“Dalla catastrofe alla speranza” di Alfonso Musci
- 15 Marzo 2023

“Dalla catastrofe alla speranza” di Alfonso Musci

Recensione a: Alfonso Musci, Dalla catastrofe alla speranza. Un alfabeto politico della vita offesa, Antonio Mandese Editore, Taranto 2022, pp. 160, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Pasquale Terracciano

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«Non c’è maggiore silenzio del frastuono» è un possibile punto di attacco al ricchissimo volume – smilzo di pagine ma non di pensiero –, pubblicato da Alfonso Musci per i tipi di Antonio Mandese Editore. A fare da contraltare a questa consapevolezza è una citazione da Philip Roth che si trova in esergo: «Tutto quello che ho per difendermi è l’alfabeto». Sono due affermazioni che offrono le chiavi per questa «cassetta di concetti-utensili». All’interno, appunto, attrezzi utili a scandagliare le crisi dei nostri tempi e per tenere acceso il lumicino della speranza futura.

Frastuono, alfabeto. Un filo sottile, in difficile equilibrio. A un capo l’eccesso di informazioni che disorienta e anestetizza, il cui esiziale pericolo è la rimozione psicopatologica dell’apocalisse innanzitutto ecologica, ma anche culturale, in cui ci muoviamo: una natura modificata e accelerata verso lo schianto, e una cultura spaesata. All’altro capo rimane una flebile ma ostinata fiducia umanista nell’immaginazione, nel logos, nella filologia: da qui lo spunto per ripartire dalle parole e dai concetti.

Non un saggio allora, ma un dizionario, un thesaurus, una catena di connessioni. Si tratta della scelta ragionata di un modello di scrittura. Gli elenchi, i cataloghi, le raccolte di tesi e di proverbi, i dizionari filosofici, hanno infatti una nobilissima tradizione filosofica, dimenticata dalla nostra dieta brutalmente saggistica. Registri dell’ordine certo, ma anche, molto spesso, luoghi dell’inquietudine: si pensi, per fare un solo nome, a Pierre Bayle. È proprio in virtù della difficoltà a dare organicità e sistemazione al mondo in cambiamento che sorge l’esigenza di scomporre le costellazioni concettuali, tornare all’unità minima del lemma e del suo significato esteso, prima ancora di procedere a nuove tassonomie. Succede nel momento in cui, per diverse e concomitanti ragioni, una lunga fase della cultura occidentale – e soprattutto della sua cultura politica – sembra esaurita; quando le parole d’ordine sono logore, e girano a vuoto.

Il dizionario diviene il luogo della resistenza alla mutazione molecolare. «Accade inevitabilmente che, nonostante i nostri argini e ripari, il sovraccarico, dopo aver scavato lentamente, può accelerare e investirci all’improvviso, lasciandoci in perenne ritardo e senza tempo. Per fronteggiare questa trasformazione molecolare, pur non potendo guardarla direttamente in volto, non possiamo per ora fare molto di più che resisterle, analizzandola e trascrivendola». Trasformazione molecolare: in carcere Gramsci studia e scrive per resistere ed evitare che il proprio io muti lentamente, a livello molecolare, fino a trasformarsi in altro da sé. E la mutazione molecolare avviene sempre, anche quando non si è in condizioni estreme come la prigione. Le persone, negli eventi avversi, possono cambiare molecola dopo molecola, senza accorgersene, senza potersi poi storicizzare: così può capitare ai concetti. È un esercizio di monitoraggio, di autoanalisi che apre al futuro.

Ma il volume è pure il punto di raccordo di nuovi sentieri inattesi, da seguire secondo il filo proposto, o in proprio, tramite gli indici, con un personale «bracconaggio» intellettuale. Una filosofia come caccia, come arte venatoria. La fitta rete di citazioni esplicite, di allusioni implicite (il già citato Gramsci, e inoltre Canetti, Benjamin, De Martino, Ginzburg, Sofri, Gospodinov) rispecchia la peculiare figura dell’autore: filosofo e filologo, (curatore di Etica e Politica per l’Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce), militante, professionista della comunicazione politica (per diversi anni portavoce in importanti istituzioni).

Il suo percorso – la sua «resistenza grafica all’erosione» – tenta di scrutare ciò che si cela dietro la nostra vita comoda. Innanzitutto una minaccia di annientamento ecologica su cui ci si sofferma nella prima parte del volume, e che persiste come un ipnotico basso di sottofondo. Affianco ad esso il destino, continuamente rimosso, di tante vite offese, a diverse latitudini, e la difficoltà a dare loro orizzonte di riscatto. Tra i due, i resti da lungo tempo instabili delle «meravigliose sorti» dell’uomo: macerie del mito del progresso.

Le macerie sono in effetti un altro filo conduttore del volume. Non si pensi però a una volontà demolitrice del passato, quanto piuttosto all’esercizio di una pietas, a un’ermeneutica della pazienza: «Cosa vuol dire, in fin dei conti, lavoro culturale? La risposta è provvisoria ma impegnativa: vincere ogni giorno la meschina mania di trinciare giudizi e condanne». Le rovine della cultura otto-novecentesca, le sue carcasse – il richiamo è al macello del racconto di Upton Sinclair – sono già in buona parte intorno a noi e non c’è bisogno di inutile iconoclastia. E del resto le rovine sono utili: per un verso, ci ricordano la fragilità nostra ma anche dei grandi del passato; per altro verso, sfidando l’oblio, offrono possibilità di memoria e di pensiero autenticamente storico.

