Recensione a: Paolo Pombeni, Che cosa resta del ’68, il Mulino, Bologna 2018, pp. 208, 12 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Gasparetto
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Ridurre il 1968 ad un momento di contestazione studentesca equivale a non cogliere i profondi significati che questa data porta con sé. Il 1968 non può essere inteso meramente come l’anno in cui l’Italia vide affiorare un movimento di larga e popolare opposizione ai modelli dominanti. Si tratta, invero, di una data che segna una sorta di svolta epocale, che pone questioni ancor oggi, a distanza di cinquant’anni, irrisolte. È un processo che, nei fatti, pone le basi per una ristrutturazione dei rapporti sociali che segnerà una cesura definitiva con l’epoca precedente ma la cui gestazione affonda le radici in un passato più o meno remoto.
Il libro di Paolo Pombeni, storico e professore emerito all’Università di Bologna, intitolato Che cosa resta del ’68, è una veloce ma puntuale riflessione su alcuni dei principali temi posti in essere da una stagione di cui, a distanza di mezzo secolo, si intende fare un bilancio. La “rivoluzione” narrataci dall’autore si manifesta nei più svariati ambiti e tocca le più diverse questioni della vita associata: dalla scuola al mondo del lavoro, dal ruolo della donna ai costumi, dalla Chiesa alla politica. Il principale terreno di scontro su cui avviene la battaglia culturale e ideologica è quello della Scuola, ci spiega fin dall’inizio Pombeni. L’utilizzo della lettera maiuscola sta ad indicare che il bersaglio dei giovani è di carattere istituzionale. L’elemento principale che viene messo in discussione è il principio d’autorità, l’idea che il sapere non debba più esser calato dall’alto, onde evitare di scivolare verso manipolazioni tipiche di sistemi autoritari e paternalistici. Il sapere, vuole la nuova vulgata, deve diventare oggetto di pubblica discussione, come riflesso della diffusa concezione per cui i modelli del passato risulterebbero ormai inservibili per spiegare le novità del presente (p. 20).
Tuttavia, avverte Pombeni, il rischio è che invitare chiunque a esprimere la propria opinione sugli argomenti più disparati finisca per svilire il concetto più genuino di formazione. In questo passaggio molto delicato del libro, l’autore sembra quasi rivolgere una critica ad alcuni fenomeni del tempo presente. Sovente, ad esempio, si assiste impassibili a dibattiti in cui ormai chiunque, pur non possedendo gli strumenti culturali per poter affrontare temi specialistici – su cui gli scienziati sono impegnati da decenni – ha la protervia di risolvere questioni aperte dopo aver frequentato per cinque minuti la rete internet. La delegittimazione del principio d’autorità ha avuto questo terribile effetto: oggi più di ieri il cittadino fatica enormemente a riconoscere una gerarchia delle fonti e forma la propria opinione senza previo “controllo”. “Autorità”, “guida”, “controllo”: sono esattamente questi gli obiettivi polemici della generazione del Sessantotto, che la politica non è stata in grado di riaffermare riappropriandosi del proprio ruolo.
Il ’68 e la delegittimazione delle istituzioni fondamentali
Si potrebbe trattare a lungo della crescente delegittimazione di altre istituzioni fondamentali della società, quale ad esempio il partito politico, divenuto sempre più autoreferenziale e personalistico. Ed effettivamente la disamina di Pombeni corre lungo questa direzione, affrontando il disarcionamento che i tradizionali soggetti deputati alla formazione e all’organizzazione della vita associata subiscono per opera di nuovi fenomeni radicalmente ostili alla conservazione.
Altra critica, strettamente legata alla messa in discussione del principio d’autorità, è quella rivolta al consumismo, inteso come manifestazione più diretta del capitalismo. Nel Sessantotto, l’Italia, oggetto esclusivo della riflessione dell’autore, usciva effettivamente dall’epoca d’oro del cosiddetto “boom economico” che aveva rivoluzionato gli stili di vita quotidiani degli individui. L’introduzione della tecnologia nelle case degli italiani aveva permesso una certa liberazione dai ruoli tradizionali. Eppure, nonostante gli indiscutibili benefici apportati dalla diffusione del capitalismo – quale, ad esempio, l’aumento generalizzato della ricchezza che, a sua volta, andava ad alimentare la crescita dei consumi – il modello rivendicato dai sessantottini era quello visibilmente fallimentare delle “società anticapitalistiche”, che cionondimeno non riuscivano a soddisfare la nuova domanda di consumi. Siffatta rivoluzione dei consumi, indotta dalla diffusione del capitalismo, era stata accolta con scetticismo da costoro che in essa vedevano una «situazione come frutto di bisogni indotti e manipolati, ovviamente ad opera del perverso capitalismo» (p. 49). Ancor oggi, è la mesta osservazione di Pombeni, vi sono soggetti che non accettando le pur innegabili storture del capitalismo, ormai divenuto finanziario, si ostinano a proporre e propugnare improbabili ricette economiche fondate sulla cosiddetta “decrescita felice”.
