondanti dell’Occidente: dalla rabbia di Achille nell’Iliade, a Platone, per arrivare alla figura hegeliana della dialettica tra servo e signore. Ripercorrendo queste trattazioni, la rabbia emerge come emozione reattiva, come risposta alla percezione di un’offesa al proprio status sociale, alla propria dignità. La manifestazione di rabbia rappresenta dunque una richiesta di riconoscimento di un gruppo sociale. Per questa ragione, sostiene l’autore, la rabbia si manifesta attraverso la dimensione della visibilità. La lotta politica degli ultimi decenni è dunque dominata dalla dimensione estetica. Tracce di questa rabbia si trovano in tutti i movimenti sociali degli ultimi decenni. Letti in questa chiave, Black Lives Matter, l’assalto al Campidoglio statunitense, il movimento #MeToo e il terrorismo islamico sono tutte manifestazioni di una comune emozione. I soggetti insorti chiedono, prima di tutto, di essere visti. Chiedono che la propria dignità venga riconosciuta.
L’accostamento di movimenti politicamente così distanti stupisce: che cos’avrà in comune Greta Thunberg con Osama bin Laden, o con Jacob Chansley, lo sciamano dell’attacco a Capitol Hill? Ebbene, tutti questi personaggi sono riconducibili a quella che Peter Sloterdijk, nel suo Ira e tempo, chiama «la figura cosmico-storica dello sfigato». Questa figura, definita principalmente per confronto e differenza con altre caratterizzazioni simili, descrive un soggetto che, a discapito di un relativo benessere materiale e nonostante goda di diritti fondamentali, si sente sminuito, trattato senza rispetto. Gli “sfigati” provengono da gruppi sociali non più facilmente riconducibili a classi sociali, ma più fluidi e definiti da elementi simbolici o stili di vita. Sono “sciami” tenuti insieme dalla comune percezione di non avere voce e visibilità nello spazio pubblico. Tutti questi sciami, per altri versi tra loro molto diversi e spesso contrapposti, sono mossi dalla logica autodimostrativa propria del sentimento di rabbia da cui nascono. Non c’è teleologia, non esiste un fine specifico o una proposta positiva che si affianchi alle esplosioni di rabbia collettiva. La rabbia si esaurisce nella sua stessa espressione. L’idea è interessante, ma può lasciare interdette e quasi deluse (soprattutto se riferita a quei movimenti sociali a cui ci sentiamo più affini). Possibile – viene da chiedersi – che tutto questo fermento non serva a niente? Pur nella profonda eterogeneità di manifestazioni, rivendicazioni e gruppi sociali coinvolti, il conflitto che muove dalla rabbia non può portare comunque a un qualche cambiamento sociale? Nelle università come nelle piazze, c’è chi negli ultimi anni questa domanda se l’è posta, e ha indagato a fondo il tema delle emozioni in politica e nei movimenti sociali. In particolare, attiviste e accademiche femministe hanno cercato le connessioni tra emozioni, disuguaglianze e possibilità di cambiamento. Affiancare queste riflessioni a quelle di Invernizzi può essere utile per ampliare il discorso, aggiungendo prospettive che spesso provengono dai protagonisti della lotta politica degli ultimi decenni. La struttura sociale, fatta di differenziali di potere, si regge anche su norme che stabiliscono chi possa provare quali emozioni, e in che modo le possa esprimere – quelle che Arlie Russell Hochschild chiama feeling rules[1]. La rabbia è spesso un’emozione legittima e socialmente accettata solo per chi si trova in posizione di potere – per esempio, un uomo bianco e ricco che è al vertice della gerarchia nel suo luogo di lavoro. In questo senso, l’espressione della rabbia è uno strumento che serve a riprodurre un sistema fatto di disuguaglianze. Nel nostro esempio: il capo urla rimproveri, al limite dell’offesa, verso i suoi dipendenti per “tenerli al posto loro”. Questi non potrebbero probabilmente fare lo stesso senza rischiare di venire sanzionati. Tanto più se donne: in questo caso, l’espressione di rabbia verrà derisa e i motivi da cui nasce difficilmente verranno presi sul serio. Esprimere la rabbia diviene però possibile, per gruppi sociali marginalizzati, in una dimensione collettiva. Invernizzi ci dice che la rabbia di chi insorge nasce da un’offesa allo status, dalla mancanza di riconoscimento. Possiamo forse dare un altro nome a questa assenza, e chiamarla ingiustizia sociale?
L’espressione della rabbia può essere cambiamento sociale in se stessa, in quanto contravviene alle regole emotive che servono a mantenere disuguaglianze e oppressione. Prendersi il diritto alla parola e alla rabbia, per chi non ha mai potuto esprimersi; occupare le strade e le piazze con i propri corpi, per chi dallo spazio pubblico è sempre stato escluso: non è già questo un progresso? Se la rabbia è autodimostrativa, è perché la dimostrazione della rabbia è, in se stessa, un ribaltamento delle parti nel conflitto sociale[2]. Vi è un cambiamento sociale che si crea nelle pratiche quotidiane di movimento: nuove alleanze e sensibilità, che si trasformano in nuovi modi di costruire relazioni umane. Inoltre, studiose e studiosi dei movimenti sociali hanno evidenziato come le emozioni in generale, e la rabbia nello specifico, non sono fini a se stesse in un contesto di lotta politica organizzata. Esse svolgono invece una funzione strategica importante: spingono nuove persone a partecipare e incoraggiano la formazione di legami interpersonali tra attiviste e attivisti, favorendo la continuità dell’azione politica. Tutti elementi organizzativi funzionali al perseguimento di altri obiettivi[3].
