Recensione a: Arnaldo Bagnasco, Giuseppe Berta e Angelo Pichierri, Chi ha fermato Torino? Una metafora per l’Italia, Einaudi, Torino 2020, pp. 144, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Roberto Mussinatto
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Chi ha fermato Torino? (Giulio Einaudi editore) indaga le cause del declino di una città che a lungo nel Novecento è stata traino dell’economia italiana. Il libro, piuttosto agevole alla lettura, è composto da tre saggi distinti, ciascuno con un focus diverso: il primo, quello di Arnaldo Bagnasco, professore emerito di sociologia all’Università di Torino e accademico dei Lincei, si concentra sulle modalità di regolazione degli effetti del mercato sulla società; il secondo, quello di Giuseppe Berta, professore di storia contemporanea all’Università Bocconi, è dedicato invece a tratteggiare un quadro della storia dell’industrialismo torinese e in particolare della sua involuzione negli ultimi trent’anni; il terzo, quello di Angelo Pichierri, già ordinario di sociologia dell’organizzazione all’Università di Torino, si occupa del ruolo delle istituzioni pubbliche nella pianificazione delle strategie di rilancio cittadine e nella gestione dei beni pubblici. Nonostante queste differenti prospettive, i tre saggi rimandano un’immagine unitaria e coerente di Torino, connotata da un generale declino, evidente in particolare sul piano demografico e del reddito pro capite, indicatori che collocano la città, un tempo cardine del triangolo industriale del Nord-Ovest e ponte fra Nord e Sud Italia, in una fase di ripiegamento e testimoniano l’arretramento dell’area torinese non solo in termini assoluti ma anche nel quadro delle relazioni economiche della Pianura Padana.
Bagnasco pone nel suo saggio la prospettiva attraverso cui la situazione torinese è analizzata in tutto il libro: in quella che egli definisce l’età del «ritorno delle città» (p. 9), il problema della loro governance è centrale nel comprenderne le dinamiche di sviluppo o di arretramento. Esso assume un rilevanza ancora maggiore se collegato allo stato attuale del capitalismo, che, dopo aver vissuto la fase dell’organizzazione a cavallo fra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, vive ora una fase di trasformazione che, apertasi con la deregulation neoliberista degli anni Ottanta, espone sempre di più la società alle dinamiche insocievoli del mercato, da cui l’organizzazione, cioè la regolazione dei rapporti fra economia e società, aveva cercato di proteggerla (pp. 3-11)[1]. All’interno di queste dinamiche le città assumono un ruolo centrale, ponendosi come veri e propri attori economici che, insieme alle imprese, si muovono sul terreno di gioco preparato dagli Stati nazionali: non solo nodi di reti quindi, ma soggetti capaci di una propria politica economica che influenza i luoghi in cui le imprese scelgono di ancorarsi, con ricadute decisive sulle possibilità di sviluppo delle singole realtà locali (pp. 19-29; 84-86). Avere una buona governance che integri soggetti privati alle istituzioni pubbliche si rivela così fondamentale sia per rendere le città attraenti, creandone in questo modo le premesse di sviluppo, sia per introdurre misure che integrino le dinamiche del mercato e la società, correggendone gli effetti disgregativi e limitando le disuguaglianze.