Un ulteriore elemento di lacerazione del tessuto sociale investe i rapporti con la fede e il ruolo stesso della religione all’interno della vita associata. Già da tempo si assisteva a quel processo di secolarizzazione della società che rappresenta il tratto distintivo della modernità. Per tentare di recuperare un po’ del terreno perduto, a vantaggio di nuovi paradigmi interpretativi, l’istituzione ecclesiastica aveva cercato di accettare la modernità stessa, non intendendola più quale elemento che mette a repentaglio un nucleo consolidato di valori tradizionali, bensì accogliendone le sfaccettature in maniera positiva. Fu anche per tale motivo che Papa Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano Secondo e, in linea con questo nuovo atteggiamento, Papa Paolo VI emanò l’enciclica Populorum progressio, con cui venivano espressi un interesse e simpatia per i popoli del Terzo mondo, condannando contestualmente le iniquità prodotte dal capitalismo. Eppure, i semi della relegazione della fede religiosa alla mera sfera privata, così come la perdita del condizionamento che la Chiesa poteva vantare fino a poco tempo prima sugli atteggiamenti pubblici, erano ormai stati gettati. I suoi frutti più maturi si poterono raccogliere in occasione dei due referendum sul divorzio nel 1974 e sull’aborto nel 1981.
Il ’68 non è stato che l’inizio?
La riflessione dell’autore prende in considerazione almeno altri tre o quattro fenomeni emblematici generatisi in quella stagione, la cui forza dirompente mise a dura prova gli schemi consolidati. Si tratta di fenomeni la cui gestazione e i cui sviluppi risultano sensibilmente intrecciati fra loro. Primo fra questi, l’emersione della cosiddetta questione di genere. Fondandosi sulla rivalutazione del ruolo della donna nella società, finì per sfidare in maniera travolgente i rapporti con l’altro sesso, ponendo la questione della parità come prioritaria.
Secondo, quello che nella letteratura politologica di riferimento viene indicato come il progressivo scollamento dei partiti politici dalla società e la loro conseguente perdita di centralità come principale corpo intermedio che aveva dato linfa alla democrazia italiana. Seppur, potremmo dire, ancora in fase di gestazione, questo fenomeno, testimoniato da un progressivo calo degli iscritti che si è protratto sino ad oggi, viene fotografato nelle pratiche sempre più visibili di un diffuso familismo e di un clientelismo soffocante, introiettate dalla politica e ben descritte anche nell’opera Una Comunità del Mezzogiorno (1958) con cui l’autore, Edward C. Banfield, aveva tratteggiato alcune tendenze ormai dominanti nella società. Il disancoramento dei partiti politici e, ancora una volta, l’avversione al principio d’autorità, furono tra le cause che generarono spinte verso il comunitarismo, come scoperta di un senso di comunità (quasi “sub-culturali” o contro-culturali quali, ad esempio, gli hippie) che offriva una risposta significativa alla domanda d’identità. Un fenomeno che, tuttavia, non ridusse le spinte contrarie verso un più esacerbato individualismo. La tensione fra queste due tendenze contrastanti diede origine ad altri due atteggiamenti che misero in discussione la legittimità di due principi consolidati: a) la promozione del merito, suggellata dalla pratica dell’esame di gruppo e del “trenta politico”, la cui rivendicazione portava allo svilimento del lavoro del singolo; b) il rispetto delle regole, attraverso l’affermazione di una più serrata competizione senza esclusione di colpi in tutti i settori del mondo del lavoro.
L’ultimo fenomeno passato in rassegna da Pombeni è quello di un ritrovato interesse per alcune questioni esterne all’ambito domestico. La strutturazione bipolare dei rapporti internazionali si era già riprodotta attraverso il rigido schema dominante sulla scena politica nazionale. Furono eventi come la guerra del Vietnam e alcune rivolte “socialiste” nell’America Latina (emblematiche divennero l’immagine e la biografia stessa di Che Guevara) a rendere popolari anche nel nostro Paese alcune parole d’ordine già descritte in precedenza quali una certa sintonia con il terzomondismo, una speculare affezione per concetti come la decrescita felice e un parallelo antagonismo nei confronti di uno dei principali “nemici” della cultura del Sessantotto, l’imperialismo americano.
Pombeni conclude il suo pamphlet riprendendo l’idea con la quale lo aveva cominciato. Il Sessantotto, proprio come il Quarantotto del secolo precedente, si era annunciato come momento di rivoluzionaria rottura rispetto al passato. In realtà, ammette Pombeni, proprio come la Rivoluzione europea del 1848, il 1968 porta sotto i riflettori una serie di fenomeni sociali che, invero, non si originano in quella data ma, al contrario, rappresentano il frutto di una «lunga incubazione» (p. 118), di un processo avviatosi diverso tempo addietro.
Eppure, è stato proprio il Sessantotto ad aver incanalato le forze che hanno prodotto un ripensamento radicale della società (in tutte le sue dimensioni, politica, economica, della sfera religiosa, del lavoro) mettendo in crisi quel solido approccio improntato alla razionalità che aveva caratterizzato il passaggio alla modernità. È in questa fase che viene seminato il germe di quella contestazione della stessa conoscenza scientifica, in quanto ritenuta non soltanto emanazione di un principio d’autorità che si intendeva contestare, ma addirittura «schiava del “potere”, lo si definisse capitale, interesse politico o manipolazione autoritaria» (p. 126).
L’invito che Pombeni rivolge alle odierne generazioni di giovani è quello di non lasciarsi «irretire da quelli che li vorrebbero ingabbiati in un culto magari inconsapevole di quel passato, trasformandoli in ripetitori aggiornati dei vecchi slogan che continuano a circolare» (p. 128), bensì di sforzarsi nel tentativo di recuperare un approccio per quanto possibile razionale per tentare di afferrare il senso della grande transizione in cui siamo immersi e tentare di dominarla per traghettare la nostra società verso lidi ove i sessantottini non stati in grado di condurla.