Capitalismo e democrazia: quale equilibrio tra competizione, conflitto e cooperazione? Intervista a Fabrizio Barca
- 10 Dicembre 2024

Capitalismo e democrazia: quale equilibrio tra competizione, conflitto e cooperazione? Intervista a Fabrizio Barca

Scritto da Daniele Molteni

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Il 24 e 25 ottobre 2024 si è tenuta a Bologna la Biennale dell’Economia Cooperativa, dal titolo “Futuro Plurale”. L’evento ha riunito voci autorevoli del mondo della cooperazione, delle istituzioni, della politica e dei sindacati per due giorni di dibattito e riflessione con lo scopo di affrontare le grandi sfide globali attraverso il prisma della cooperazione, dell’inclusione, della solidarietà e dell’innovazione sociale. Per approfondire i temi trattati abbiamo intervistato Fabrizio Barca – Coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità e già Ministro per la Coesione Territoriale – intervenuto nel panel “La cooperazione come idea di società”.

A questo link una pagina del nostro sito che approfondisce i temi trattati nella Biennale dell’Economia Cooperativa, che verrà progressivamente aggiornata con i link ai contributi e alle interviste che dedicheremo all’evento.


Il problema delle disuguaglianze nasce da un sistema che le prevede alla sua radice, ovvero il capitalismo. L’interconnessione tra capitalismo e neoliberismo, poi, ha generato ancora più divari tra ricchi e poveri, creando il mito del “There is no alternative”. Questa disillusione l’ha ben descritta Mark Fisher nell’influente saggio Realismo capitalista, con una diagnosi a suo tempo tragica del futuro in cui oggi siamo immersi; Anna Tsing, nel libro Il fungo alla fine del mondo, mostra invece il commercio del fungo matsutake per sottolineare come sembra rimasta ormai solo la possibilità di alternative residuali alla vita dentro a un sistema capitalistico speculativo e predatorio. Possono coesistere modelli diversi di capitalismo con altre forme di economia e che rapporto c’è, invece, tra capitalismo e democrazia?

Fabrizio Barca: È comprensibile che in questa fase prevalgano letture distopiche delle prospettive della società e dell’economia, perché il neoliberismo ha reso estremo il capitalismo e gli ha impresso una torsione che ne ha accentuato ancora di più un connotato che gli è proprio, quello della concentrazione del controllo sul capitale materiale e immateriale da parte di poche persone. Questa è la chiave del successo ed è anche l’origine dei problemi del capitalismo, che non ha bisogno della democrazia, ma può convivere con essa. Nella storia, la democrazia ha tenuto a bada il capitalismo e ne ha limitato gli eccessi, che vanno in contrasto con la democrazia stessa, fondata viceversa sulla decisione popolare attraverso il pubblico confronto: esattamente il contrario di quanto avviene all’interno della logica dell’impresa capitalistica. Dunque, vediamo un neoliberismo che accentua l’enfasi sulla natura illimitata della libera iniziativa e sulla riduzione della politica alla tecnica – e promotore dell’idea della neutralità tecnologica – come se non esistesse luogo di manifestazione delle preferenze pubbliche. È un pensiero economico che produce una negazione stessa del lavoro come soggetto collettivo che si deve organizzare per contrastare il capitale, perché minimizza gli spazi e le arene di democrazia. Pensiamo, da ultimo, alla natura non democratica con cui è stato costruito e con cui si prevede di attuare il piano Draghi presentato in Europa, che rappresenta il nervo delle linee guida della rieletta Presidente della Commissione. È evidente che tutto questo tende a produrre fenomeni come quello di Elon Musk, tende cioè a togliere ogni paletto, ogni limite. Coerentemente con questa prospettiva, Mario Draghi propone di ridurre le regole sulla concorrenza e l’antitrust, che sono due dei tanti modi, come dicevano Amintore Fanfani e Palmiro Togliatti, padri costituenti, di esercitare un “controllo sociale sull’economia”. Questo controllo lo si può esercitare attraverso il modello cooperativo, l’azione di imprese pubbliche, la regolazione o l’introduzione di condizionalità sociali e ambientali, ma anche dando ai lavoratori delle aziende un ruolo nelle decisioni strategiche. Tutto ciò è negato dal neoliberismo, un paradigma entro cui il capitalismo ha il potere di erodere l’intera organizzazione sociale. È già capitato nella storia che il capitalismo abbia avuto dei momenti di isteria e di esasperazione analoghi, pensiamo all’inizio del secolo scorso. Tuttavia, oggi ci sono le condizioni perché la democrazia riprenda il controllo e le redini del capitalismo.

