Recensione a: Paolo Bricco, AO Adriano Olivetti un italiano del Novecento, Rizzoli, Milano 2022, pp. 492, 22 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Ripercorrere la vita di Adriano Olivetti significa anche attraversare il cuore del Novecento italiano. Dal biennio rosso al fascismo, dal dopoguerra al boom economico. Anni di profonde trasformazioni, che vedono intrecciarsi attraverso il cambio generazionale epoche diverse, con i padri che portano con sé i residui dell’Ottocento positivista e i figli che passano per l’inquietudine del nuovo secolo, l’orrore e la ricostruzione. È difficile approcciarsi alla vita dell’imprenditore di Ivrea senza tenere conto di questa cornice. L’importanza di una storicizzazione della sua biografia, nonché di una prospettiva che rifugga le facili sirene del mito, è stata colta da Paolo Bricco, saggista e giornalista del Sole24Ore, che con il suo ultimo libro ha inteso raccontare la figura di Olivetti senza sconti, mettendone in evidenza sì le innumerevoli luci, ma anche le ombre. Un lavoro denso e accurato, in cui la raffinata prosa dell’autore dialoga con la ricca documentazione frutto di anni di ricerca. L’originalità del taglio impresso da Bricco si evince già dalle sottigliezze del titolo: AO Adriano Olivetti un italiano del Novecento, a testimonianza di come l’esperienza umana e imprenditoriale di Olivetti non venga proiettata in quella astratta dimensione trascendentale tipica delle opere agiografiche, bensì si trovi ad essere calata nel periodo storico di riferimento, in un’Italia in continua trasformazione.
«Adriano e il cristianesimo che lui sceglie. Adriano e l’ebraismo nella cui assenza lui è immerso. Adriano e la spiritualità che si genera dal rifiuto – nel pensiero e nell’esperienza – della violenza della modernità, così forte da sfigurare il volto e da ledere la dignità dell’uomo. La vita di Adriano ha appunto tre fuochi: la famiglia e l’educazione, il passaggio dall’agnosticismo al cristianesimo e una naturale pulsione sincretista e combinatoria in grado di connettere elementi diversi, di unificare spinte interiori al limite del misticismo con progettualità insieme messianiche e ultrarazionaliste che, appunto, si incubano, si generano e allo stesso tempo si oppongono alla modernità del suo tempo» (p. 275).
Con queste parole Bricco descrive il sostrato spirituale che guiderà Olivetti nelle sue vicende umane e lavorative. L’eco dell’ebraismo del padre, secolarizzatosi poi in piena ondata socialista ottocentesca, e l’intensa devozione della madre, di confessione valdese, ne segnano il cammino. A questi influssi si aggiunge il ruolo fondamentale giocato dalle mura familiari, simbolo di quel capitalismo tipicamente italico in cui la proprietà viene tramandata di generazione in generazione; ma anche limite per le ambizioni di Adriano, nonché origine di profonde tensioni con i fratelli e le sorelle, mai veramente sopite: dalle divergenze in merito all’idea di Adriano di fare confluire le partecipazioni familiari in una Fondazione al più generale approccio rivoluzionario di questi, per cui vi era sempre stata una costante tensione fra l’idea di impresa che aveva in mente e la realtà storica della Olivetti, tra il continuo tentativo, durato per tutta la sua vita, di mutarne la natura e la visione più tradizionalista dei familiari. Questione di non facile soluzione, dal momento che per quanto Adriano fosse il leader carismatico e maggiormente attivo nella conduzione dell’impresa – nonché il volto che oggi tutti ricordano, stante anche il suo contributo intellettuale – lo stesso possedeva solo il 10% della società, a fronte di un 58,9% complessivo di controllo familiare. Un ostacolo alle sue ambizioni, spesso colorate di impulsi visionari e messianici per i quali la realtà delle cose non era ancora preparata.
Negli anni Venti l’azienda aveva ancora lo stampo del padre Camillo. Lo spartiacque va identificato nel 1929. Infatti, l’11 aprile di quell’anno Adriano diventa socio accomandatario nella società, ruolo in precedenza riservato unicamente al padre; con tale formalità Adriano entra nella gestione – che prima spettava solo a Camillo, mentre gli altri soci si limitavano ad apporre capitale e ricevere gli utili, senza incorrere in responsabilità alcuna – iniziando un percorso che lo vedrà definitivamente protagonista già nel decennio successivo.
La Olivetti sarà un’industria metalmeccanica, con una cultura industriale radicata nel fordismo e nel taylorismo. Adriano imprimerà però una «deviazione creatrice» verso l’elettronica, considerata uno strumento per proiettarsi nella modernità. In questa cornice va inserita poi l’attenzione per l’estetica – vero e proprio marchio della Olivetti – nonché la capacità di espandersi sul mercato attraverso una crescente produzione ad alto valore marginale, idonea a garantire ingenti profitti sui singoli prodotti: il simbolo di questa capacità, scrive l’autore, è la Divisumma 24, una calcolatrice in grado di fare le quattro operazioni, il cui margine operativo lordo si attestava sull’85%; con un prezzo di listino di 325.000 lire nel 1957, sottratti i costi di produzione, generali e del personale, per ogni singola Divisumma 24 rimanevano 276.250 lire.
