Gli Stati Uniti e la polarizzazione: come cambia il volto della democrazia. Intervista a Mattia Diletti
- 05 Aprile 2025

Gli Stati Uniti e la polarizzazione: come cambia il volto della democrazia. Intervista a Mattia Diletti

Scritto da Antonio Francesco Di Lauro

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La polarizzazione è uno dei fenomeni alla base della perdita di coesione sociale contemporanea e dell’inasprimento delle tensioni politiche, che talvolta degenerano in forme di violenza estrema, e che caratterizzano da tempo la vita dei Paesi democratici. Negli ultimi anni, questa condizione ha mostrato un particolare radicamento nella società statunitense, esponendola ai rischi di una “guerra civile fredda”.

In questa intervista a Mattia Diletti, Professore e ricercatore presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CORIS) della “Sapienza” Università di Roma e autore di Divisi. Politica, società e conflitti nell’America del XXI secolo (Treccani Libri 2024), tracciamo alcune coordinate utili ad orientarsi in uno scontro tutt’altro che nuovo, esplorandone le origini, gli attori coinvolti e gli eventuali confini.


Facendo riferimento ai principali fatti sociopolitici appartenenti alla cronologia statunitense, su quale periodo ritiene sia necessario fare luce per individuare le radici dell’attuale polarizzazione?

Mattia Diletti: I fatti accaduti dopo il 1991, anno del crollo dell’Unione Sovietica, sono piuttosto rilevanti per la formazione dell’attuale scenario di polarizzazione. La scomparsa di un nemico esterno ha modificato la meccanica del conflitto politico statunitense – sebbene i conflitti che polarizzano la società americana si manifestino ben prima, negli anni Sessanta – determinando la perdita di un sentimento comune di solidarietà, responsabile a sua volta di aver reso apparentemente meno costosa una maggiore conflittualità ideologica. Tuttavia, gli anni Novanta rappresentarono per gli Stati Uniti anche un periodo di sconfinati traguardi. L’era clintoniana assume i tratti di una belle époque d’oltreoceano in cui dilaga il mito dell’eccezionalismo americano: nel Paese si ebbe la reale sensazione di poter ridisegnare il mondo da vincitori. Forti del primato economico e poi digitale, gli Stati Uniti diedero impulso alla creazione di istituzioni sovranazionali con l’obiettivo di instaurare un nuovo ordine multilaterale a trazione americana. Questo sofisticato processo di riorganizzazione dell’assetto globale ha influenzato la sfera politica di molti Paesi europei, rendendoli ancor più “americani di riflesso”. Come sottolinea lo storico Gary Gerstle, la presidenza di Clinton segna il momentaneo trionfo dell’ordine neoliberale nel mondo. Tuttavia, diverse iniziative portate avanti dalla sua agenda, nella fattispecie riguardanti le spinte alla globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, finirono per produrre vinti e vincitori, aprendo la strada a nuove polarizzazioni di carattere economico, culturale e territoriale. A ciò si accompagnò la parziale trasformazione delle gerarchie sociali statunitensi, con il riconoscimento sempre maggiore delle minoranze in lotta per i loro diritti. Il sostegno alle questioni di genere e di identità sessuale divenne sempre più centrale nelle campagne elettorali e molti di questi temi furono individuati come un nuovo terreno di scontro da alcuni conservatori rappresentanti del Partito Repubblicano. Un chiaro esempio di questa strategia fu la nomina a candidato per diventare Presidente di Pat Buchanan nel 1992, un repubblicano della corrente paleoconservatrice. Buchanan si scagliò violentemente in difesa dei valori tradizionali e dichiarò di combattere una vera e propria guerra culturale, espressione presa a prestito dal sociologo americano James Davison Hunter, che testimonia come le divisioni in seno alla società americana non fossero più basate esclusivamente su requisiti economici ma legate a tematiche più profonde riguardanti valori, identità e visioni del mondo sempre più divergenti. Proseguendo con l’idea di polarizzazione strategica, un altro momento particolarmente significativo fu la scoperta di un coinvolgimento di Bill Clinton in una relazione extraconiugale con Monica Lewinsky, stagista della Casa Bianca, nel 1998. In quegli anni i repubblicani iniziarono a sperimentare un utilizzo sempre meno istituzionale della procedura di impeachment, trasformandolo in uno strumento prevalentemente tattico e mediatico. A partire dallo scandalo Lewinsky, la sistematica delegittimazione dell’avversario sarebbe diventata una pratica ricorrente. Ma l’implementazione di queste manovre nella prassi del duello politico non si tradusse subito in risultati elettorali concreti poiché, come anticipato, gli Stati Uniti stavano vivendo una stagione economica fiorente. Nel 2001, al termine della seconda presidenza Clinton, il prodotto interno lordo americano ammontava al doppio di quello giapponese, il Paese che seguiva gli Stati Uniti in questa classifica. Dunque, un quadro generale caratterizzato da bassa disoccupazione e crescita economica elevata riuscì a frenare temporaneamente gli effetti della polarizzazione. 