 

Qual è la situazione attuale dello stato del capitalismo rispetto alle tre separazioni fondamentali: “capitale e lavoro”, “valore d’uso e valore di scambio” e “produzione e finanza”? 

Fabrizio Barca: Guardare alle tre separazioni classiche può essere d’aiuto per costruire un’alternativa rispetto alla situazione in cui ci troviamo. Riguardo la prima separazione, quella tra capitale e lavoro, riprendere le redini del capitalismo vuol dire riprendere le redini forti del lavoro. La logica del capitalismo è quella di voler rendere il lavoro libero, che vuol dire in realtà mantenerlo in un rapporto di subalternità tale per cui il lavoro stesso non riesce a ottenere il ritorno che gli è proprio e ad avere un ruolo nelle decisioni: scegli liberalmente come essere subalterno. Ma il fatto che oggi sia più complesso farlo non vuol dire che il lavoro non si possa organizzare, perché si è organizzato nella storia e può tornare a organizzarsi per mirare ad avere un ruolo strategico. Il Forum Disuguaglianze e Diversità a questo proposito propone la formazione di consigli del lavoro e della cittadinanza, ma ci sono anche altre modalità. Si tratta di avere la volontà, la forza e la durezza politica tali da imprimere un cambiamento. Se si guarda alla seconda separazione, quella tra il valore d’uso e il valore di scambio, è evidente che anche qui siamo in una fase estrema, perché la massa straordinaria di informazioni e dati sui prodotti o sui soggetti che seguiamo attraverso il sistema Internet, esercita su di noi un’alienazione delle nostre effettive preferenze. Questa alienazione, che è propria del capitalismo, è portata a forme estreme, ma non c’è scritto da nessuna parte che non si possa riprendere un controllo. La disponibilità di un’enorme massa di dati, ad esempio, potrebbe essere utilizzata da consumatori collettivi. Si pensi alla salute, è possibile che tutta la massa enorme di dati che produciamo sia utilizzata da una grande corporate per proporci terapie e cure secondo le tempistiche e i prezzi congeniali alla massimizzazione del profitto, fino a livelli straordinari come è avvenuto durante la pandemia; ma è anche possibile immaginare un sistema in cui quegli stessi identici dati vengano utilizzati nell’interesse collettivo in una forma cooperativa. Più complesso, infine, è il fronte della terza separazione, tra chi il capitale lo controlla e chi lo finanzia. Stante che le genialità imprenditoriali non coincidono necessariamente con la disponibilità finanziaria, il capitalismo ha bisogno della finanza ed è ragionevole che abbia costruito un meccanismo per cui questa arriva nelle mani più adatte a utilizzarla. Il problema è che questa catena finanziaria è oggi talmente lunga da non garantire più che alla valorizzazione del patrimonio, alla modifica dei valori azionari, corrisponda alcuna prospettiva di produzione. Ci sono gigantesche imprese mondiali che perdono soldi da quando sono nate e che tuttavia attraverso i meccanismi di induzione finanziaria dei mercati continuano a ottenere finanziamenti. Spezzare questa catena è più complesso: Dani Rodrick ci ha aiutato a capire che probabilmente il primo passo è quello di ripristinare la rigidità dei movimenti di capitale, cioè non consentire a coloro che possiedono il capitale di poterlo trasferire liberamente da un Paese all’altro. Sono le stesse condizioni che abbiamo vissuto nei venti, trent’anni anni del Dopoguerra, ed è possibile che soltanto reintroducendo quella rigidità si possa togliere al capitale finanziario il potere eccessivo che oggi detiene. 

 

Le disuguaglianze di reddito, in particolare, frenano la crescita economica a lungo termine, poiché limitano le opportunità di istruzione e mobilità sociale, riducendo il potenziale di crescita complessiva di un Paese. Il PIL e la crescita sono ancora utili indicatori del benessere di una società, oppure sarebbe preferibile pensare a delle alternative per misurare il progresso economico e sociale di un Paese, che tengano conto anche dei concetti di equità e sostenibilità?