Ancora prima di queste dinamiche c’è però lo spettro, in seguito quasi rimosso, dell’adesione organica al fascismo negli anni Trenta. La penna di Bricco, supportata dalla vasta mole di documenti esaminati, ha l’ardire di affrontare questa parentesi senza sconti, raccontandoci di come l’idea stessa di modernità di Olivetti si fosse perfettamente inserita nell’humus culturale fascista. Non, dunque, sporadici collegamenti con il regime, bensì una vera e propria partecipazione al corso storico impresso da Benito Mussolini. In questo senso, Olivetti è sempre stato un uomo del suo tempo, intento a partecipare attivamente alla storia, poco incline per attitudine a subirla. Questi tratti forse meno nobili della sua individualità, ma così drammaticamente umani, sono rappresentati da Bricco con minuzia, nel tentativo di dare voce alla straordinaria complessità del personaggio. Da qui, non solo l’excursus nella (poco raccontata) adesione al fascismo, ma anche le pagine sul cosiddetto demone della politica, irrefrenabile ambizione di Adriano tradottasi in progetti perlopiù velleitari; oppure, l’ossessione per gli Stati Uniti – la frontiera tecnologica dell’epoca, il modello da emulare – che si sostanziò anche nei fitti rapporti intrattenuti da Olivetti negli anni Cinquanta con il deep state americano e, in particolare, con il controverso capo della CIA Allen Dulles, a riprova di come gli Stati Uniti e l’esigenza di ritagliarsi una dimensione politica fossero un elemento chiave delle prospettive di Adriano: non smise mai, infatti, di cercare un’investitura americana come soggetto politico in grado di arginare il comunismo da “dentro”, attraverso l’obiettivo della piena occupazione e di una dimensione maggiormente sociale della fabbrica.
Proprio la visione umanistica della fabbrica è uno degli elementi che più hanno identificato il mito di Olivetti. L’influenza del pensiero di Jacques Maritain fu molto importante nello sviluppo dell’idea comunitaristica di Adriano. Così come quella del padre socialista Camillo nel perseguimento della politica di non licenziamento che ha caratterizzato la Olivetti, suggerita proprio dal padre e portata avanti da Adriano come scelta strategica e di principio. La fabbrica, nella sua prospettiva, doveva essere il perno di qualcosa di più, doveva ergersi al servizio della persona. Una missione – o nodo – che passava, scrive Bricco, attraverso tre corde: la prima consisteva nell’impulso spirituale di rifiuto dell’assoggettamento della persona alla tecnologia e alla fabbrica; la seconda era dettata dal confronto con il canone del tempo, per cui il mondo veniva interpretato attraverso il filtro duale dello scontro tra capitalismo e socialismo; la terza, infine, avvolgeva le prime due e si declinava nelle scelte concrete, tra strategie di lungo termine e quotidianità della vita dell’azienda. È dal complesso di questi elementi che prende forma, a partire dal nucleo di Ivrea, l’idea di impresa olivettiana. «La fabbrica di Ivrea pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non vi sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta»[1]. Sotto questo punto di vista, il contributo, intellettuale e pratico, di Olivetti è stato importantissimo. Peraltro, Bricco non si limita a riportare le citazioni più famose dell’imprenditore, ma offre anche dati concreti in grado di dare conto di come tali principi si traducessero nella realtà, frutto di accurate ricerche. Ad esempio, scrive l’autore, fatto 100 nel 1948 l’indice del guadagno medio dell’operaio della Olivetti, nel 1955 questi era salito a 188,2, a fronte di una crescita a soli 137,2 dell’indice del guadagno medio dell’operaio nell’industria manifatturiera nel suo complesso; dato che diventa ancora più evidente se si osserva l’andamento specifico dei singoli settori: nella metallurgia l’indice passa da 100 a 137,35, nella metalmeccanica da 100 a 140,25, nelle meccaniche utensili da 100 a 133,3. Un esempio lampante di come il lavoratore della Olivetti ricevesse un trattamento migliore rispetto alla media nazionale.
Vi sarebbero tanti altri dati, aneddoti e approfondimenti che in questa sede non possiamo trattare. La densità del volume è ragguardevole. Riuscire a dare a un personaggio così complesso e atipico il respiro che merita non è un compito facile. Bricco con questo volume è riuscito a tratteggiare una biografia originale, ampiamente documentata, in cui la vita dell’uomo si intreccia con la storia del Paese, dove i dati dialogano con i volti. Un lavoro appassionato che ha il coraggio di guardare oltre il mito, focalizzandosi sull’uomo, tra contraddizioni, ambizioni, successi e fallimenti, devozione e ossessione. Paolo Bricco ha ricondotto Olivetti nella dimensione concreta della vita, riportandolo sulla terra e, in particolare, proprio in quella Italia del Novecento da cui tutto è partito.
[1] Adriano Olivetti, Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 1959 / 2015. Citazione riportata a p. 286.