Scritto da Arianna Papalia
9 minuti di lettura
Il XIX Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese si è concluso lo scorso 24 ottobre 2017. Dopo una lunga settimana di consultazioni alla Grande Sala del Popolo, nel cuore di Pechino, i 2280 delegati hanno decretato l’ingresso della Cina in una nuova era e hanno designato la leadership che si occuperà di questa transizione, per un periodo forse anche più lungo di quello previsto dalla Costituzione. Non solo, il consesso ha resocontato dell’attività del Partito nei cinque anni precedenti e ha stilato le linee guida su cui si fonderà l’agenda politica per il successivo quinquennio.
Se l’accesso ai contenuti della speciale riunione è stato agevole per tutti i media internazionali, più arduo è stato – e continua ad essere – districarsi tra i complessi meccanismi con cui tali contenuti vengono prodotti, nonché comprendere a quale livello della piramide del potere cinese essi vengano formulati. Il processo decisionale del Partito Comunista Cinese (Pcc) è oscuro (anche agli osservatori più esperti) e i contenuti divulgati al culmine di tale processo, ossia i congressi nazionali, non bastano a riempire tutti gli spazi vuoti lasciati da un processo politico affatto trasparente. Comprendere la traiettoria politica delle istituzioni cinesi risulta spesso un complicatissimo rebus, e il primo strumento da acquisire per cimentarsi nella risoluzione dell’enigma è la conoscenza delle sue istituzioni. Il prossimo paragrafo fornisce dunque un’analisi delle principali strutture del Partito Comunista Cinese.
Una di queste è il Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese. Esso è, formalmente, l’organo più importante del Partito e la sua riunione rappresenta il momento di più alta partecipazione politica in Cina. Si riunisce ogni cinque anni a Pechino per circa una settimana, periodo in cui nella capitale vengono ospitati i delegati provenienti da tutto il paese, scelti attraverso complesse procedure di candidatura che coinvolgono tutte le istituzioni del partito ad ogni livello della società. I delegati che risultano da questo attento meccanismo di selezione, colossale esempio di democrazia intra-partitica se si considera la portata degli iscritti al Pcc (89 milioni di membri), hanno il compito di indicare i successi e le sfide che il Partito ha affrontato nel quinquennio che si è concluso e dovrà affrontare prima del successivo congresso. Non solo, il Congresso ha l’autorità di emendare lo statuto del Partito e il ruolo fondamentale di determinare la composizione dell’organo che possiede la più alta autorità una volta conclusosi il Congresso: il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Il compito di questo istituto è discutere le politiche più rilevanti del paese. Si riunisce una volta all’anno in sessione plenaria, ed elegge nei giorni immediatamente successivi al congresso il Politburo ed il Comitato Permanente del Politburo, i più alti organi decisionali del partito, nonché la Commissione Militare e il Segretariato.
Quello che vuole sembrare un processo bottom-up di scelta della dirigenza comunista è in realtà un rituale formale di avvallamento di decisioni e cariche che sono già state stabilite nei mesi precedenti al congresso durante incontri blindati tra la ristretta cerchia del Politburo e del Comitato Permanente del Politburo. Il Partito Comunista Cinese, avanguardia del popolo, rifiuta da sempre di adottare le pratiche delle democrazie rappresentative occidentali dove, attraverso il ricorso a periodiche elezioni, ogni cittadino è chiamato ad esprimere la propria preferenza politica. Esso ribadisce l’efficienza del proprio modello basato su una rigida selezione meritocratica della dirigenza ad ogni livello, la quale proviene dal popolo e per esso lavora costantemente. La Cina rivendica l’esercizio di questa forma di democrazia sostanziale che, pur non prevedendo le procedure delle democrazie di stampo occidentale, ne eguaglia i risultati e si prefigge di ottenerne di migliori.
Quali novità dal XIX Congresso?
I poderosi traguardi raggiunti sotto l’attenta guida dell’attuale generazione di dirigenti del Pcc sono stati ampiamente enumerati durante le sedute del congresso, così come sono state presentate le sfide maggiori con cui la Cina deve ancora fare i conti. Al di là dei bilanci partitici stilati circa ogni quinquennio fin dalla fondazione del Partito nel 1921, il XIX Congresso ha avuto un’importanza di portata storica.