Per circa un ventennio Torino è stata governata da un regime urbano in cui istituzioni pubbliche ed enti privati, oltre a riconoscersi reciprocamente come interlocutori affidabili, rompendo così una diffidenza che dal secondo Dopoguerra in poi aveva connotato i rapporti sociali cittadini (p. 16), avevano deciso di collaborare riunendosi nell’associazione Torino Internazionale, la quale aveva tracciato un Piano strategico che comprendeva 20 obiettivi e 84 azioni da intraprendere per trasformare la città a partire dalle aree più disagiate, fra cui figuravano in particolare le periferie nord e sud. La costituzione di tale associazione, nel 2000, arrivava a conclusione di un periodo turbolento nella vita politica urbana, aperto nel 1983 dalla denuncia di fenomeni di corruzione nella propria giunta da parte del sindaco comunista Novelli, in cui da un lato le istituzioni pubbliche faticavano a svolgere una vera leadership nella città, dall’altro nacquero diverse esperienze aggregative che da sole non avevano però la forza di imprimere una svolta all’andamento della città, i cui equilibri erano ancora largamente influenzati da FIAT. Tutti e tre i saggi riconoscono nell’esperienza di Torino Internazionale, coronata dall’organizzazione delle Olimpiadi Invernali del 2006, il felice esito di queste sperimentazioni, riunite questa volta da un’amministrazione comunale, quella dei sindaci Castellani e Chiamparino, forte e capace di esprimere capacità di visione e volontà di sintesi fra le diverse componenti del tessuto urbano. Al Piano strategico del 2000 fecero seguito quello del 2006 e quello del 2015, di cui quest’ultimo rimase però lettera morta: la concertazione fra pubblico e privato che la continuità delle amministrazioni di centrosinistra aveva permesso di mantenere in funzione si interruppe infatti con le elezioni comunali del 2016, vinte dal Movimento 5 Stelle, che aveva fatto dell’opposizione al “sistema Torino” il cuore della propria campagna elettorale. Va riconosciuto, come fanno i tre autori, che il «modello Torino», emerso all’attenzione nazionale e internazionale proprio dalle Olimpiadi del 2006, era già in crisi da diverso tempo, messo a dura prova dal taglio dei trasferimenti statali ai Comuni conseguente alla crisi economica del 2008-2011 e chiusosi ad apporti esterni al gruppo originario.
In particolare, tale sistema di governance non riuscì più ad assicurare a Torino prospettive di sviluppo credibili che fossero in grado di frenare gli effetti più gravi della deindustrializzazione, soprattutto nel campo dell’occupazione. Su questo aspetto si concentra in particolare il saggio di Berta, che ripercorre brevemente la storia dell’industrialismo torinese, che si caratterizzava come una monocoltura industriale, in cui il settore dell’auto assorbiva la quasi totalità della forza lavoro di Torino e del suo primo hinterland. Il ritirarsi dell’attore principale di questo settore industriale, FIAT, dallo scenario italiano e torinese, con la conseguente ingente perdita di posti di lavoro, ha lasciato un vuoto che le istituzioni pubbliche e i soggetti privati non sono riusciti a governare: come nota Pichierri, il gruppo dirigente torinese ha puntato troppo sulla reindustrializzazione e poco sulla transizione verso il terziario avanzato. Un esempio di questa strategia è l’esperienza di Torino Nuova Economia, società pubblica che ha acquisito parte dello stabilimento di Mirafiori al fine di dare sollievo alle casse sofferenti di FIAT in una fase determinante per il suo rilancio e di favorire la riconversione di spazi in disuso a nuove attività industriali: altre aziende dell’automotive avrebbero dovuto essere attratte dall’investire in quelle aree perché a stretto contatto con FIAT e già dotate di infrastrutture poderose, adatte alla produzione e alla distribuzione, ma il progetto naufragò davanti all’onerosità dell’investimento loro richiesto (TNE infatti era obbligata per legge a non vendere al ribasso, proponendo così prezzi inavvicinabili per imprese di piccole e medie dimensioni [pp. 72-74; 90-91]). Nonostante la crisi del settore dell’auto, Berta osserva come il sistema economico torinese non sia collassato, ma sia solo profondamente diverso da com’era prima: se fino a vent’anni fa la città poteva essere definita una one-company town, oggi invece il suo apparato economico risulta più sfilacciato e indecifrabile e vi si muovono imprese di piccole e medie dimensioni (l’unica industria intermedia è Lavazza, che occupa tutt’altro settore rispetto a quello metalmeccanico tradizionale [pp. 76-78]) e attori come banche e imprese sociali, che perseguono ciascuno differenti idee di sviluppo della città.
