Deglobalizzazione. Intervista a Fabrizio Maronta
- 04 Agosto 2024

Deglobalizzazione. Intervista a Fabrizio Maronta

Scritto da Alessandro Trabucco

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La globalizzazione sta attraversando una fase di crisi e di profonda trasformazione dei suoi caratteri, segnata dal conflitto tra ragioni economiche e strategiche. Di questa fase vengono fornite numerose letture, che oscillano tra il sottolineare il sorgere di nuove interdipendenze all’enfasi su una sempre maggior frammentazione in blocchi contrapposti.

In questa intervista con Fabrizio Maronta – Responsabile redazione e relazioni internazionali di Limes – ripercorriamo le principali tappe della globalizzazione a partire dal suo libro Deglobalizzazione. Se il tramonto dell’America lascia il mondo senza centro (Hoepli 2024). Nel volume Maronta affronta nascita, crescita e declino del “matrimonio” sino-statunitense celebrato agli inizi degli anni Settanta, fattore cardine della storia mondiale degli ultimi quarant’anni e fonte dell’ascesa economica, politica, culturale e militare della Repubblica Popolare Cinese.


Quali sono le origini lontane e profonde della globalizzazione? 

Fabrizio Maronta: Quella che viviamo oggi è ciò che gli storici chiamano “seconda globalizzazione”. La prima consegue alla seconda Rivoluzione industriale, quindi all’avvento dell’elettricità e di tutte le tecnologie rese possibili da essa come il telegrafo, il telefono, l’illuminazione pubblica, la moderna produzione manifatturiera. Insomma, un mondo industriale molto più simile a quello che conosciamo oggi rispetto a quello della prima Rivoluzione industriale, che si sviluppa durante il Settecento e la prima parte dell’Ottocento in Inghilterra e in alcune parti del Nord Europa. Tra secondo Ottocento e primo Novecento, molti comparti cruciali come la chimica e la metallurgia fanno salti notevoli, permettendo ad esempio la costruzione di navi alimentate a petrolio e con scafi d’acciaio. Questo dà forte impulso alla navigazione, specie a quella transoceanica, ponendo le premesse delle interconnessioni attuali. Inoltre, siamo al culmine degli imperi coloniali europei, specie quello britannico che copre il globo. Ciò consente un maggiore apporto di materie prime e l’apertura di sbocchi commerciali anche per l’industria dei Paesi europei più avanzati, in misura storicamente inedita. L’Impero britannico già prima commerciava, ma non su questa scala. L’Impero romano o altre civiltà marittime precedenti avevano commerciato via mare e scambiato prodotti, ma niente di simile. Per questo si parla di prima globalizzazione. Convenzionalmente si fa terminare questa fase con la Prima guerra mondiale. La guerra comporta infatti lo sconvolgimento delle logiche commerciali, così come interruzioni fisiche dei flussi e dell’interscambio. Il commercio presuppone pace, o comunque la presenza di un soggetto che sia in grado di assicurare l’apertura delle rotte commerciali, garantendo un ordine minimo necessario affinché le attività di produzione e di scambio si esplichino. Questo viene in gran parte meno durante la Prima guerra mondiale. Durante il periodo interbellico il commercio riprende. L’Europa, però, nel frattempo sopporta gli sconvolgimenti dovuti alla caduta dei grandi imperi centrali. Bisognerà aspettare il secondo dopoguerra affinché si ricreino le premesse per una ripresa duratura degli scambi in condizioni di stabilità, sebbene armata, quali quelle della Guerra fredda. In questo caso, però, i flussi commerciali non sono più inscritti nella cornice del rapporto tra madrepatrie e colonie, poiché dagli anni Cinquanta in poi quel rapporto viene progressivamente meno con la decolonizzazione. La globalizzazione che conosciamo oggi è dunque figlia soprattutto della graduale integrazione commerciale dei Paesi di nuova indipendenza che avviene, in particolar modo, dagli anni Settanta in poi.

 

Possiamo tratteggiare un modus operandi della globalizzazione? La nota azienda americana Apple, citata più volte nel volume, può assurgere a esempio di tale modus operandi? 