 

L’accusa di statalismo risuona fra i temi portanti della campagna antidemocratica. Questa contesa si inserisce in una frattura di lungo corso che vede la società statunitense contrapposta fra ideali di “small government” e di “big government”. Cosa rende questo tema tanto divisivo?

Mattia Diletti: La retorica sviluppata intorno agli ideali di big government (governo interventista) risale all’attuazione del New Deal, il vasto programma di riforme e interventi economici e sociali promosso dal Presidente Franklin D. Roosevelt tra il 1933 e il 1938 in risposta alla Grande Depressione, la grave crisi economica che colpì gli Stati Uniti e il mondo negli anni Trenta. Lo Stato federale, in quegli anni, abbandonò rapidamente un approccio politico di tipo laissez-faire e assunse un ruolo cruciale nella gestione dell’economia e della società. Il New Deal determinò l’adozione di un nuovo paradigma, affermatosi poi nel corso dei successivi tre decenni. Ancora lo storico Gary Gerstle descrive questo periodo come una convergenza di tutti i partiti su principi simili legati all’indirizzo della politica economica; difatti, anche la presidenza Eisenhower, iniziata nel 1952, garantì il proseguimento di questo modello, celato sotto le vesti di un “conservatorismo dinamico”. Questo processo si colloca dunque “trentennio dorato”, incentrato sull’espansione dei programmi federali e statali. Con l’elezione di Ronald Reagan del 1980 il consenso che aveva assicurato le politiche sul welfare si ruppe definitivamente. Questa svolta fu il risultato della comparsa di vari fattori, tra cui la crisi economica scoppiata negli anni Settanta e l’ascesa del neoconservatorismo, che aprì le porte a un progressivo disimpegno dello Stato. In questo periodo emerse la figura della Welfare queen, incentrata sulla storia di una donna afroamericana che, abusando dei sussidi previsti dal sistema di welfare, conduce la sua vita nel lusso alle spalle del contribuente. Questa narrazione produsse stereotipi razziali legati all’immagine della donna afroamericana che froda deliberatamente il sistema di previdenza sociale, e si radicò profondamente nell’immaginario collettivo alimentando la stigmatizzazione delle comunità nere. Un caso emblematico della retorica politica e razziale utilizzata durante la campagna elettorale di Reagan, che contribuì a plasmare negativamente l’immagine pubblica del welfare e a promuovere una nuova ideologia conservatrice. Nel corso della presidenza di Barack Obama, il dibattito sul welfare e sulle politiche sociali riemerse poi con forza, riflettendo le tensioni e gli stereotipi razziali mai sopiti. In particolare, dopo l’emanazione dell’Affordable Care Act, meglio noto come Obamacare, espressioni come big government o redistribuzione della ricchezza furono ampiamente strumentalizzate, suffragando l’idea che il Presidente in carica intendesse favorire le minoranze a scapito dei cittadini bianchi. A questo fenomeno si deve l’affermazione di numerosi contromovimenti di nuovo indirizzo politico, come il Tea Party emerso nel 2009 come forza conservatrice e populista. Rispetto ai suoi predecessori, Donald Trump è un’ulteriore rappresentazione di una avversione nei confronti della pubblica amministrazione, che ricalca un sentimento diffuso e, all’occorrenza, controllato o esasperato, con la costruzione ad arte di notizie false.

 

I think tank sono organizzazioni composte da esperti che conducono ricerche e analisi su temi politici, economici e sociali con l’obiettivo di influenzare l’offerta politica e il dibattito pubblico. Nel dettaglio, in che modo contribuiscono al funzionamento dell’amministrazione statunitense?

