“Contro la democrazia illiberale” di Alessandro Mulieri
- 24 Giugno 2025

“Contro la democrazia illiberale” di Alessandro Mulieri

Recensione a: Alessandro Mulieri, Contro la democrazia illiberale. Storia e critica di un’idea populista, Donzelli Editore, Roma 2024, pp. VI-162, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Guido Niccolò Barbi

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Contro la democrazia illiberale. Storia e critica di un’idea populista ricostruisce le radici dell’idea contemporanea di “democrazia illiberale”, di cui propone una critica complessiva fondata sulla storia del concetto stesso. Con questo volume, Alessandro Mulieri – già autore di Democrazia totalitaria. Una storia controversa del governo popolare – risponde all’urgente bisogno di comprendere meglio una delle idee centrali dell’apparato ideologico delle nuove destre: perno vero e proprio nel proporsi come alternativa allo status quo della democrazia liberale. Nello svolgimento del tema, Mulieri affronta una trama complessa in maniera succinta ed efficace, chiarendo al lettore i contorni semantici del concetto di “democrazia illiberale” nella sua evoluzione storica da termine descrittivo a ideale positivo.

Il libro è organizzato in tre parti complementari. Nella prima, Mulieri analizza l’uso contemporaneo del termine “democrazia illiberale” e ne traccia la funzione ideologica nel populismo di destra. Nella seconda parte, vengono ripercorse le tappe principali della tradizione democratica non-liberale e dell’incontro tra questa e quella liberale. L’ultima parte, invece, formula, a partire dalle prime due, una decisa difesa della democrazia liberale e della sua compatibilità con elementi egalitari della tradizione più propriamente democratica.

La prima parte prende le mosse dalla contestualizzazione della diagnosi di Fareed Zakaria sulla possibilità di una “democrazia illiberale”. Difatti, la diagnosi di Zakaria appare a prima vista datata: si riferisce alle imperfezioni delle democrazie nate negli anni Novanta a seguito del collasso del blocco sovietico (soprattutto in riferimento alla situazione dell’Asia centrale) e contrappone il successo del principio di sovranità popolare alla debolezza delle istituzioni dello stato di diritto liberale in Paesi come Kazakhistan o Georgia. Zakaria scrive ancora nel contesto di una diffusa convinzione circa l’inevitabilità dell’espansione della democrazia liberale a livello globale. Si distingue però da Francis Fukuyama riconoscendo in maniera esplicita come democrazia e stato di diritto liberale non siano due lati della stessa medaglia. Mulieri ricorda come questa idea non solo abbia «una lunga storia nel pensiero premoderno, ma è stata al centro della riflessione di diversi pensatori e filosofi novecenteschi» (p. 26). Dopo avere stabilito il binomio concettuale alla base della democrazia liberale – democrazia e liberalismo – e la possibilità permanente della sua scissione, Mulieri ricostruisce quella che potremmo chiamare un’ideologia della democrazia illiberale facendo riferimento a pensatori illiberali come Alexander Dugin, Alain De Benoist e Steve Bannon e a discorsi di politici di riferimento di questa sfera come Viktor Orbán e Vladimir Putin. Vengono identificati quattro capisaldi di questo pensiero: la critica della ragione individualista illuminista a favore di valori tradizionali e collettivi (pp. 31-39), la critica del relativismo e della parità di genere a favore della famiglia tradizionale eterosessuale (pp. 40-52), la critica del pluralismo (multiculturale) a favore di un’idea omogenea di società cristiano-occidentale (pp. 53-62), la critica degli istituti dello stato di diritto a favore del principio di sovranità popolare diretta (pp. 62-67). Operando su questi quattro livelli, la democrazia illiberale si fa ideologia politica volta a sovvertire l’ordine liberale della società, inteso criticamente come espressione di «un’idea delle relazioni umane imperniata sulla preservazione della libertà individuale e che, per rimanere fedele a questi principi, sacrifica qualsiasi altro valore» (p. 66). Mulieri traccia un quadro d’insieme dell’idea politica che – per quanto multiforme – si è trasformata da termine puramente descrittivo di ogni tipo di democrazia non-liberale, a ideale al quale aspirare da parte dei recenti populismi di destra. Il capitolo coglie lucidamente come i democratici illiberali si facciano alfieri di «un’idea forte di etica pubblica» con la quale il liberalismo ha smarrito qualsiasi collegamento «come conseguenza ovvia e logica [di] una forma di relativismo assoluto» (p. 39). I democratici illiberali si fanno così portatori di una tradizione antilluminista che trova nell’espressione diretta di una supposta volontà popolare, un antidoto a quelli che sono considerati gli eccessi di individualismo e relativismo impliciti al liberalismo.