Fabrizio Maronta: Sì, ma non dobbiamo circoscrivere l’idea e il fenomeno della “nostra” globalizzazione al solo aspetto economico-commerciale. Il problema del termine “globalizzazione” è che viene usato e abusato in modo parziale, non esaustivo, per identificare l’integrazione commerciale e industriale: un fenomeno di natura economica che comporta anche alcune forme di integrazione culturale. Marshall McLuhan ha parlato negli anni Sessanta e Settanta di “villaggio globale”, fortunata definizione di un mondo in cui gli stili di vita diventano sempre più uniformi. È stato così, anche se non nella misura totalizzante che spesso mediaticamente si vuole raffigurare. La globalizzazione però è stata molto altro. È stata anche e soprattutto l’estrinsecarsi dell’egemonia geopolitica degli Stati Uniti. Questo è il punto fondamentale. Spesso non ce ne accorgiamo perché ci siamo nati o cresciuti, però il nostro mondo “globalizzato” è figlio di circostanze storico-strategiche ben precise. Queste circostanze possono essere riassunte nella definizione del Novecento come secolo americano. Un secolo che nasce europeo, con l’Europa centro strategico del mondo: i suoi imperi coloniali coprono il pianeta, le sue economie sono le più sviluppate, le sue società e le sue università sono le più avanzate. Un’Europa che produce economia, demografia, cultura, egemonia militare e tecnologica. Il Novecento finisce però come secolo americano, perché gli Stati Uniti ne vincono tutti i confronti fondamentali: la Prima e la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda. Quest’ultima non è solo un confronto militare, ma anche culturale e ideologico tra sistemi socioeconomici e politici per molti aspetti antitetici, anche se nati entrambi dalla comune matrice della cultura europea. Dal terremoto del 1989-1991 gli Stati Uniti escono vincitori incontrastati, inaugurando quel “momento unipolare” che giunge alla prima metà degli anni Duemila. In questa fase l’America, oltre alla superpotenza militare, esprime un’egemonia sociale, economica e politica vista come modello ineluttabile. Da qui la famosa teoria di Francis Fukuyama sulla “fine della storia” intesa come raggiungimento di un modello socioeconomico definitivo, tutt’al più perfettibile ma senza reali alternative. Gli Stati Uniti decidono di gestire questa vittoria integrando attraverso la sfera commerciale e produttiva i Paesi dell’ex blocco comunista. La Russia e molti Paesi asiatici, nonché i Paesi dell’ex Patto di Varsavia, entrati nella NATO e nell’Unione Europea – cioè nella sfera di sicurezza militare ed economica occidentale – tra la fine degli anni Novanta e la prima metà degli anni Duemila. In prospettiva però, la scommessa maggiore l’America la fa con la Cina. La fa ben prima che finisca la Guerra fredda, con il patto suggellato dalla storica visita di Richard Nixon nel 1972 a Pechino, dove un anziano Mao Zedong – che di lì a sei anni passerà il testimone a Deng Xiaoping, il leader delle riforme economiche – apre la Cina al capitale e alle tecnologie occidentali, soprattutto statunitensi, come viatico di modernizzazione e affrancamento dalla mal sopportata tutela sovietica. In cambio gli Stati Uniti ottengono il progressivo “sganciamento” di Pechino da Mosca, ma anche la possibilità di produrre in un Paese con una manodopera enorme e un sistema politico che reprime il dissenso quando il capitalismo, pure abbracciato con entusiasmo da una popolazione povera e bramosa di benessere, mostra il suo volto più spietato. Apple è un esempio lampante. Azienda statunitense tra i grandi campioni della Silicon Valley, ha fatto un salto quantitativo divenendo un gigante mondiale dell’elettronica di consumo grazie all’ambiente produttivo eccezionale che trova in Cina. Ci sono due grandi impianti situati nella fascia industriale cinese, quella sudorientale, noti come “iPhone City” e “iPad City”: si tratta di vere e proprie città di operai, sia per estensione che per popolazione, dedite quasi esclusivamente a produrre i due best seller di Apple. Grazie alla “globalizzazione”, la Cina diventa dunque un Paese capitalista cui gli Stati Uniti e poi l’Occidente in generale si legano a doppio filo, finendo per dipendere dalla capacità cinese di produrre a costi bassi in quantità prima inimmaginabili. Apple adesso cerca di delocalizzare in India e in Vietnam, ma gli ecosistemi industriali di questi Paesi non sono (ancora?) lontanamente paragonabili a quello cinese.

