Recensione a: RiVolti ai Balcani, Chiusi dentro. I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo, Prefazione di Livio Pepino, Altreconomia, Milano 2024, pp. 312, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Daniele Molteni
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Da anni Altreconomia racconta le storie e i rischi vissuti dai migranti, non di rado minori non accompagnati, che giungono in Europa dalle rotte via terra e via mare per poi spesso essere respinti[1]. Nel libro Chiusi dentro. I campi di confinamento nell’Europa del XXI secolo, a questo importante lavoro si aggiunge una pubblicazione, curata dalla rete RiVolti ai Balcani, composta da saggi e inchieste che documentano e gettano una luce specifica sulla realtà delle rotte migratorie balcaniche, sui meccanismi di confinamento e il trattamento disumano riservato a migliaia di persone che subiscono la violazione dei loro diritti umani fondamentali e a cui non viene garantita la dignità umana. Attraverso l’analisi quantitativa e qualitativa della fallimentare gestione disciplinare e di controllo delle persone che transitano di Paese in Paese – Turchia, Grecia, Macedonia del Nord, Serbia, Bosnia, Bielorussia, Polonia, Lituania, Lettonia, Italia e non solo – il libro ricostruisce lo scheletro di un sistema che tenta di respingere e isolare i transitanti che provengono soprattutto dal cosiddetto Sud globale. Un sistema che si pone l’obiettivo di escluderli dalla “Fortezza Europa” rinchiudendoli in campi di confinamento, spesso in condizioni di scarsa igiene, deprivazione alimentare e assenza di supporto psicologico.
La prima parte del volume restituisce il quadro giuridico e sistemico di questo approccio e dei campi predisposti ad attuarlo, analizzando il “dentro”, ovvero le condizioni interne ai centri di detenzione e confinamento, e il “fuori”, cioè l’esternalizzazione del diritto di asilo che porta a predisporre questo tipo di isolamento oltre i confini dell’Unione Europea, non ultimo tramite gli strumenti dei respingimenti e delle riammissioni informali spesso illegittime. Nella prefazione di Livio Pepino, già magistrato e Presidente di Magistratura democratica e attuale presidente di Volere la Luna, viene sottolineato l’accordo che unisce gli Stati dell’Unione Europea: «possono, e ancora più potranno, circolare le merci […], ma quel che vale per loro non vale per le persone» (p. 11). Le conseguenze drammatiche sono che il confine tra il “noi” e il “loro” produce violenza e indifferenza, rendendo evidente l’incoerenza di un continente meticcio che ha dimenticato la sua storia ricca di influenze culturali e migrazioni. La gestione è quella dell’emergenza costante e della retorica della paura, che giustifica norme sempre più securitarie e violente raccontate come necessarie per la sicurezza di quel “noi”. Ne consegue un doppio livello di cittadinanza che prevede persino la detenzione senza reato nei campi di confinamento «per imprigionare e disciplinare i corpi dei colonizzati ed escluderli dall’ordine dei colonizzatori» (p. 16).
Luoghi che sono parte di una “macchina della detenzione” fondata su «zone definitivamente temporanee» che producono una «dimensione di sospensione» (p. 39) dei diritti fondamentali di chi vi è detenuto. Come sottolinea Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà ed ex vicepresidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, questi luoghi sono spazi ristretti che hanno la finalità di «confinare masse consistenti di esseri umani degradati a “non-persone” di cui ci si deve occupare al solo fine di impedire, almeno in parte, che essi raggiungano il territorio di quegli Stati che non intendono, sia in termini giuridici che materiali, farsene carico» (p. 41). Sono “non-luoghi” per “non-persone”, in cui il tempo si arresta e dove appare evidente l’approccio concentrazionario che rappresenta una scelta paradossalmente più costosa per la collettività in termini economici – oltre che umani – rispetto a una gestione basata sul rispetto della libertà e della dignità umana. Secondo Schiavone, infatti, la condizione di degrado che caratterizza la vita in questi campi «non dipende dalla mancanza di fondi immessi dalla comunità internazionale e neppure i campi vengono ideati e allestiti perché la loro gestione risulta più economica rispetto a un’accoglienza attuata in case di civile abitazione con standard adeguati e in condizioni di libertà. Al contrario, la gestione dei campi di confinamento risulta fortemente dispendiosa e concentra il potere economico e decisionale nelle mani di pochi grandi soggetti, i quali possono servirsi di collaborazioni con soggetti privati e operatori economici operanti nell’area dai quali comprano servizi» (p. 45).