Fabrizio Barca: Il PIL è la misura giusta per il capitalismo ed è giusto continuare a usarlo, perché ha in sé tutti i limiti del capitalismo e ci restituisce il valore di ciò che noi complessivamente produciamo sul mercato. È possibile e utile immaginare delle misure sintetiche, alternative, che consentano sul piano della polemica, della discussione, di mostrare che in realtà un Paese con un elevato reddito pro capite sta malissimo: possono essere utili come bandiere di una battaglia politica. Io però trovo molto più utile che il PIL sia integrato da una serie di altre misurazioni anziché sostituito. In particolare, la ripresa negli ultimi quindici anni della misurazione delle disuguaglianze ci dice che quelle di ricchezza sono enormemente aumentate, aggiungendo al PIL una misura della drammatica situazione della natura iniqua della crescita. Allo stesso modo, sono utili le misurazioni che riguardano l’insostenibilità ambientale, quelle che riguardano i disastri climatici, il rilascio di CO₂ in atmosfera e così via. Tutte queste rappresentano indicatori validi quanto il PIL, che insieme a esse compone il sistema delle informazioni che ci dovrebbe guidare. Al solito, il tema è politico, cioè se esistono le condizioni per far pesare sulle decisioni che vengono prese non soltanto la misura del PIL ma anche le altre. 

 

Gli effetti negativi del capitalismo neoliberista, di cui abbiamo parlato in apertura, sembra che oggi si intreccino con la crisi della democrazia liberale, che si manifesta nel voto crescente rivolto ai partiti reazionari o nelle diffuse tendenze antidemocratiche e autarchiche, oltre che in una scarsa partecipazione al voto. Quali sono le principali cause di questa disaffezione? Oltre ai partiti e ai meccanismi della democrazia rappresentativa, esistono altre possibilità per una partecipazione democratica che dovrebbero essere attenzionate in modo propositivo nell’analisi dei rimedi?

Fabrizio Barca: Tra i mantra che il neoliberismo è riuscito a imporre e a rendere egemonici c’è quello che la democrazia è in crisi o, peggio, non funziona. Sostenere che non ci sono le condizioni, vista la complessità e la molteplicità dei soggetti e l’impossibilità tra loro di coordinarsi, di arrivare a prendere le decisioni nei tempi e con la rapidità necessaria è ovviamente congeniale a quella ideologia. È però evidente che, viceversa, la democrazia fondata su un confronto pubblico – che, come ci insegna Amartya Sen, sia al tempo stesso acceso, aperto, informato e ragionevole – è l’unica strada attraverso cui si arriva non già a decisioni unanimi, ma sicuramente più vicine a quelle che possano garantirci esiti giusti. Questa modalità vale sia nella componente di rappresentanza della democrazia – i parlamenti – sia per quanto riguarda le arene democratiche esterne ai luoghi della rappresentanza, quelle che animano ancora, vivaddio, tutta l’Europa e il nostro Paese. Vediamo però come i parlamenti sono stati inibiti dal funzionare: pensiamo al Parlamento italiano, le cui regole sono state modificate in modo tale da ridurre la possibilità di ostruzionismo, una forma di soppressione delle modalità di funzionamento della democrazia in nome di una supposta ricerca di stabilità e di rapidità di decisione. La stessa inibizione avviene nelle arene democratiche esterne, che sono anch’esse luoghi attraverso i quali è possibile ristabilire i rapporti di forza appropriati nei confronti del capitalismo ma che il neoliberismo considera inutili, fatti soltanto di chiacchiere e parole, ridicolizzando questi strumenti democratici. La loro capacità di decisione invece la vediamo, territorio per territorio, luogo per luogo, ed è la fonte principale che può tornare a dare un ruolo centrale alla democrazia. 

 

Alla Biennale dell’Economia Cooperativa a Bologna ha citato la campagna di azionariato popolare del Collettivo di fabbrica GKN di Campi Bisenzio come un esempio concreto di connessione tra lavoro e sostenibilità che cerca di contrastare la speculazione capitalistica, con un approccio di collegamento tra politica ed economia maggiormente democratico. Esperienze come questa possono offrire un’alternativa all’entropia e promuovere uno sviluppo davvero sostenibile, inclusivo e orientato al benessere delle persone, dei lavoratori e dell’ambiente?