All’auto-rappresentazione dei democratici illiberali contemporanei, Mulieri contrappone quella che presenta come la storia della “vera” democrazia illiberale. Con questo si intende il grosso della tradizione democratica premoderna che precede l’incontro con il liberalismo che avviene con l’avvento della modernità. La caratteristica centrale di questa tradizione democratica è quella di trovare «come unico comun denominatore e principio guida un’idea dell’eguaglianza che, focalizzandosi sul livellamento delle condizioni materiali delle persone, appare piuttosto disinteressata rispetto al tema delle libertà individuali» (p. 72). Per tracciare un profilo della vera democrazia illiberale, Mulieri si sofferma su due momenti storico-teoretici che ne caratterizzano l’essenza egalitaria: l’idea di democrazia premoderna (pp. 76-90), e l’incontro tra tradizione democratica e modernità (pp. 91-110). A partire dalla descrizione che ne fanno i suoi detrattori – Aristotele in primis – Mulieri ricostruisce l’idea greco-ateniese di democrazia come quella di un regime dei poveri, che persegue gli interessi del proprio gruppo sociale contro quello dei ricchi: è nell’idea «che siano i non possidenti e i poveri a governare, che risiede il nucleo profondo dell’ideologia democratica come tale, a prescindere da tutti gli aggettivi che a questa parola possono essere accoppiati» (p. 82). L’idea della democrazia come regime pericoloso permane fino alla prima modernità – non a caso, i governi popolari premoderni saranno regimi misti che si caratterizzeranno con pochissime eccezioni come repubbliche. Così anche per i padri fondatori americani, i primi a pensare un ordine politico liberale, l’idea di democrazia rimane minacciosa: il timore è che il governo dei poveri schiacci le libertà individuali. La riabilitazione del concetto di democrazia è successiva alle grandi rivoluzioni di fine Settecento: si fa largo nell’agone politico statunitense già alla fine del Settecento, e passando per la Rivoluzione francese, verrà definitivamente riabilitato dall’opera di Alexis de Tocqueville. È in questo contesto che Mulieri situa la nascita del connubio tra liberalismo e democrazia. Negli anni Trenta dell’Ottocento, Tocqueville riconosce «l’avanzare di una forma di governo che però egli considera anche un nuovo ordine sociale e che è ormai a suo dire inevitabile e inarrestabile: la democrazia» (p. 93). L’incontro tra democrazia e liberalismo porta a temperare fortemente l’ideale egalitario della democrazia come governo dei poveri tramite l’introduzione del principio d’inviolabilità delle libertà individuali. L’alternativa a questa compenetrazione tra democrazia e liberalismo non è però semplicemente la democrazia nel suo senso antico. È piuttosto l’idea di democrazia socialista che si fa largo negli stessi anni in cui viene a formarsi l’idea di democrazia liberale (che trova una tradizione che va dai livellatori inglesi ai giacobini della rivoluzione). Nel socialismo marxista la democrazia diventa impossibile senza abolizione della proprietà privata – in chiaro contrasto con la democrazia liberale e reintroducendo un afflato simile a quello della democrazia come governo dei poveri. Per quanto puntuale, la rassegna parziale dei momenti chiave nella storia dei concetti di democrazia e liberalismo permette a Mulieri di identificarne l’importanza per il dibattito contemporaneo. Di fronte alla complessità della storia di queste idee e della loro compenetrazione continua, non si può parlare di democrazia e liberalismo come di principi “puri”. Bisogna altresì accettare che «esistono vari tipi di liberalismo o vari tipi di democrazia» (p. 104). È questa complessità, accusa Mulieri, che è assente dal racconto dei democratici illiberali contemporanei. La democrazia antiliberale o illiberale ha una sua tradizione, che è quella della difesa dell’egalitarismo materiale a scapito delle libertà individuali. Contro questa matrice popolare, «la democrazia liberale trasforma e sacrifica questo nucleo egualitario estremo dell’ideale democratico per recuperare un’idea di eguaglianza che deve essere resa compatibile con la difesa dello stato di diritto» (p. 105). I democratici illiberali del nostro tempo vogliono recuperare un primato della sovranità popolare, proprio della tradizione democratica premoderna, ma eliminandone la caratterizzazione egalitaria che ha sempre contraddistinto quella tradizione.