 

Quali sono le necessità e gli obiettivi che hanno spinto la Cina a inserirsi nella globalizzazione americanocentrica? 

Fabrizio Maronta: La Cina negli anni Settanta è tremendamente arretrata, le sue spinte alla modernizzazione – il Grande balzo in avanti e la Rivoluzione culturale – hanno prodotto disastri e depauperato il Paese sotto il profilo materiale, ma anche umano. La Rivoluzione culturale in particolare ha fatto strage delle classi più agiate ma anche produttive, come gli scienziati. Quelle politiche innestavano sul modello stalinista forme confuciane di disciplina collettiva, rafforzando l’insindacabilità del dettame di Mao e – per estensione – del partito-Stato. Dal 1949, anno in cui Mao fonda la Repubblica Popolare Cinese, termina quello che i cinesi considerano ancora oggi “il secolo delle umiliazioni” apertosi nell’Ottocento con le Guerre dell’oppio: un secolo che vede i britannici e altri occidentali spartirsi le spoglie del glorioso impero Qing. La Cina di Mao, orgogliosamente indipendente, patisce però la condizione di minorità nel blocco comunista rispetto alla Russia, di cui storicamente poco si fida. Negli anni Settanta le economie pianificate cominciano a dare segni di cedimento, che diventeranno ancor più palesi negli anni Ottanta. La Cina non ha però risolto il suo problema fondamentale: è politicamente indipendente ma economicamente arretrata. Questo è moralmente e strategicamente inaccettabile, perché la espone alle dipendenze e al ricatto internazionale, in primis sovietico, rendendola ancora potenzialmente contendibile. Per questo Pechino cerca il compromesso con l’America, dando vita a un esperimento ardito fin qui rivelatosi, pur con limiti e contraddizioni, sostanzialmente riuscito. L’esperimento consiste nel coniugare un regime autoritario, fortemente dirigista e a partito unico con un’economia iper-capitalista. Specie nella prima fase, dagli anni Novanta fino ai primi anni Duemila, viene lasciata inedita libertà d’impresa ai cinesi che abbracciano convinti l’opportunità. Culturalmente i cinesi sono un popolo di mercanti con un diffuso spirito imprenditoriale, cui Deng Xiaoping fa appello lanciando la stagione delle modernizzazioni con lo slogan “arricchirsi è glorioso”. Oggi, con Xi Jinping, assistiamo al fenomeno opposto: la “lotta alla corruzione” per ridimensionare il potere di governi regionali divenuti troppo forti e autonomi da Pechino, l’intervento per addomesticare aziende enormi come quella di Jack Ma, fondatore e proprietario dell’impero di Alibaba (l’Amazon cinese), che rischiano di fare ombra al partito-Stato. Ma il modello non viene messo in discussione. Da un lato lo Stato cinese mantiene le leve fondamentali dell’economia e interviene con decisione se i privati diventano troppo ingombranti. Dall’altro sprona, sostiene e sovvenziona i privati per competere a livello interno e internazionale, onde rafforzare la base industriale e tecnologica del Paese.

 

Chi sono gli sconfitti della globalizzazione? 