Fabrizio Barca: Il tentativo di Campi Bisenzio è, come altri e su altri fronti, rivolto a contrastare l’iper-capitalismo e a rimettere al centro le persone e la giustizia sociale con un metodo democratico: a livello territoriale diversi soggetti – privati, sociali, pubblici – mettono in condivisione i propri saperi al manifestarsi di crisi, difficoltà ed eventi non prevedibili e costruiscono alternative. Nel caso di Campi Bisenzio, riconciliando obiettivi sociali e ambientali. Il progetto ex GKN si scontra con interessi patrimoniali potenti, con l’assenza assoluta di una politica industriale che ne colga il valore, e con l’insostenibile timidezza di chi nel Paese guida l’opposizione politica e che, a livello regionale, potrebbe raccogliere e dare forza al tentativo. In altri luoghi e su altri temi, come di fronte a una catastrofe climatica o a una situazione sanitaria degenerata, vediamo simili tentativi dove attraverso il confronto si cercano soluzioni collettive. Queste esperienze, che nel caso della proposta di Campi Bisenzio pongono al centro la soluzione cooperativa, rappresentano sicuramente un’alternativa di comunità alla strada dell’iper-individualismo predicato dal credo neoliberista. 

 

Nel rapporto tra democrazia, disuguaglianze e capitalismo, un elemento aggiuntivo è quello della tecnologia e in particolare degli algoritmi e delle intelligenze artificiali. Tramite queste innovazioni molti bias vengono riprodotti, soprattutto attraverso gli algoritmi che vengono lasciati “lavorare” in modo passivo per preservare lo status quo. Come è possibile invertire la rotta per far sì che le nuove tecnologie aiutino a ridurre anziché esacerbare le disuguaglianze?

Fabrizio Barca: In questo scenario di possibile rinascita della democrazia di cui andiamo discorrendo, l’utilizzo appropriato delle straordinarie potenzialità della transizione digitale rappresenta una delle carte primarie. Tutti i cambiamenti tecnologici non sono neutrali e aprono, a seconda di come sono utilizzati, un bivio radicale tra un aumento e una riduzione delle disuguaglianze, tra una forma di esplosione monopolistica del capitalismo o un suo restringimento. Proprio di recente, nel delineare come Forum Disuguaglianze e Diversità le alternative esistenti alla strada del declino dell’Unione Europea proposta dal piano Draghi, abbiamo indicato due vie in cui la trasformazione digitale può essere utilizzata per un rilancio che sia al tempo stesso produttivo e del welfare. Una di queste vie è nel campo della salute, dove la possibilità di condividere i dati di soggetti che vivono nei posti più diversi del mondo e che hanno le stesse patologie offre opportunità straordinarie. A patto, però, che questi dati non divengano proprietà di grandi corporation, ma siano utilizzati per il bene comune, per obiettivi comuni, e secondo le regole che una comunità di pazienti e di medici ha deciso di seguire. Dall’altro lato, l’enorme mole di dati che abbiamo, che derivano dai sensori, dai satelliti e da noi stessi, ci consente di migliorare in maniera straordinaria e nell’interesse collettivo la comprensione degli effetti che possono avere gli eventi climatici estremi, per prevenire questo drammatico deterioramento che causa effetti devastanti in tanti territori. Potrebbero essere predisposti in anticipo rimedi che evitino situazioni drammatiche e inaccettabili come quella di Valencia, e addirittura apportino l’adattamento al clima alle decisioni collettive di modificare i luoghi dove le persone vivono, ad esempio se quei luoghi, vuoi perché desertificati, vuoi perché continuamente colpiti da eventi meteorologici estremi, non sono più adatti alla vita umana. Questi sono due esempi nei quali non solo è possibile utilizzare i dati nell’interesse collettivo, ma si può dare vita anche allo sviluppo di imprese virtuose e alla produzione di un’innovazione tecnologica che sia nell’interesse generale. 

 

Nella vostra proposta di creazione di hub tecnologici pubblici o pubblico-privati, che ruolo vede per il settore pubblico nel promuovere le innovazioni tecnologiche e sfidare i monopoli? Esistono realtà che provano ad andare nella direzione di una maggiore redistribuzione del potere?

Fabrizio Barca: Una possibile attuazione è nell’ambito di uno dei due temi che ho citato pocanzi, ovvero l’impatto che potremmo avere sulla sanità. La dimensione e la scala appropriata per una risposta nell’interesse collettivo non è però quella nazionale, ma quella europea. La nostra proposta è quella di un’infrastruttura pubblica per la ricerca e lo sviluppo di antivirali e di rimedi per malattie rare, che arrivi fino alla produzione delle soluzioni che vengono portate a ridosso del mercato, consentendo quindi a migliaia di imprese di produrre quei prodotti a prezzi concorrenziali, e non a un singolo monopolista di imporre le proprie scelte. Questa soluzione rappresenta sicuramente una strada in cui il pubblico può svolgere una funzione fondamentale che si può sposare pienamente con un capitalismo concorrenziale. È una soluzione che, pur non approvata, ha ottenuto nel Parlamento Europeo il voto favorevole di oltre centocinquanta parlamentari.