Nell’ultimo capitolo, Mulieri presenta quelle che potremmo definire le “vere” – ovvero, autenticamente democratiche – alternative contemporanee alla democrazia liberale. Riferendosi alla doppia valenza dell’idea di popolo, il “populismo di sinistra” si propone interprete, sulla scia marxiana e marxista, della tradizione che pone l’accento sulla dimensione egalitaria di democrazia. Orgogliosamente antiliberale, questo populismo radical-democratico è incentrato sull’incremento dell’eguaglianza materiale e sull’emancipazioni di gruppi minoritari che si ritrovano ai margini della società. Al contrario della “democrazia illiberale” dei populismi di destra però, questa tradizione nega il primato dei diritti individuali a favore di una spinta egalitaria sostanziale volta a trascendere «come un logico e ovvio scavalcamento in senso democratico [l’ideale] liberale dell’eguaglianza formale» (p. 120). Questo non ne nega la tendenza a sopprimere il primato dei principi di libertà individuale, ma la collega in maniera chiara all’ambizione popolare della tradizione democratica. A questa critica dal campo più autenticamente democratico, Mulieri contrappone finalmente un’immagine positiva della democrazia liberale. Vengono distinti modelli proceduralisti e deliberativi della democrazia liberale, che pongono l’accento o sui meccanismi di selezione dei rappresentanti o sul dialogo sociale continuo, ma strutturato. A questi modelli, Mulieri ne aggiunge uno intermedio, rappresentato dall’opera di Nadia Urbinati, e che pone l’accento sui corpi intermedi (ad esempio partiti, movimenti, istituzioni locali) che permettono un equilibrio tra efficacia dei processi di selezione e attenzione all’elaborazione dialogica delle posizioni politiche. In ogni caso, la democrazia liberale si struttura attorno alla necessità di trovare un equilibrio tra principio di selezione democratica, efficienza decisionale, e rispetto delle libertà individuali. È proprio questa flessibilità della democrazia liberale che, suggerisce Mulieri, rappresenta la sua più grande forza. Di fronte agli eccessi del capitalismo neoliberista e alle sedimentazioni degli apparati decisionali delle nostre società, sarà solo rifacendosi alla tradizione squisitamente democratica, che sarà possibile salvaguardare le conquiste della democrazia liberale. Per sottrarre la narrativa democratica al populismo di destra, insomma, la «democrazia liberale deve tornare a essere anche una democrazia iper-egualitaria intesa come “governo dei poveri”» (p. 152). Questo significherà ripensare le sue istituzioni e le sue pratiche, e quindi riscoprire, consiglia Mulieri, una dimensione sperimentale che ha sempre caratterizzato la democrazia attraverso tutta la sua storia.

In Contro la democrazia illiberale, Alessandro Mulieri riesce a cogliere in maniera snella e convincente le principali tappe storico-teoretiche di un caposaldo dell’ideologia in fieri delle nuove destre: l’idea stessa di democrazia illiberale. L’accessibilità del volume non scende a compromessi circa precisione teorica e fondatezza storica della narrazione. Risulta quindi riuscita la combinazione dell’intento diagnostico e critico (contro la democrazia illiberale) con la metodologia storica volta a ricostruire l’autonomia del principio democratico all’interno del binomio concettuale della “democrazia liberale”. La forza del contributo di Mulieri sta proprio nell’enfatizzare che una difesa della democrazia liberale presupponga una conoscenza e un’ammissione dell’effettiva scindibilità del principio democratico da quello liberale. Solo così facendo si comprende che la democrazia liberale – per resistere all’assalto di un populismo illiberale – dovrà ritrovare la capacità di farsi promotrice di un approfondimento democratico di stampo egalitario. Gli unici desiderata che rimarranno al lettore sono legati all’entità dell’opera, volutamente concisa. Sarebbe, ad esempio, interessante ricostruire in maggior dettaglio le tappe che portano dalla democrazia antica, passando per le repubbliche premoderne, alla genesi dell’idea di democrazia liberale come governo rappresentativo. Circa l’obbiettivo diagnostico del volume, ci si ritrova a volte a desiderare una contestualizzazione maggiore del discorso politico oggetto della critica di Mulieri. Assieme all’argomentazione convincente circa la debolezza storico-culturale dell’idea di democrazia illiberale propugnata da autori come Dugin o De Benoist, sarebbe stato interessante contestualizzare il successo politico dell’idea sullo sfondo più largo delle crisi multiple che stanno affliggendo le democrazie liberali occidentali da almeno quindici anni a questa parte. Ma queste non possono che rimanere delle rimostranze minori rispetto ad un volume convincente ed avvincente, che merita senza dubbio la lettura, e che aiuterà certamente ad orientare il dibattito sull’idea di democrazia illiberale proposta dalle nuove destre. Alessandro Mulieri suggerisce saggiamente che solo un ritorno più autentico alla matrice democratica della democrazia liberale, potrà aiutare a difenderci dall’appropriazione di questa tradizione da parte dei populismi di destra.

Scritto da
Guido Niccolò Barbi

Ricercatore dell’FNRS – Fonds de la Recherche Scientifique presso il Centre de Théorie Politique dell’Université Libre de Bruxelles. Prima di diventare ricercatore dell’FNRS, ha conseguito un PhD in filosofia alla KU Leuven con una tesi sulla tecnocrazia e il giudizio politico e ha insegnato ad Amsterdam e Bruxelles. È inoltre stato visiting researcher presso la UC Berkeley, l’Università di Vienna e la University of Chicago.

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