Fabrizio Maronta: A Trilussa dobbiamo la famosa “media del pollo”: se io ho due polli e tu non ne hai nessuno, statisticamente mangiamo un pollo a testa. Tu però muori di fame e io sono sazio. La globalizzazione all’inizio è una marea che sembra alzare tutte le barche, anche in Occidente. Del resto, quella che negli anni Settanta stipula il patto con la Cina è un’America in affanno: attanagliata dalla stagflazione, patisce la concorrenza giapponese e sconta gravi problemi economici. Per curarli in prospettiva punta sulla Cina, ma nell’immediato si affida alla cura lacrime e sangue di Ronald Reagan e del “suo” banchiere centrale, Paul Volker. Tutto questo in un decennio rilancia i profitti delle imprese e dell’economia americana nel suo insieme, ma provoca un fenomeno che si palesa appieno soprattutto negli ultimi quindici anni e che potremmo chiamare il volto oscuro della globalizzazione. In sintesi: la deindustrializzazione di ampie fasce geografiche e sociali d’America, la cui classe media vede precipitare stipendi e benessere a vantaggio dei produttori asiatici, soprattutto cinesi, che si accaparrano fette crescenti del “made in USA”. In cambio, l’export cinese a basso costo sostiene artificialmente il tenore di vita di una classe media che viene quindi a dipendere da ciò che altri fanno più economicamente al posto suo per tenere in vita un simulacro di sogno americano. Vulgata vuole che la perdita di colletti blu sia compensata dall’aumento dei “lavori della conoscenza”, ma il grosso dell’impiego creato da allora nel terziario è fatto di mansioni mal pagate, poco qualificate e tendenzialmente precarie: quella “gig economy” o economia degli espedienti che non paga da vivere per sé, figurarsi per i propri figli. Parallelamente, la Cina prendeva a investire il crescente attivo commerciale in titoli del debito pubblico statunitense, diventando creditrice di un’America che veniva a dipendere sempre più dal credito cinese per finanziare le funzioni interne ma anche la sua politica estera, guerre incluse. Il tutto mentre Pechino, contro ogni previsione iniziale, abbracciava il capitalismo a fini di potenza e pace sociale interna senza però abbracciare la democrazia, dunque usando la forma economica occidentale per rendere più forte e competitiva una forma politica alternativa e concorrente a quella americana. La reazione americana a questo stato di cose – che ha i suoi prodromi nell’ultimo Bush e si dispiega pienamente con Obama, Trump e Biden in sostanziale continuità malgrado il colore politico diverso di queste amministrazioni – è la grande novità geopolitica del nostro tempo ed è la dinamica che innesca quella “deglobalizzazione” che dà il titolo al libro.

 

Quando comincia la reazione e in cosa consiste? 

Fabrizio Maronta: Ci sono tre momenti spartiacque: la crisi economico-finanziaria del 2008 e seguenti, il Covid-19 e la guerra in Ucraina. La prima, nata dall’insolvenza di massa sui mutui per la casa, mostra ai cinesi – oltre che all’America stessa – l’insostenibilità per la classe media dell’economia “a credito”. Il secondo palesa il livello di dipendenza sviluppato dall’America – e non solo – rispetto alla manifattura cinese. La terza sta forzando un matrimonio sino-russo mal digerito da entrambi i coniugi, ma non per questo fittizio e con la Cina in chiara posizione di forza. Sotto il profilo economico e commerciale, la svolta viene codificata nella retorica politica statunitense in vari interventi pubblici di cui si dà ampio conto nel libro, e si concretizza nelle grandi armi che stanno usando in questo momento gli Stati Uniti e (in scia) l’Europa: la politica industriale e i sussidi. Oltre a daziare i prodotti cinesi, Stati Uniti ed Europa hanno ripreso a sussidiare con soldi pubblici comparti industriali ritenuti fondamentali per promuovere forme più o meno spinte di decoupling (affrancamento) dal produttore cinese e resuscitare i propri comparti manifatturieri. Compresa l’industria bellica, che riceve le commissioni delle armi destinate all’Ucraina e a Israele.

 

E la Cina come sta reagendo? 