Il quinto capitolo di Vent’anni di rabbia traccia le connessioni, troppo spesso trascurate, tra quanto accade nella società civile e i processi della politica istituzionale. Il desiderio di riconoscimento che Invernizzi rinviene nella società dà luogo a un malessere che finisce per trasformare il funzionamento della democrazia. Ne è conseguenza la comparsa prepotente, in pressoché tutto il mondo occidentale, di due tendenze opposte e parallele: la tecnocrazia e il populismo. Il populismo germoglia dalla percezione di essere escluse ed esclusi dall’esercizio del potere politico e promette di dare voce a chi si sente lontana e dimenticata dai palazzi del potere. Tuttavia, esso difficilmente può portare a reali cambiamenti: l’aspetto retorico e dimostrativo è infatti prevalente sui contenuti politici. In Italia, il Movimento 5 Stelle è emblematico della parabola che dalla promessa di partecipazione porta a un acuirsi ancora maggiore delle distanze tra, per così dire, “popolo ed élite”. Nella prima fase, il Movimento 5 Stelle funge principalmente da canale di espressione della rabbia nei confronti di soggetti molto variegati, senza che ci siano contenuti politici ben definiti e condivisi dalla base. Successivamente, la distanza crescente tra una leadership forte e una base molto fluida e poco organizzata, e pertanto poco influente, segna il riprodursi di quelle stesse dinamiche in opposizione alle quali il movimento era inizialmente emerso. Dall’altro lato vi è la proposta tecnocratica, secondo cui il “popolo”, che si è dimostrato tanto irrazionale ed emotivo nella sua partecipazione alla vita democratica, va escluso dall’esercizio del potere. Solo gli esperti, i tecnici saranno in grado di rispondere ai reali bisogni – in questa accezione, principalmente materiali – della società, che sarà inevitabilmente soddisfatta da una simile efficienza. Ebbene, per rimanere in Italia, ciò che è accaduto dopo entrambi i governi Monti (2011-2012) e Draghi (2021-2022) ci mostra come la proposta tecnocratica abbia sbagliato il tiro. Se i movimenti sociali chiedono a gran voce spazi e riconoscimento pubblico, non è escludendoli dall’esercizio democratico che si rimedierà al malcontento e alla rabbia diffuse.
Benché opposti per molti versi, populismo e tecnocrazia sorgono dallo stesso umore collettivo. Li accomuna inoltre una semplificazione della realtà: la realtà descritta sia dal populismo sia dalla tecnocrazia è assoluta e oggettiva. Questo conduce al rifiuto di qualsiasi processo di mediazione tra i diversi interessi e valori presenti nella società, che costituisce il cuore della democrazia. Di qui viene l’avversione per i partiti e i media tradizionali – ovvero per tutti quegli organismi che hanno tradizionalmente svolto ruolo da intermediario nelle nostre democrazie.
Nel libro si contesta ai movimenti sociali degli ultimi vent’anni di non aver avuto una reale influenza o prodotto reali cambiamenti. Essi si sono trovati allo sbando quando, alla fine del secolo scorso, sono cadute le strutture organizzative e i corpi intermedi tradizionali, e le ideologie di cui questi si facevano portatori. Questo avrebbe lasciato una confusione non solo rispetto alle strategie politiche, ma anche rispetto ai contenuti. Ed è proprio in questa confusione che si crea lo spazio per la rabbia. L’ultimo paragrafo del libro è intitolato Per uscire dal vortice di rabbia in cui siamo caduti è necessario sviluppare nuovi canali di partecipazione alla lotta politica organizzata. La soluzione viene dunque individuata nelle “forme” della partecipazione politica: nuovi corpi, strutture, canali, maggiormente (o diversamente) organizzati darebbero risposta alla domanda di riconoscimento. Forme più efficaci di partecipazione politica riuscirebbero a incanalare – e, in ultima analisi, a rimediare – alla rabbia diffusa nel nostro tempo.
Ma forse qualcosa sta già accadendo. Come mostra Giorgia Serughetti nel suo La società esiste (Laterza 2023), soprattutto a partire dal periodo post-pandemico, movimenti progressisti tra loro molto diversi hanno formato alleanze in forma di rete che sembrano segnare un cambio di paradigma. Queste esperienze mettono in atto pratiche quotidiane di solidarietà e cura, che mirano a cambiare la società dal basso. A partire da posizioni di vulnerabilità, recuperano rivendicazioni di carattere materiale che superano le politiche identitarie e le richieste di rappresentazione che avevano dominato la società civile organizzata a partire dagli anni Ottanta di Thatcher e Reagan. In Italia, si parla per esempio del collettivo di fabbrica GKN, che a partire dalla precarietà lavorativa ha costruito e consolidato una rete che spazia tra università, associazioni di ispirazione cattolica e giovani gruppi ambientalisti. In modo simile, le studentesse e gli studenti che si sono mobilitati in solidarietà con la causa palestinese e contro il genocidio hanno prodotto un discorso complesso: partendo dalla propria posizionalità e dal proprio ruolo di studenti, si giunge ad abbracciare una visione ampia e complessa del mondo e del futuro. Dall’alleanza e dalla conoscenza reciproca tra soggetti e gruppi sociali diversi nasce non solo una nuova forza comunicativa, culturale, politica, ma anche la capacità di prefigurare una società futura in modo intersezionale, che comprenda desideri e bisogni diversi. Il lavoro, la sessualità, la salute, le migrazioni sono solo alcuni dei temi che formano parte di un discorso a più voci, ma portato avanti insieme da soggettività e gruppi che condividono marginalità e vulnerabilità.
[1] Arlie Russell Hochschild, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, il Mulino, Bologna 2006 / 2015.
[2] Sara Ahmed, Il manuale della femminista guastafeste, Fandango Libri, Roma 2024.
[3] James M. Jasper, The Emotions of Protest, University of Chicago Press, Chicago 2018.