Sulla frammentazione del sistema economico e politico torinese concordano tutti e tre gli autori, con alcune differenze: se per Bagnasco l’atomizzazione del sistema urbano dimostra una crisi quasi irreversibile del suo modello di governance, per Berta invece essa rappresenta un buon humus da cui far nascere nuove esperienze di concertazione fra attori pubblici e privati e dunque un nuovo stile di governo urbano. All’analisi di tale scenario è dedicato il saggio di Pichierri, che si concentra sulla storia del «modello Torino» e sugli scenari attuali. In particolare, egli mette in luce due aspetti: il primo è la veste anche formale che il sistema di governance torinese aveva assunto col Piano strategico del 2001, che certificava la comunanza di interessi e obiettivi fra privato e pubblico, con quest’ultimo che assumeva il compito di fare sintesi fra posizioni diverse; il secondo è il progressivo venir meno di tale concordia a partire dal 2006-2007, quando il sorgere della crisi economica e un disimpegno sempre più marcato di FIAT dal contesto torinese hanno accelerato l’allontanamento dei diversi attori. Attualmente infatti la città manca ancora di un’agenda urbana chiara e di una visione comune per il suo sviluppo: da una parte il piano Torino 2030 presentato dalla giunta Appendino sembrava rispondere più ai programmi per la città del suo partito che ad una visione condivisa dalle forze politiche e dai privati; dall’altra soggetti diversi perseguono indipendentemente gli uni dagli altri tre tipi di agenda, una “politecnica”, legata a parte del mondo imprenditoriale e al Politecnico e che privilegia la ricerca nelle discipline STEM e la loro applicazione all’industria, una “policentrica” che punta alla diversificazione del sistema produttivo cittadino, e infine una “pirotecnica”, legata all’organizzazione di grandi eventi che richiamino flussi turistici nazionali e internazionali. Pichierri nota come fra queste non si riesca ad individuare quella preminente, né l’amministrazione comunale riesca a fare sintesi fra queste, indicando gli obiettivi verso cui tendere collettivamente, finendo così per essere un soggetto fra gli altri, incapace di esprimere una leadership locale credibile ed efficace. Qui sta il nodo fondamentale, e cioè la mancanza di una classe politica cittadina capace di far leva sul suo ruolo e sui suoi interessi economici (come quelli nelle partecipate), dimostrandosi così incapace di districarsi fra la sua triplice veste di shareholder, stakeholder e policy maker (pp. 86-94; 110-121): davanti a questa impotenza delle istituzioni pubbliche, anche l’attivismo dei privati risulta inefficace, poiché si trova disperso verso tanti obiettivi diversi. Per questo motivo Pichierri invoca, per avviare Torino verso una nuova fase di crescita, sia un protagonismo maggiore delle istituzioni pubbliche nel definire una governance urbana chiara, sia un controllo più democratico delle fondazioni bancarie, soprattutto nel momento in cui esse sono importanti attori dello sviluppo cittadino.
Concludendo si può notare come sui tre saggi aleggino quasi due fantasmi: uno è FIAT, l’altro è lo Stato centrale. Entrambi emergono di frequente nelle riflessioni degli autori, sebbene siano da loro espressamente non affrontati: tuttavia, essi sono di grande rilevanza nel definire il quadro della situazione torinese.