Fabrizio Maronta: La Cina reagisce con una valanga di sussidi per incentivare le produzioni nelle quali, in questo momento, è particolarmente forte: chip, batterie, veicoli elettrici e intelligenza artificiale, le quali hanno ovviamente necessità di tecnologie e infrastrutture fisiche. Inoltre, approfitta delle difficoltà della Russia per acquistarne a sconto idrocarburi, alimentando il proprio sviluppo e la propria competitività industriale senza creare troppa inflazione. Gli Stati Uniti non hanno questo problema perché, come la Russia, sono autosufficienti dal punto di vista energetico – oltre che alimentare. La Cina reagisce poi con le Nuove vie della seta, progetto volto a proiettare influenza commerciale e militare verso Asia, Africa ed Europa per costruire una sfera d’influenza da cui interdire, nei limiti del possibile, l’America, anche grazie a un’avanzata marina da guerra utile a proteggere le rotte commerciali fin qui presidiate dalla marina statunitense. Insomma, è una sfida a tutto campo.

 

Nell’opporsi all’America, la Cina si erge a paladina del “Sud Globale”. È solo retorica o c’è della sostanza?

Fabrizio Maronta: Nel libro sposo una tesi controintuitiva e, numeri alla mano, credo giusta. La Cina in questi quarant’anni si è accaparrata il semi-monopolio di tante funzioni produttive. Un esempio tra molti: nel 2023 ha prodotto l’85% dell’acciaio e una quota simile del cemento a livello globale. Insomma: ha monopolizzato lo sviluppo del cosiddetto “Sud Globale”, sovente bloccando e sovvertendo i processi di industrializzazione di altre economie in via di sviluppo. Queste economie vengono messe fuori mercato dalla capacità, dalla competitività e dall’aggressività commerciale della Cina, quindi per molte di esse la globalizzazione è un bilancio in chiaroscuro. Non è detto pertanto che alla lunga la seduzione cinese funzioni. Specie in Asia, dove molti Paesi sono divisi tra l’incerta ma insostituibile garanzia di sicurezza statunitense e la forza oggettiva di Pechino come partner economico.

 

In conclusione, possiamo parlare di fine della globalizzazione o, considerato il venir meno del binomio su cui essa si basava ma non dei due attori che la costituivano, sarebbe meglio parlare di avvento di tante “sottoglobalizzazioni”? 

Fabrizio Maronta: Ritengo più valida la seconda opzione. Se per fine della globalizzazione intendiamo l’autarchia generalizzata, forse solo una guerra mondiale nucleare potrebbe generarla, ma in tal caso è inutile parlarne dati gli esiti per l’umanità. Fatti salvi scenari estremi, assistiamo a una segmentazione della globalizzazione. In alcuni ambiti siamo già molto avanti, come nel caso di Internet. La Rete è ormai fortemente segmentata per blocchi linguistico-geografici, complici i sistemi di censura di cui quello cinese è il caso più vasto ed eclatante. In Internet, peraltro, i dati viaggiano soprattutto attraverso cavi sottomarini che sono proprietari, cioè stesi e posseduti da privati come Google, Alphabet o Meta, o dagli equivalenti cinesi e di altri Paesi. Vi è quindi una segmentazione anche di tipo infrastrutturale. Più in generale, come attestano pure i vari schemi russi, iraniani, nordcoreani o cinesi di elusione delle sanzioni americane e dei circuiti dominati dal dollaro, a essere oggi in discussione è il mondo geostrategicamente – oltre che economicamente – americanocentrico seguito alla fine della Guerra fredda. Questa è la vera essenza della deglobalizzazione come la intendo e analizzo. Perché è così che la vedo.

Scritto da
Alessandro Trabucco

Studente del Master in Comunicazione Storica presso il Dipartimento di Storia Culture e Civiltà dell’Università di Bologna, ha conseguito, dopo un periodo di ricerche trascorso in Medio Oriente, la laurea magistrale in Scienze Storiche e Orientalistiche con una tesi dal titolo “Storia nazionale e memoria: la Guerra dei Sei Giorni in Israele e Giordania”. Autore e collaboratore per il Circolo Studentesco di Studi Militari Casus Belli – Arma Mater Studiorum e per l’Associazione Geopolis – Limes Club Bologna, è socio della Società Italiana di Storia Militare e ha collaborato con la rivista Nuova Antologia Militare (NAM).

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