In controtendenza con le usuali prassi adottate fin dal dopo Deng Xiaoping, l’importante sessione si è conclusa senza un successore per il Segretario del Partito e Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping. Il Comitato Permanente, nucleo della dirigenza comunista, la cui composizione è stata scelta al termine del congresso, avrebbe dovuto annoverare tra i 7 eletti un . Tale eletto avrebbe dovuto prendere il posto di Xi Jinping al termine del suo mandato, cioè tra il 2022 e il 2023. Quando il 25 ottobre scorso i 7 membri del Comitato Permanente si sono allineati davanti alla Grande sala del popolo, mentre la stampa internazionale faceva i conti con le età degli eletti, ogni cinese aveva già capito che l’erede non era tra i presenti.
Non è questa l’unica novità. Assolutamente inusuale è il balzo di carriera del professore dell’università Fudan di Shanghai, Wang Huning, eletto membro del Comitato Permanente del Politburo. Una lunga esperienza amministrativa è solitamente prerogativa per qualsiasi avanzamento di carriera nel partito. Xi Jinping è stato amministratore di due grandi provincie della Cina, ad esempio, nonché sindaco di Shanghai, prima di ascendere ai vertici del Partito. L’accademico Wang balza così nella ristretta cerchia dei più potenti, pur senza precedenti di amministrazione, vedendosi riconosciuto il prezioso contributo ideologico apportato al Partito fin dalla presidenza Jiang Zemin (1992-2002). Come capo della Sezione Politica dell’Ufficio per la Ricerca politica del Comitato centrale dal 1995 Wang ha contribuito alla formulazione di alcune “bandiere ideologiche” del Partito. La teoria delle “Tre rappresentatività” con cui il Partito ha definitivamente accettato di rappresentare anche le istanze della classe imprenditoriale, il “Concetto dello sviluppo scientifico” che ha fornito la base teorica per calmierare lo sviluppo selvaggio per niente eco-sostenibile del paese, così come il “Sogno Cinese” di Xi Jinping riportano il personale apporto filosofico del professore. Le tre formulazioni appena menzionate sono emanazione di una più profonda convinzione politica di Wang, definita “neo-autoritarismo”. Secondo l’ideologo, per approdare ad una forma matura di democrazia, è necessaria una fase di transizione più o meno lunga in cui il potere viene maggiormente accentrato e le libertà vengono concesse gradualmente e in maniera rigorosamente controllata. Tutto questo per evitare che il caos si dissemini nel paese e che concessioni democratiche danneggino la fragile struttura della Cina. La democrazia è l’obiettivo, insomma, ma è il Partito a pianificare e a decidere la velocità con cui si corre verso questo progetto politico.
La novità storica è tuttavia un’altra e cioè l’inserimento del contributo ideologico di Xi Jinping all’interno dello statuto del Partito. Prima di lui soltanto i nomi di Mao Zedong e Deng Xiaoping comparivano nell’importante documento, ma soltanto Mao aveva potuto vedere in vita il riconoscimento del suo pensiero. Il presidente Xi, al culmine della sua carriera politica, viene elevato nell’alveo dei padri fondatori del socialismo cinese, lasciando indietro Jiang Zemin e Hu Jintao, i due presidenti che hanno preceduto Xi, i cui contributi compaiono senza i loro nomi.
La formulazione del pensiero di Xi Jinping del “socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era”, sancisce l’ingresso della Cina in una nuova fase storica. Se Mao aveva reso possibile il sogno di una nazione cinese portando alla vittoria del comunismo sui nazionalisti di Chang Kaishek, se Deng Xiaoping aveva abbandonato l’idealismo di Mao per avventurarsi verso la strada inesplorata del socialismo con caratteristiche cinesi, imbracciando l’arma del pragmatismo e abbandonando il pauperismo dell’era maoista, sarà Xi Jinping a portare il paese verso una nuova era dove il vantaggio economico relativo cui la Cina è arrivata verrà convertito in crescita di qualità, eco-sostenibile e soprattutto a beneficio di tutti, non solo dei cinesi.
Quali prospettive future?