 

Come si colloca la forma cooperativa nella sua analisi del capitalismo? Che tipo di ruolo, o ruoli, può svolgere in relazione alla promozione di modelli economici più inclusivi, sostenibili e democratici?

Fabrizio Barca: La forma cooperativa, come dicevo prima, sin dall’incipit costituzionale viene pensata dal pensiero cattolico e dal pensiero socialista e comunista, e in qualche modo accettata e tollerata anche dal pensiero liberale, come un modello di produzione alternativo a quello capitalistico. Oggi questa forma sembra rispondere, ancora più che in passato, alla pulsione fortissima che viene da milioni di persone in tutti i Paesi di scrollarsi di dosso una delle condanne del neoliberismo, cioè quella di caricarci della responsabilità di identificare il nostro talento, di usarlo e di dimostrare, di fronte non si sa bene a chi, che siamo capaci e meritevoli. Questo carico straordinario di responsabilità individuale di contrapposizione alle altre persone, il cui metro è quello di accumulare patrimonio, è una delle fonti delle angosce della società contemporanea. La reazione a queste angosce è quella di realizzare ciò che Savater chiama un blackout collettivo, affiancandolo al blackout individuale (silenzio e cammino): si tratta di dire no a questo paradigma e affermare, al contrario, che le soluzioni ai problemi che abbiamo – il miglioramento delle condizioni della salute, il raggiungimento di una straordinaria innovazione, il miglioramento dell’organizzazione della città – le elaboriamo in modo collettivo con gli altri. Dunque, attraverso una modalità che estragga i saperi dal massimo numero di soggetti e che quindi sia attenta alla subalternità di genere, alla subalternità ambientale e alla subalternità etnica. L’intersezionalità che il femminismo ha proposto si può realizzare all’interno di una collettività che si ponga un simile obiettivo.

 

In che modo la cooperazione tra enti pubblici, imprese sociali e comunità locali può essere rafforzata per promuovere in particolare lo sviluppo territoriale e affrontare le sfide legate alle disuguaglianze economiche e sociali? Quali strumenti dovrebbero essere utilizzati?

Fabrizio Barca: È evidente che la forma cooperativa è particolarmente adatta ad affrontare stati e situazioni di arretratezza territoriale. Che cos’è l’arretratezza territoriale? È una situazione che potremmo definire di trappola del sottosviluppo, in cui un territorio non è riuscito a trovare, né nella dinamica del mercato, né nella dinamica democratica del dibattito pubblico, il modo per giocare le carte che possiede. Le politiche pubbliche che ho tentato di sviluppare nella mia vita insieme a tanti altri, in Italia e nel mondo, per stimolare lo sviluppo possono scuotere questi territori, senza riempirli di sussidi o compensando i loro limiti prolungando soltanto la loro agonia, ma viceversa iniettando le competenze e le capacità per riuscire a trovare la consapevolezza delle risorse, dei mezzi e della forza di discutere assieme, di non pensare individualmente ma collettivamente. È possibile ridisegnare il sistema della mobilità, il sistema integrato della salute, il sistema scolastico con un progetto integrato territoriale che può emergere da una collettività. 

 

Ad oggi, anche in considerazione di quello che è stato il suo lavoro negli ultimi anni e guardando alla legge sull’autonomia differenziata, quali potrebbero essere gli elementi chiave di un approccio basato su specificità territoriali per promuovere lo sviluppo, soprattutto nelle aree più marginalizzate o interne? Quali interventi ritiene prioritari per arrivare a una maggiore coesione?