Mattia Diletti: La genesi dell’azione politica statunitense è frutto della realizzazione di diversi sistemi di alleanze. Anzitutto, gruppi e lobby con interessi ideologici e materiali affini si dotano di studiosi, intellettuali ed esperti di comunicazione; questi svolgono un ruolo cruciale nel fornire dati, proposte e raccomandazioni agli imprenditori politici. Le coalizioni di questo genere sono diffusamente presenti nel panorama statunitense e possono avere orientamento progressista, conservatore o, occasionalmente, bipartisan. Comprenderne a pieno il funzionamento è piuttosto complesso: si tratta di un’azione corroborata da forze di vario calibro che muovono in una certa direzione, allo scopo di creare un consenso attorno a scelte di policy. Ovviamente hanno un ruolo anche nelle campagne elettorali funzionali a raggiungere posizioni di governo. In questa fase assume un ruolo centrale il sostegno di esperti di comunicazione e influencer, concentrati nei moltissimi podcast, piattaforme e reti televisive fidelizzate: sono questi oggi i diffusori di specifici temi di policy, o di un sentimento attorno ai temi. Non vi è una relazione diretta tra questi e i think tank, ma credo che tutti navighino in una certa direzione quando un tema diviene virale e questo crea una sorta di ecosistema ideologico. I think tank rappresentano un incredibile pilastro del modello politico degli Stati Uniti anche perché, al contrario di un Presidente o di altri eletti, persistono nel tempo. I partiti americani, come si dice in gergo accademico, sono candidate centered, cioè incentrati sul primato di un candidato che ha il compito di procurarsi finanziamenti – ma anche sedimentare le alleanze e una propria base elettorale – allo scopo di accedere alle elezioni nel collegio di riferimento. Data la volatilità politico-culturale dei partiti, i think tank mantengono quindi la continuità ideologica nelle diverse correnti presenti al loro interno. La Heritage Foundation o il Cato Institute, un tempo popolate da giovani intellettuali di orientamento conservatore, oggi sono esempi di think tank mediatori tra vecchi interessi repubblicani e trumpiani. Queste figure hanno svolto un ruolo cruciale nell’incentivare gli storici finanziatori delle idee reaganiane a sposare i temi dell’agenda trumpiana. Tuttavia, l’attuale leader repubblicano incarna un modello presidenziale che, pur possedendo uno stile molto diverso da quelli passati, riprende alcuni principi chiave del reaganismo come il nazionalismo, la riduzione delle tasse e la deregolamentazione. Attraverso il suo carisma e uno stile comunicativo senza precedenti, Trump è riuscito in parte a modificare il paradigma dettato dai think tank, provocando una scossa tale da costringere le figure al loro interno a adattarsi alla sua agenda. In un certo senso, è qui che risiede uno dei suoi aspetti più rivoluzionari. La Heritage Foundation, in particolare, da tempo principale cerniera del conservatorismo negli Stati Uniti, nel 2016 si dimostrò particolarmente scettica sulla candidatura di Trump. Nel suo secondo mandato la stessa organizzazione è divenuta il principale collettore di temi, personale e risorse per la sua presidenza. 

 

In tempi di forte polarizzazione il potere giudiziario rischia di oltrepassare la grammatica costituzionale e assurgere ad uno degli strumenti cruciali per il rafforzamento dell’esecutivo. In tal senso, quali manovre strategiche ne hanno consentito il controllo da parte di Trump?

Mattia Diletti: Per comprendere l’articolato sistema dietro il controllo conservatore della Corte Suprema è utile raccontare la storia della Federalist Society, una celebre associazione nata negli anni Ottanta da giovani giuristi americani, allora poco più che trentenni e oggi settantenni, che decisero di sfidare il pensiero giuridico progressista considerato maggioritario. Nel concreto, la Federalist Society ebbe il compito di stabilizzare la presenza di giudici conservatori nelle grandi università americane, favorendo la formazione di numerosi avvocati e giudici in grado di ribaltare il pensiero giuridico dominante. I tre nuovi giudici subentrati alla Corte Suprema per mezzo della nomina di Trump sono figure appartenenti a quella generazione di giuristi con un curriculum a prova di audizione del Senato. Ma la Federalist Society non si è limitata a fare ciò: ha permesso la creazione di una nuova generazione di giudici incentrata sui principi del pensiero originalista, che vede la Costituzione come un testo da interpretare in modo letterale. Da questo punto di vista, si è generato dunque un processo di polarizzazione del conflitto nel campo del pensiero giuridico che ha reso schizofrenico anche il sistema giudiziario stesso. Poiché il sistema politico statunitense è orientato al raggiungimento del compromesso fra le istituzioni e dentro le istituzioni, in una condizione di polarizzazione come quella attuale il sistema giudiziario dispone di un potere enorme. Quando si arriva a una paralisi dovuta ad un alto livello di conflittualità, difatti, sono i giudici che prendono alcune decisioni fondamentali. A essere in pericolo sono i principi costituzionali che, nella loro evoluzione, potrebbero risentire di una serie di forzature volute da Trump. Inoltre, alla subordinazione del sistema giudiziario all’esecutivo si affianca la reticenza del Congresso a maggioranza repubblicana, totalmente appiattito sulle posizioni trumpiane. Se uno dei poteri istituzionali non si batte per mantenere le proprie prerogative, la cessione di sovranità è inevitabile. Un terzo dei senatori e tutto il Congresso andrà alle elezioni fra meno di due anni e teme di perdere il consenso di Trump. Ma è proprio questo ricatto, basato sulla paura, a garantire al Presidente il suo dominio nonostante i suoi indici di gradimento non siano affatto alti. Difatti, è utile precisare che Trump è l’unico presidente che da decenni a questa parte avvia il proprio mandato presidenziale senza godere di un consenso generale. Il suo gradimento non raggiunge il 50% nei sondaggi di Gallup, l’organizzazione statunitense nota a livello internazionale per i suoi studi e rilevazioni nell’ambito dell’opinione pubblica, del marketing e della consulenza aziendale. Quella a cui stiamo assistendo è una luna di miele tra Trump e la base trumpiana, ma non tra Trump e il Paese.