La Cina della nuova era è quella che emerge dal lungo discorso al Congresso pronunciato il 18 ottobre da Xi Jinping.[1] Riassunte in 14 emblematici punti, il Segretario ha enunciato le politiche chiave che la Cina applicherà nei prossimi anni. Assicurare la leadership del Partito è in cima alla lista. Convinzione del Pcc è che non ci sia alcuna Cina senza di esso e viceversa. È il Partito ad aver assicurato e gestito lo sviluppo economico del paese, e come avanguardia del popolo, il partito continua ad essere legittimato a guidare questa nuova fase storica.
Intraprendere una conversione economica è un ulteriore punto enucleato da Xi. La transizione da una produzione quantitativa verso una qualitativa verrà accompagnata da una profonda fase di riforme strutturali, con una particolare attenzione ad assicurare una maggiore qualità dal punto di vista dell’offerta. Verrà promossa l’integrazione di internet, i big data e le intelligenze artificiali con l’economia reale, verrà sostenuta maggiormente l’innovazione, la ristrutturazione delle industrie tradizionali, la sharing economy. L’obiettivo è quello di far spostare le industrie cinesi verso la fascia medio-alta della global value chain incontrando così gli standard internazionali. La Cina abbandonerà definitivamente il suo ruolo di “fabbrica del mondo” e competerà a livello internazionale per l’innovazione e la qualità dei suoi prodotti. La necessità più grande è, tuttavia, continuare ad aprire il mercato e lasciare che questo giochi un ruolo ancora più decisivo nell’allocazione delle risorse. Trovare un equilibrio, però, tra mercato libero e controllo statale è una grandissima sfida esistenziale per il Partito, ma soprattutto per le moltissime imprese possedute dallo Stato.
Per essere maggiormente credibile lo sviluppo che si prospetta dovrà essere eco-sostenibile. Per la promozione dell’armonia tra uomo e natura, altro punto dei 14, si adotterà una produzione a basso livello emissioni inquinanti, si investirà nella green economy contrastando ogni forma di spreco.
Di questa transizione economica, tuttavia, non se ne avvantaggerebbero soltanto i cinesi, è in questo contesto infatti che si inserisce la tanto discussa “Belt and Road Initiative”, piano strutturale di sviluppo dell’intera Asia, che si spinge fino all’Europa. Sulle antiche rotte della Via della Seta transiteranno capitali, persone, ma soprattutto idee e cultura. Tutto questo aiuterà a costruire e a rafforzare quella che Xi Jinping chiama “comunità con un futuro condiviso”. Costruire una comunità di stati che abbiano le stesse aspirazioni e necessità per il futuro è un potente obiettivo di politica estera. È uno degli step per cui passa la più ampia costruzione di un ambiente internazionale armonioso e pacifico, presupposto fondamentale per raggiungere gli obiettivi di politica interna che la Cina si prefigge, ma soprattutto cornice entro la quale iniziare a svolgere un ruolo sempre più attivo e guadagnarsi credibilità internazionale.
La Cina che Xi Jinping ha in mente davanti ai delegati del congresso, con le sue contraddizioni da sanare e le sue aspirazioni, ha due orizzonti temporali, due scadenze da rispettare. Il primo è il 2021, centenario della fondazione del Partito Comunista Cinese. Entro il XX Congresso la Cina dovrà completare la costruzione di una società moderatamente prospera. Gli imperativi sono sollevare milioni di persone dalla povertà e affrontare quella che è la più grande sfida secondo il presidente: la contraddizione tra lo sviluppo economico crescente e la crescita delle diseguaglianze. Il secondo orizzonte temporale è il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Entro metà secolo, insomma, la Cina dovrà diventare una società perfettamente avanzata e prospera.
In piena corsa verso questi due traguardi, la Cina della nuova era scommette tantissimo con sé stessa e con il mondo. Rimanere socialista, eppure innovarsi; mantenere saldo al potere il Partito Comunista, responsabile dei successi economici raggiunti fino ad oggi, eppure concedere più libertà all’iniziativa individuale; aprirsi al mondo, senza perdere i valori fondanti della cultura cinese. A garantire l’equilibrio in questo slancio non può essere che il Partito. Esattamente in quest’ottica va compresa l’abolizione del limite di mandato per il presidente e il vice-presidente della Repubblica Popolare Cinese, appena approvati dall’Assemblea Nazionale del Popolo, organo supremo dello stato. Il timoniere della transizione non può abbandonare la nave, altrimenti ne potrebbe risultare una perdita di rotta in questo decisivo momento storico.