In ogni caso poco attraente per l’autore è l’aspirazione alla tabula rasa, a un piano della storia senza attrito, levigato perché vi si possa impostare il proprio progetto. Ogni «rovina», senza indulgere in misticismi romantici, è invece una potenzialità, ogni «maceria» si offre come materiale di riuso per una nuova edificazione. Non bisogna allora coltivare il rancore degli sconfitti o la nostalgia dei sopravvissuti, quanto allenare alcune modalità laterali per pensare politicamente il futuro. In primo luogo, la capacità di «pensare per pericoli», fatto che la pandemia ha reso urgente ma che non applichiamo quanto necessario; o meglio non applichiamo con l’equilibrio dovuto, oscillando tra la gestione dell’emergenza e la noncuranza. È un curioso, ma rivelatorio, bipolarismo, in una fase in cui la concreta minaccia dell’estinzione non è così remota. «Pensare per pericoli» non dovrebbe essere una novità per la nostra tradizione filosofica. Era una lezione già di Machiavelli: saper immaginare le catastrofi è esercizio della virtù contro le ondate della fortuna, è capacità di previsione e di manutenzione, è qualcosa che l’uomo politico dovrebbe praticare sempre. Non si tratta di pura razionalità tecnica, ma di raziocinio e fantasia. È una lezione appresa però a metà, contro cui muovono umanissime modalità psicologiche di rimozione. Eppure, la possibilità di un riscatto, la speranza di una nuova razionalità politica è proprio in questo tipo di potenza immaginativa.

In secondo luogo, è da registrare un certo scetticismo verso il pensiero utopico. La potenza immaginativa si forgia piuttosto nell’ucronia, quell’esperimento letterario in cui alcuni avvenimenti immaginari si sostituiscono a quelli reali e determinano scenari alternativi al corso degli eventi. L’utopia è immutabile, condiziona l’uomo al suo volere; l’ucronia propone invece degli scenari ipotetici, libera il futuro dalla rigidità dei piani prestabiliti, del messianismo imposto, è capace di far posto al caso e alla libertà. Totalitaria l’una, eversiva l’altra. Così Musci: «A differenza dell’utopia che aspira all’irreale, quel che conta nell’ucronia è la comparazione, il sondaggio profondo del reale, l’imitazione intelligente, il montaggio sapiente del finto reale. L’utopia è l’immaginazione dell’effetto, mentre l’ucronia è l’immaginazione della causa». Non si tratta solo di ridisegnare in modo coerente i possibili eventi, ma della stessa capacità di saper pensare a monte, pronti però all’incertezza e alla flessibilità. L’ucronia disgrega per riaggregare, e da questo punto di vista ha un suo legame con il riuso, con le rovine. Se non si vuole rimanere imprigionati, le rovine, come le storie delle ucronie, vanno rimontate, innestate, immaginate nelle loro ibridazioni.

Qui si è intrapreso un sentiero, uno dei molteplici di quelli che si dipartono dal volume. Ma molti altri sono possibili al lettore, appunto «ibridando» le sezioni – Lo schianto del mondo, Olocausti, Miseria dei pregiudizi, Alfabeto politico, Elogio dell’immaginazione, Immaginazione e Rischio, Natura e Storia, Automazione, Minima Memoria, Civiltà e Barbarie, Guerra, Fine del Mondo, Apocalisse e Speranza – che si susseguono. Il volume avanza per scomposizione e costellazioni; e così viene invitata a fare la lettura. Quello che i titoli non restituiscono del tutto è la godibilità delle storie, e delle scoperte inattese che si celano tra le pagine, dagli insetti al criptomining, dai bachi da seta alla buona letteratura.

Food for thought, come si dice, cibo per il pensiero. L’Alfabeto politico di Alfonso Musci è un testo da spizzicare, una cesta di primizie e rarità esotiche su cui la mano è invitata a ritornare. Non è però il cibo della festa, non è una cesta rassicurante. L’olezzo del marcescente è sempre avvertibile. «Dalle piaghe può generarsi vita nuova»: il percorso può andare dalla putredine alla vita, o dalla vita alla putredine. La catastrofe è dietro l’angolo, e certamente la speranza finale è che agli indizi nefasti segua una riscossa, spunti una fioritura sul suolo all’apparenza arido. Ex malo bonum. Ma la redenzione non è dovuta, la direzione della metamorfosi non è scontata. La nostra responsabilità è lì, a ricordarci la marca che l’uomo può scegliersi come eversor mundi, creator mundi, tutor mundi: distruttore, creatore, oppure possibile «tutore» nei confronti del mondo.

Vaste programme, di certo. Ed è una scelta morale e politica che si moltiplica, che vale sia per il mondo fisico, che per il mondo culturale e di affetti su cui abbiamo impatto. Ogni volta dobbiamo scegliere se porci come distruttori, creatori o tutori: ogni volta, su ogni scala. Ciò che conta, parafrasando la canzone, è non temere il proprio tempo; ciò che conta è sfuggire la pigrizia e il conformismo intellettuale, affilare le idee per essere attori vigili sul presente, tenaci nel provare a immaginare il tempo futuro.

Scritto da
Pasquale Terracciano

Storico della filosofia, svolge attività di ricerca presso l’Università di Pisa ed è il coordinatore del Centro sull’Umanesimo Contemporaneo dell’INSR di Firenze. Si occupa di teorie della giustizia nella prima età moderna.

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