È un sistema fondato sulla già citata diffusa logica della gestione emergenziale dei fenomeni – pandemia, guerre, crisi climatica e migrazioni – che si iscrive in una “frustrazione securitaria” che investe le democrazie liberali, che, come sostiene Alessandro Colombo, sono portate a non considerare più la sicurezza come dialettica di azione-reazione tra soggetti. «Oltre a essere liberata della sua declinazione oggettiva, la sicurezza è stata più surrettiziamente emancipata dal suo carattere di relazione»[2], sottolinea Colombo. La conseguenza, sul piano interno come su quello internazionale, è quella di non riconoscere che «molti degli altri attori (i palestinesi esposti alle periodiche incursioni militari israeliane, gli iracheni e gli afghani sottoposti a vent’anni di bombardamenti americani, l’Iran sottoposto da trent’anni alla minaccia strategica degli Stati Uniti e Israele) hanno ragioni ancora più pressanti di sentirsi insicuri […]»[3]. Se alla lista degli altri attori descritti da Colombo aggiungiamo le persone migranti il ragionamento continua a reggere nell’evidenza della miopia istituzionale verso le condizioni di insicurezza altrui.
La seconda parte di Chiusi dentro analizza nel dettaglio le politiche migratorie e di confinamento adottate dai Paesi presi in esame, che spesso fanno da “scudo” europeo, come la Grecia diventata laboratorio di invisibilizzazione delle persone migranti in aree remote, in modo tale che non costituiscano un problema politico. Oltre a sottolineare le similitudini nelle strategie degli Stati, emergono qui le pratiche di quei Paesi che aspirano a diventare membri dell’Unione Europea e si trovano quindi a esserne subalterni nella gestione di alcuni dossier politici, svolgendo la funzione di bloccare, respingere, confinare ed escludere i migranti fuori dalle porte di Bruxelles. Con l’espansione dell’area Schengen e il rafforzamento delle politiche di sicurezza ed esternalizzazione, promosse dalla riforma del Sistema europeo comune di asilo (Ceas) e dal Piano d’azione dell’Unione europea sui Balcani occidentali[4], si rende più frequente, tra le altre cose, il ricorso alle procedure di frontiera, con i Paesi balcanici trasformati in una zona cuscinetto tra Europa e resto del mondo. Il risultato è il peggioramento delle condizioni di vita delle persone, la cui unica colpa è spesso quella di non avere dei documenti adeguati – o di non averli affatto – per essere considerati meritevoli di attenzione da una burocrazia della disumanità. Una condizione che rende il viaggio in Europa, attraverso Paesi come la Serbia votati al trattenimento (p. 225), o la Bosnia dove anche gli stessi operatori umanitari vivono in luoghi poco dignitosi (p. 240), ancora più pericoloso e disperato[5]. Un viaggio che per il mondo più ricco, detentore dei “giusti” passaporti, è invece qualcosa di facile e accessibile.
Uno dei casi più recenti discussi nel libro è quello dell’Albania, che negli ultimi mesi è diventata una nuova frontiera per la gestione dei flussi migratori verso l’Europa, forte dell’accordo con l’Italia per la dislocazione – che secondo alcuni è più configurabile come deportazione – dei migranti nell’hotspot del porto di Shëngjin e nei centri di detenzione della cittadina di Gjadër. Un altro chiaro esempio di esternalizzazione delle frontiere, la cui praticabilità ancora non è evidente, che solleva serie preoccupazioni sia per le condizioni di trattenimento dei migranti, sia per i costi e le implicazioni di lungo termine, con l’Albania che rischia di diventare una prigione a cielo aperto per conto terzi, finanziata da ingenti risorse provenienti dai contribuenti italiani.
Quello che rende i Balcani una sorta di laboratorio di esternalizzazione e respingimento, come sottolineano Matteo Astuti e Caterina Bove, è il coinvolgimento dell’Agenzia Europea della Guardia di Frontiera e Costiera (Frontex), diventata un attore chiave nell’attuazione delle politiche di esternalizzazione in Albania, Montenegro, Serbia e Macedonia del Nord, che sono stati i primi Paesi terzi a sottoscrivere i cosiddetti status agreement con l’agenzia al fine di «ricevere supporto nell’attuazione di politiche di limitazione e contenimento della mobilità delle persone» (p. 67). Il tema delle agenzie e delle organizzazioni non governative viene trattato nel libro soprattutto nelle due schede curate da Luca Rondi (p. 127), ma è evidenziato anche da Gianfranco Schiavone (p. 47). Frontex non è però l’unico attore sotto accusa da parte della società civile, perché anche l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), vengono spesso criticate per il loro ruolo collaborativo con governi e politiche, che invece di proteggere contribuiscono a perpetuare il sistema di confinamento e blocco.
