“Del capitalismo. Un pregio e tre difetti” di Pierluigi Ciocca
- 24 Novembre 2024

“Del capitalismo. Un pregio e tre difetti” di Pierluigi Ciocca

Recensione a: Pierluigi Ciocca, Del capitalismo. Un pregio e tre difetti, Donzelli Editore, Roma 2023, pp. 184, 19 euro (scheda libro)

Scritto da Daniele Molteni

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Nel saggio Del capitalismo. Un pregio e tre difetti, l’economista e storico dell’economia Pierluigi Ciocca si inserisce nel dibattito ragionato e profondo sulle origini del capitalismo e le sue traiettorie, indagandone differenti manifestazioni tra diversi Paesi e aspetti positivi e negativi prodotti fino ad oggi. La premessa da cui parte l’autore è la differenza tra il concetto di capitalismo e quello di mercato: il primo è definito come una formazione storica complessa, mentre il secondo è più semplicemente un meccanismo di scambio. Il mercato da solo, dice Ciocca, non è in grado di garantire uno sviluppo sistemico autentico, almeno senza un contesto produttivo che lo supporti e dei fattori sovrastrutturali che ne alimentino la fioritura. Il capitalismo, al contrario, è un sistema capace di generare la crescita economica e contribuire al benessere materiale diffuso attraverso un’ineguagliabile capacità produttiva, che ha portato negli ultimi duecento anni l’umanità da uno a otto miliardi di persone. Una vera e propria rivoluzione che «poteva scaturire solo da un sistema strutturalmente diverso, l’economia di mercato divenuta capitalistica: dall’effetto, lo sviluppo economico sostenuto, alla comune causa di fondo, il capitalismo» (p. 6).

Una differenza sostanziale tra mercato e capitalismo emerge anche nel Fernand Braudel de La dinamica del capitalismo, dove lo storico francese sottolinea come esistano «due tipi di scambio, uno rasente il suolo, concorrenziale, quasi trasparente; l’altro, di più alto livello, sofisticato, dominante» (p. 10). La specificità di questo sistema produttivo, regolato da diversi meccanismi e agenti rispetto al mercato, viene evidenziata da Ciocca riprendendo il “M-K-S System” proposto da Richard Goodwin, che identifica a partire da Marx, Keynes e Schumpeter, i tre motori tramite cui il capitalismo è spinto: l’accumulazione di capitale, la domanda effettiva, l’innovazione. Motori che con la Rivoluzione industriale inglese si traducono appunto in «un sistema radicalmente diverso dai precedenti, fondato sul capitale non più solo circolante – il capitale del mercante – ma fisso, in impianti e macchinari» (p. 11). Un passaggio che determina la nuova fase di crescita di circa l’1,5% l’anno del reddito pro-capite europeo dal 1820, in media raddoppiato ogni 45 anni (p. 16). Una tendenza dipesa dall’avvicendarsi di sistemi economici avvenuta quando, come sottolinea Ciocca citando John Hicks, «il capitale circolante – il capitale del mercante e dell’artigiano – doveva cedere al capitale fisso, investito soprattutto nell’industria per un tempo non breve, ma molto più capace di esprimere produttività e domanda globale, quindi crescita» (p. 32). Se il commercio promuove l’efficienza riallocando risorse date, l’industria promuove la crescente produzione di risorse aggiuntive senza fine, conseguenza dell’accumulazione della ricchezza e della sua concentrazione presso una borghesia dotata di spirito imprenditoriale, votata alla produttività e al risparmio. In ultimo, poggiando sul progresso tecnico e sulla formazione di una massa di proletari in una società polarizzata fra due classi.

Uno degli aspetti virtuosi del saggio è la chiarezza e la schematicità con la quale, attraverso la solidità dei dati a disposizione e la presa in esame di numerose teorie storiche ed economiche del passato, espone la propria tesi accennata nel sottotitolo. Ovvero il grande pregio del capitalismo, che sarebbe quello della crescita del benessere delle popolazioni e dell’aumento sostanziale del PIL pro capite, della struttura dei consumi, della speranza di vita, della salute, della sicurezza sociale e del tempo libero. Un grande pregio a cui si aggiungono appunto tre difetti: iniquità, instabilità, inquinamento. Il capitalismo è iniquo perché genera e ha generato nuova disuguaglianza, che nelle società precapitalistiche era imputabile al potere mentre è diventata con il nuovo sistema una questione di profitto (che è anche fonte di potere). Una disuguaglianza aumentata sia nelle economie, come negli Stati Uniti dove il rapporto fra la remunerazione dei dirigenti d’impresa e quella dei dipendenti è balzata da 20:1 a 300:1, che tra le economie, dove è aumentata di circa dieci volte dal 1820 al 1990. Se la disuguaglianza globale legata ai redditi inizia a diminuire, complice la crescita di Cina e India e l’aumento della loro rilevanza nell’economia globale, continua oggi ad aumentare quella legata ai patrimoni. Questa condizione non rappresenta solo un problema morale, sottolinea Ciocca, ma anche di freno alla crescita e un rischio per la coesione sociale.