Nel primo caso, come nota Berta, il declino di Torino non può essere spiegato se non alla luce dei rapporti con la sua impresa principale, che per quasi un secolo la città ha posto al centro del proprio dibattito pubblico. La fine di tale centralità, che Berta individua nella crisi di contrattazione dell’estate del 1988 e nel referendum del 2011 sul nuovo contratto aziendale, ha evidenziato come mancassero gli attori capaci di colmare il vuoto da essa lasciato e che prima l’acquisizione di Chrysler e poi la fusione con PSA hanno allargato sempre di più. Berta sottolinea come la classe politica cittadina non abbia mai messo in dubbio la bontà dei fini di FIAT, anche quando essa era in crisi o decisa a volgere altrove le proprie attenzioni: il periodo di Marchionne a capo dell’azienda ha evidenziato tale ambivalenza, attirando da un lato di nuovo il consenso dell’intera classe dirigente torinese, dall’altro mettendo in moto un sempre più veloce allontanamento dalla città (pp. 51-70). Torino dunque sconta ancora oggi il ritardo accumulato nella formulazione di politiche ad ampio spettro svincolate dall’ingombrante presenza di FIAT, soprattutto nel campo delle relazioni internazionali: se per decenni queste erano state delegate all’azienda e ai suoi interessi, ora invece la politica cittadina è costretta a farsene carico autonomamente.
La vicenda di FIAT si interseca però anche col ruolo dello Stato centrale nel condizionare le politiche delle città: come nota di nuovo Berta, se la scoperta della crisi dell’azienda nel 2002 aveva destato preoccupazione a Torino, a livello nazionale la cosa era stata trattata quasi con disinteresse (pp. 61-62). Tale atteggiamento dello Stato centrale nei confronti di Torino, e delle città in generale, emerge a più riprese nei tre saggi, in particolare in relazione alla mancanza di una politica unitaria per lo sviluppo e l’integrazione dei sistemi urbani: se, come scrive Bagnasco, gli Stati nazionali devono preparare il campo di gioco per città e imprese, lo Stato italiano ha sempre mancato a questo suo compito, non riuscendo a produrre una politica industriale univoca per tutto il Paese. Tale incapacità è individuata da Pichierri in particolare nella gestione dei rapporti fra i diversi sistemi industriali della Pianura Padana: il Nord-Ovest è ormai di fatto separato dal Nord-Est, i cui tassi di crescita e benessere sono i più alti del Paese, e la funzione di polo attrattivo esercitata da Milano è pressoché non intenzionale e dovuta a motivi contingenti legati alla storia della città, più che ad un progetto specifico di leadership. Pichierri più volte sottolinea la gravità di questa situazione, per cui ad un’integrazione economica piuttosto avanzata non si unisce una pari integrazione politica: alcune sperimentazioni, come i tavoli interregionali per la gestione del Po o della qualità dell’aria, dimostrano la possibilità e la necessità di una maggiore integrazione, che però non è né favorita né auspicata dallo Stato centrale (pp. 94-105). Da questo punto di vista, infatti, esso è l’unico attore ad avere davvero la forza di costringere gli enti locali alla concertazione e di influire in maniera decisiva su alcune dinamiche insocievoli del mercato, come ad esempio la delocalizzazione industriale o la protezione di imprese strategiche da scalate ostili (in questo senso il fallimento dell’acquisizione da parte di FIAT di Opel e Renault per l’opposizione dei governi tedesco e francese è illuminante [pp. 63-70]). Si può dire dunque che, nonostante le città siano diventate soggetti politici sempre più influenti, capaci di politiche che prima erano in capo solo agli Stati nazionali, quest’ultimi siano però ancora determinanti nel governare gli effetti del mercato sulla società e nel facilitare la nascita di governance sovralocali.
Per questi motivi la vicenda di Torino e la questione del suo rilancio illuminano dinamiche non solo interne alla città, che pure si sono viste come fondamentali nel comprenderne il declino, ma anche nazionali e internazionali, che chiamano in causa la capacità progettuale e di concertazione non solo delle istituzioni e dei soggetti privati locali, ma anche degli Stati nazionali e dell’Unione Europea.
[1] Su questo doppio movimento del capitalismo, uno che tenta di assoggettare alle logiche insocievoli del mercato la società e l’altro che cerca invece di proteggere quest’ultima da tali meccanismi, e sui suoi effetti sulla società, in particolare quella italiana cfr. Francesco Tuccari, La rivolta della società. L’Italia dal 1989 ad oggi, Laterza, Roma-Bari 2020.