Un capitolo è dedicato specificamente all’Italia e curato dal direttore di Altreconomia Duccio Facchini. Qui l’analisi si concentra su uno degli aspetti più controversi che riguarda il confinamento e la gestione delle persone migranti nel nostro Paese: i Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR), descritti come parte integrante di una strategia repressiva conseguente allo smantellamento delle strutture di accoglienza. Il tragico caso di Ousmane Sylla, giovane guineano che si è tolto la vita nel CPR di Ponte Galeria di Roma, con cui si apre il capitolo, mette in evidenza la brutalità di questo sistema, che l’avvocato Maurizio Veglio ha definito «una “bestia tentacolare” del trattenimento degli stranieri “chiusi dentro” in Italia, un vero e proprio “rito di separazione su base etnica” articolato in forme multiple, tempi allungati e luoghi non più afferrabili tanti ormai sono diventati» (p. 261). Una rete di centri di detenzione e leggi repressive prodotte da una cultura politica che vede i migranti come una minaccia da neutralizzare più che come esseri umani di cui curarsi. La situazione in Italia, come nel resto d’Europa, è ulteriormente aggravata dalle riforme in corso, che rischiano di rafforzare questo sistema di controllo e repressione, come nel caso del Nuovo Patto Europeo sulle Migrazioni, del disegno di legge 1660 – che introduce un nuovo reato di partecipazione e organizzazione di rivolte all’interno dei CPR e nei centri di accoglienza per migranti – ma anche della legge 50/2023 denominata decreto “Cutro”, un progetto di isolamento e detenzione di massa dei cittadini di Paesi terzi che attacca direttamente anche la filiera dell’accoglienza, smantellata in favore di una gestione militarizzata.
Chiusi dentro, ampliato da un recente progetto digitale dal titolo Chiusi dentro. Dall’alto pubblicato sul sito di Altreconomia, in cui è possibile visualizzare le immagini satellitari esclusive dei campi di confinamento, eseguite da PlaceMarks, non si limita a descrivere le dinamiche del presente ma le inserisce in un contesto storico più ampio. Perché le attuali strategie politiche migratorie per certi versi rappresentano la continuazione di una mentalità colonialista con altri mezzi, che persiste in Europa e si manifesta nel doppio standard del trattamento dei migranti provenienti dal “Sud Globale”, come siriani, afghani e subsahariani, che sono visti come minacce o addirittura “armi ibride”, e altri, come gli ucraini, virtuosamente accolti con l’attivazione di procedure speciali. Superare questa mentalità coloniale, profondamente radicata non solo tra i politici conservatori ma spesso anche tra quelli che si considerano progressisti, è una delle sfide più grandi per l’Europa di oggi, perché l’incapacità nel farlo conduce a quella che Livio Pepino descrive nella prefazione come «eclissi del diritto» (p. 20), un fenomeno dove il diritto di migrare, sancito dall’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e nell’art. 35 della Costituzione italiana, viene gradualmente eroso e trasformato in una concessione arbitraria.
Oltre a essere una critica sistemica delle politiche europee, nell’evidenziare come il confinamento e il respingimento ai confini stiano diventando pratiche istituzionalizzate e un progetto politico-normativo disumano dove i diritti umani fondamentali sono castelli di sabbia travolti ciclicamente dalle onde del mare di indifferenza, in cui navigano ciniche valutazioni politico-elettorali, Chiusi dentro è un appello al ruolo necessario della società civile che lotta per una Europa più aperta, trasparente e solidale, perché «ogni processo di trasformazione dello straniero in un nemico, prima di confinare, e successivamente, prima o dopo, di eliminare, avviene sempre in maniera graduale, sottraendo progressivamente diritti e costruendo status giuridici speciali» (p. 57).
[1] Oltre alle numerose inchieste disponibili sul sito di Altreconomia e sulla rivista cartacea, si vedano: Cecilia Ferrara e Angela Gennaro, Perdersi in Europa senza famiglia. Storie di minori migranti, Altreconomia, Milano 2023; Duccio Facchini e Luca Rondi, Respinti. Le “sporche frontiere” d’Europa, dai Balcani al Mediterraneo, Altreconomia, Milano 2022.
[2] Alessandro. Colombo, Il governo mondiale dell’emergenza. Dall’apoteosi della sicurezza all’epidemia dell’insicurezza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2022, p. 73.
[3] Ivi, p. 74.
[4] Gianfranco Schiavone, Il Piano UE per i Balcani minaccia i diritti dei migranti, «Altreconomia», 1 marzo 2023.
[5] Alice Facchini, In Serbia non si fermano le violenze contro le persone in movimento sulla rotta balcanica, «Altreconomia», 30 settembre 2022.