Fabrizio Barca: La parola chiave tramite cui costruimmo una collettività di amministratori pubblici, accademici e imprenditori nel 2008, quando scrivemmo in Europa, con la Commissaria polacca Danuta Hubner, il rapporto per il rilancio della politica di coesione, va sotto il nome “politiche di sviluppo sensibile alle persone nei luoghi”. Questo è lo strumento, né top downbottom up, che consente di disegnare e realizzare una politica in cui a livello nazionale si mette il fuoco sui servizi fondamentali, si fissano le missioni strategiche e si individuano le metodologie per scuotere i territori; poi si lascia che i processi avvengano territorio per territorio, e che le modalità con cui affrontare e risolvere i problemi nascano a livello territoriale; senza uscire di scena, ma interagendo dal centro, discutendo, accompagnando i territori, ma anche modificando regole nazionali erroneamente rigide e omogenee quando se ne coglie il limite. Questo tipo di politica quando viene realizzata porta a risultati e non è quello che le classi dirigenti di centro-sinistra e di centro-destra hanno fatto in questi anni. Non posso non rilevare che per quelle zone del nostro Paese che abbiamo definito con Manlio Rossi-Doria “aree interne”, cioè lontane dai servizi fondamentali, era stata costruita una strategia che aveva esattamente questi tratti ma che è lentamente degenerata in un’azione classica di trasferimento di soldi pubblici ai territori, al di fuori di una logica di rilancio permanente e strategico. L’autonomia differenziata è esattamente la strada dello spezzettamento di un Paese unitario in tanti “staterelli” che si ritrovano a esercitare i servizi fondamentali in maniera non democratica e non sensibile alle persone nei luoghi, e quindi è ortogonalmente opposta a ciò che servirebbe.

 

Restando sul tema della coesione territoriale, l’Unione Europea prevede dei fondi specifici proprio in questa direzione. Queste risorse e quelle del PNRR quali effetti stanno producendo in termini di sviluppo territoriale e disuguaglianze? Qual è lo spazio per l’economia cooperativa nell’Unione Europea?

Fabrizio Barca: Per l’Europa pensata da Jacques Delors una delle grandi carte da giocare è la densità del suo tessuto democratico, privato, pubblico, sociale e territoriale. È l’Europa che ha individuato nella coesione uno dei suoi principi fondamentali e ha immaginato che questa coesione fosse economica, sociale e territoriale, mettendogli poi a disposizione un terzo del proprio budget. Il tentativo compiuto a partire dal 2008 di dare una svolta a questa politica, a cui facevo riferimento sopra, ha prodotto risultati in molti territori, in ogni Stato membro, ma non è stato colto e reso sistematico dalle classi dirigenti. Tantomeno qui in Italia. Il PNRR conferma questo giudizio: rappresenta una strada tradizionale di tipo top down. A parte il modo improprio con cui è stato disegnato e realizzato in Italia, prendendo dal cassetto progetti che già esistevano (con le dovute eccezioni), il metodo scelto non consente ai territori e alle persone che li abitano, marginali o non marginali, di esprimere i propri saperi e di condensarli all’interno di soluzioni effettivamente rispondenti ai bisogni reali. Se e solo se un territorio è già attrezzato, ha una strategia integrata, allora potrà volgere a buon uso quelle risorse. Chiudendo il cerchio rispetto all’inizio della nostra conversazione, questo si può dire contribuisca a un indebolimento della democrazia. Se le persone nei territori avvertono che i soldi pubblici vengono utilizzati per costruire qualcosa che è tendenzialmente lontano dalle loro fondate aspirazioni, il loro distacco dalle istituzioni si accresce. Non si riducono le disuguaglianze, non c’è un loro coinvolgimento nei processi democratici di decisione e si consolida, come è avvenuto di recente negli Stati Uniti, l’idea che in questa difficilissima contingenza della nostra storia sia forse meglio rinunciare agli strumenti della democrazia e concedere tutti i poteri a un “Cesare” non contestabile. Così, almeno, sapremo chi è stato il responsabile, perché in fondo non c’è alternativa. Alternativa. La parola chiave. A noi, sempre, il dovere di mostrare che esiste ed è attuabile. Ho citato le critiche severe del Forum Disuguaglianze e Diversità al piano Draghi per l’Europa. Le abbiamo potute avanzare, perché lo leggiamo dal punto di vista di un’alternativa: quella che abbiamo presentato nel libro Quale Europa. Capire, discutere, scegliere uscito nel 2024 per Donzelli a cura di Elena Granaglia e Gloria Riva. Una strada possibile per rimettere l’Europa in cammino verso coesione, pace e giustizia sociale.

Scritto da
Daniele Molteni

Editor di «Pandora Rivista», si è laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano e ha collaborato con diverse realtà giornalistiche, tra cui «Africa Rivista», «Lavialibera» e «Modern Insurgent». Si occupa di politica internazionale, questioni sociali e tecnologia. È membro del collettivo giornalistico “Fuorifuoco”.

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