Tuttavia, se nel breve termine il Partito ritiene necessario un accentramento del potere per affrontare la fase decisiva di riforme che si prospetta nei prossimi 30 anni e per giocare finalmente un ruolo decisivo sullo scacchiere internazionale, la promessa di realizzare uno stato più ricco ed equo dove le contraddizioni sociali verranno risolte si dilata verso un orizzonte temporale troppo lontano. I cinesi potrebbero svegliarsi dal lungo torpore cui sono stati soggetti, ammansiti dalla promessa di diventare ricchi. Di fronte all’inevitabile rallentamento economico e all’incremento della qualità dell’istruzione la popolazione potrebbe rilevare l’esistenza di numerose contraddizioni, che la propaganda del “Sogno Cinese” potrebbe non riuscire più ad adombrare. I cinesi d’oltremare non hanno, infatti, accolto con soddisfazione l’abolizione del limite di mandato per il presidente. In alcune università americane, inglesi, canadesi e australiane sono comparsi poster di Xi Jinping accompagnati dalla scritta “Not my president”, cui è seguita una fitta campagna sui social media.
L’alternanza al potere definita dal limite dei due mandati rappresentava uno strumento di dinamicità all’interno del Partito e rafforzava la legittimità di una leadership che non si appropria delle strutture statali, ma si avvicenda al governo ciclicamente per gestirle al meglio, per il bene del paese. Il limite di mandato era un potente garante del principio di “leadership collettiva” alla base della prassi del Pcc. La sua abolizione, così come la fusione del piano strutturale per una nuova era con la persona di Xi Jinping, ha evocato un ritorno al passato, quando a reggere le sorti del partito e del paese erano figure carismatiche che, agendo spesso individualmente, hanno causato ingenti danni alla Cina.
Questo rafforzamento di Xi potrebbe nel lungo termine immobilizzare i meccanismi di cooptazione dall’alto con cui viene scelta la dirigenza comunista, poiché troppo influenzati dalla sua influenza. Questo potrebbe causare un crescente fazionalismo e la nascita di sacche di resistenza nel Partito che spingono verso un ritorno al sistema di leadership collettiva. L’immobilismo che ne deriverebbe è prevedibilmente uno dei maggiori pericoli per il Partito e di conseguenza dell’intera struttura del Partito-Stato, data la capillarità del controllo comunista sull’intero paese. Tuttavia la leadership ha bene in mente queste criticità e per questa ragione la sopravvivenza della leadership comunista stessa rimane uno dei core value da preservare, così come più volte ripetuto al Congresso. Nonostante le numerose spinte verso una progressiva democratizzazione cui è sottoposta la dirigenza, sempre più pressanti man mano che il paese si sviluppa e si inserisce nelle dinamiche internazionali, il Partito continua a sostenere la validità del proprio modello autoritario e a mettere in pratica strategie sofisticate di controllo della legittimità per assicurarne la resistenza. Le narrazioni del Pcc sono dopotutto estremamente efficaci e l’accentramento cui stiamo assistendo, come sostiene l’ideologo Wang Huning, è giustificabile come fase intermedia che precede la concessione della totale libertà e il raggiungimento della piena democrazia. Quello che succederà nel frattempo, se cioè la Cina riuscirà a rimanere in piedi mantenendo la sua struttura autoritaria ed il suo rigido controllo sulla popolazione in un mondo che richiede sempre più flessibilità e trasparenza, è tutto da vedere.
[1] Il discorso integrale pronunciato da Xi Jinping al XIX Congresso del Partito Comunista Cinese nel quale è condensata la sua visione del “Socialismo con caratteristiche cinesi della nuova era” è consultabile in lingua inglese presso il sito dell’agenzia Xinhua: www.xinhuanet.com/english/download/Xi_Jinping’s_report_at_19th_CPC_National_Congress.pdf