Il secondo punto, quello dell’instabilità, riguarda quella reale, quella finanziaria e quella monetaria, che possono alimentarsi a vicenda provocando perdita di risorse, inefficienze nel loro utilizzo e redistribuzione casuale e regressiva. Una condizione che richiede l’intervento politico, perché anche se l’economia politica e la politica economica non possono estirpare l’instabilità in quanto parte integrante del sistema, «sono tuttavia in grado di contenerne le ripercussioni ed entro limiti di prevenirne il manifestarsi» (p. 114). Il terzo e ultimo difetto, quello dell’inquinamento, riguarda il danno di cui il sistema di produzione capitalistica è responsabile, quello di aver devastato l’ambiente negli ultimi duecento anni molto più di quanto non sia avvenuto in precedenza. È forse il problema più complesso da affrontare, quello dell’ambiente all’epoca dell’antropocene, e sicuramente quello che presenta i rischi sistemici più importanti, con le attività dell’uomo che hanno determinato le mutazioni climatiche che a loro volta generano esternalità negative come uragani, alluvioni, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei mari, inondazioni, desertificazione, incendi e così via. Una concatenazione di cause ed effetti difficilmente controllabile ed esacerbata dal fatto che ancora le imprese che producono e i consumatori che comprano non tengono conto dei costi ambientali delle merci circolanti e soprattutto chi produce non si fa carico di questi stessi costi. Secondo Ciocca, anche qui lo Stato dovrebbe intervenire per un calcolo privato delle esternalità negative, con una politica che sia capace di «combinare l’intervento diretto degli Stati con l’azione indiretta, che orienti il mercato alle finalità pubbliche» (p. 124).

Per affrontare questi difetti, diventati veri e propri problemi su scala globale, a cominciare dalla riallocazione delle risorse che la crisi climatica necessita, secondo l’autore la crescita rimane «la via maestra per fronteggiare i guasti che il sistema provoca, per lenire i danni che la stessa crescita produce» (p. 75). Una crescita che dipende tanto da fattori di natura economica, come il volume delle risorse applicate alla produzione, il grado di efficienza con cui le risorse vengono utilizzate e le innovazioni, quanto da fattori meta-economici, come la cultura e i valori sociali, le istituzioni e in particolare il diritto dell’impresa, l’economia e l’azione economica dello Stato. Questa crescita economica, necessaria per risolvere le contraddizioni del capitalismo, non è però garantita e il futuro del sistema incerto, anche perché le possibilità di crescita si legano ai tre difetti evidenziati, che ne sono nemici. L’autore suggerisce quindi di pensare a un governo dell’economia che vada oltre i confini nazionali e che alimenti il dibattito su un’analisi più approfondita del capitalismo e delle sue implicazioni storiche e contemporanee.

Senz’altro il capitalismo, con le sue criticità, ha mostrato una grande capacità di adattamento e rinnovamento negli ultimi decenni, senza che questo però al momento abbia portato a risolvere le disuguaglianze e le instabilità economiche iscritte nella sua logica. Le contraddizioni acute del capitalismo stanno mettendo a repentaglio la sua tenuta e gli assetti istituzionali dei Paesi democratici ne sono scossi. Ma la crescita necessiterebbe di essere esplicitata più concretamente nei suoi vari elementi materiali perché possa considerarsi come una soluzione nuova. Inoltre, se per Ciocca il sistema capitalistico sembra in qualche modo sinonimo di democrazia liberale, altri economisti come Branko Milanović sottolineano che «se si scorre la storia dei regimi capitalisti e si redige un bilancio delle società capitaliste democratiche e non democratiche, probabilmente si scoprirà che dal 1815 in poi meno della metà dei Paesi capitalisti sono stati effettivamente democratici»[1]. Le contraddizioni del sistema producono disuguaglianze, instabilità e inquinamento, con effetti che possono portare le popolazioni ad affidarsi a figure salvifiche e autoritarie così da abbandonare i valori democratici dopo averli adottati, ma il capitalismo non è automaticamente sinonimo di democrazia liberale. Appare infatti arduo postulare una simbiosi tra questo tipo di istituzioni e la struttura economica responsabile della crescita del benessere quantitativo diffusa nel mondo e della proliferazione di esseri umani – aspetti, anche questi ultimi, che non è scontato comunque considerare acriticamente dei beni in sé e per sé, sempre più oggetto di dibattito legato alla decrescita economica o alle ricadute ambientali della crescita demografica.

Nell’esaminare il rapporto tra democrazia e capitalismo con l’analisi della relazione tra Cina e Stati Uniti, Ciocca sottolinea le differenze, evidenziando come la Cina anteponga «la soluzione dei problemi sociali del popolo ai diritti civili degli individui: l’economia prima, la democrazia dopo», mentre gli Stati Uniti «come le altre democrazie liberali, invertono la sequenza» (p. 144). Forse, sostiene l’autore, i due sistemi sono destinati a convergere, ma l’incognita è se e dove si incontreranno. Non sembra che la traiettoria di Pechino sia verso quello che in Occidente si considera democrazia, nonostante la presenza di un capitalismo ormai avanzato; così come non è certa la sorte della democrazia in Europa e Stati Uniti, che rischia di diventare un guscio vuoto e inerte da difendere mentre in realtà si proteggono gli interessi nazionali, definiti in base al contesto globale, in un rinnovato scontro tra superpotenze o di civiltà.

Le crisi del capitalismo sono planetarie e per questo motivo l’autore propone un maggiore coordinamento e una rinnovata cooperazione internazionale, per curare gli interessi comuni su scala globale. Ma servirebbe non poca immaginazione per vederne i presupposti e con essi la permanenza del sistema capitalistico per come lo conosciamo, basato in larga parte sulla competizione, sulla concorrenza e sull’esaltazione dell’individuo. Viviamo un’epoca dove si susseguono situazioni di criticità su piani diversi, per cui è stato coniato il termine di policrisi; vediamo ancora la presenza di popoli oppressi e in guerra, ma anche di mentalità coloniali e neocoloniali. Su quest’ultimo aspetto, nell’indagare la nascita del capitalismo in Inghilterra l’autore prende in esame la sua diffusione da Londra al resto del mondo – avvenuta certo attraverso l’imitazione del caso inglese tramite i giornali, i viaggi, lo spionaggio, la fuoriuscita di tecnici e industriali inglesi, le società e i trattati, le accademie e gli investimenti all’estero – evidenziando il ruolo del colonialismo dal momento che «intorno al 1800 l’Inghilterra aveva costruito l’impero coloniale più vasto: 75 milioni di persone, che divennero 190 milioni intorno al 1830 e 395 milioni nel 1913, ovvero tre quarti dell’intero colonialismo europeo, con l’India al centro» (p. 45).

Nella sua diffusione, questo sistema economico-sociale ha prodotto differenti esiti a seconda del diritto, della cultura e in generale delle istituzioni e della politica di azione dello Stato. Proprio le differenze e gli effetti del colonialismo necessitano di essere presi in esame quando si tratta di proporre soluzioni che auspicano una maggiore cooperazione internazionale, perché nella storia sono esistite società egualitarie, la cui produzione di conoscenza e di pensiero è andata cancellata anche a causa di un apparato coloniale saldatosi con l’imperialismo capitalista, che ha fatto emergere e prevalere la negazione della possibilità di una propensione umana alla cura reciproca e all’uguaglianza[2]. Come sottolinea Paolo Tedesco analizzando il contenuto del libro A Brief History of Commercial Capitalism di Jairus Banaji, «non possiamo scrivere la storia del capitalismo senza considerare l’intersezione di diversi meccanismi di oppressione come razza, genere, etnia e origine nazionale oltre alla classe sociale»[3]. Questo tipo di riflessioni potrebbero offrire un quadro più completo per poter adottare quella che è la prospettiva formulata in conclusione al saggio, ovvero che le risposte che ciascun Paese saprà dare a questa crisi sistemica dovranno più che in passato conoscere quanto avviene altrove e prendere atto delle interconnessioni planetarie. E come l’autore sottolinea in quest’ultima parte, la propensione dell’Occidente «a imporre persino con le armi soluzioni al mondo deve cedere di fronte alla opportunità di tenere conto delle opinioni e dei modi di vivere altrui» (p. 154). In fondo, il cambiamento culturale per provare a mitigare gli effetti delle crisi odierne parte dal riconoscere i propri limiti, ma servirà uno sforzo importante per immaginare alternative possibili, capaci di affiancare al benessere materiale e quantitativo una valutazione qualitativa dei nostri stili di vita.


[1] Branko Milanović e Pablo Pryluka, Non c’è nessuna età dell’oro del capitalismo, «Jacobin Italia», 20 febbraio 2021.

[2] Per un’analisi storico-antropologica su queste conoscenze “altre” si veda: David Graber e David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli, Milano 2022.

[3] Paolo Tedesco, Alle origini del capitalismo, «Jacobin Italia», 17 luglio 2023.

Scritto da
Daniele Molteni

Laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano, lavora come editor e collabora con diverse realtà giornalistiche. È interessato a tematiche riguardanti la filosofia politica, la politica estera, la geoeconomia, i mutamenti sociali e politici e gli effetti della tecnologia sulla società. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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