 

Per quali tratti distintivi si caratterizza la strategia comunicativa dell’attuale Presidente? L’eventuale presenza di quali elementi sarebbe in grado di far crollare parte della sua narrazione?

Mattia Diletti: Non sento di poter fare previsioni a riguardo. Ma credo esista, in linea generale, un momento in cui la realtà soverchia la propaganda, spesso in prossimità di una crisi. Nel caso americano credo siamo ancora lontani da quel momento, perché l’amministrazione Trump è solo all’inizio del suo secondo mandato ma soprattutto per via della mancanza di un requisito indispensabile alla sua realizzazione: un rapporto di fiducia funzionante tra l’opposizione democratica e i cittadini. A mio parere, il Partito Democratico risente di una certa “tara illuminista” presente nel sistema delle opposizioni liberal, secondo cui le informazioni che non passano il fact checking sono respinte, in qualche modo, dall’opinione pubblica. In sostanza, si crede che l’analisi rigorosa dei fatti abbia ancora un ruolo centrale nel dibattito pubblico, ma purtroppo non è più così. Ciò che conta maggiormente è l’instaurazione di un rapporto di fiducia tra chi esprime un pensiero o un giudizio politico e chi riceve la notizia, soprattutto se si considera la sfiducia delle persone nei confronti dei media tradizionali. Pienamente consapevole di questo elemento, Trump è riuscito a creare un rapporto di intimità, quasi “da spogliatoio”, con la sua base elettorale, disposta a credere a qualsiasi cosa lui dica, anche falsa. Per intenderci, i seguaci di Trump sono a conoscenza del fatto che le politiche di inclusività non abbiano realmente causato il crollo di un aereo nei cieli di Washington lo scorso gennaio, ma questo genere di narrazione piace. Una simile relazione presuppone l’esistenza di un rapporto di fiducia assoluta, estremamente difficile da incrinare. La domanda che mi pongo è se, quando si verificherà un fattore scatenante capace di indebolire l’amministrazione Trump, ci saranno dei mittenti sufficientemente credibili da commutare questo fattore in una rivelazione di massa che duri nel tempo. Avvenimenti di questo genere sono imprevedibili ma possono accadere. Nel 2005, ad esempio, mi trovavo negli Stati Uniti quando vidi diversi cittadini statunitensi aprire gli occhi sui problemi del loro Paese quando l’alluvione Katrina colpì con furia la Louisiana, provocando oltre un migliaio di morti. Davanti all’impreparazione delle autorità nazionali, incapaci di evitare un simile disastro, l’opinione pubblica vacillò: da un lato, gli Stati Uniti erano in grado di mantenere aperti due fronti di guerra, in Iraq e Afganistan, verso i quali si percepiva già una certa stanchezza collettiva, ma dall’altro non erano in grado di gestire un disastro ambientale previsto. Oggi però siamo ancora lontani da un possibile “effetto Katrina”. Tempo fa, il conduttore di Fox News Jesse Watters ha fornito una spiegazione sintetica e accurata di come la destra amplifichi le notizie e raggiunga il suo pubblico. Per lui i repubblicani stanno conducendo una campagna di guerra informativa contro la sinistra da XXI secolo, mentre la sinistra usa tattiche da anni Novanta. Quello che si vede a destra è guerriglia asimmetrica, dall’alto e dal basso: qualcuno dice qualcosa sui social media, Musk lo retwitta, Joe Rogan ne parla nel suo podcast, Fox News lo trasmette. E quando arriva a tutti, milioni di persone lo hanno già visto. Ciò che ha più valore a destra è l’attenzione, e ciò che Watters descrive è il suo acceleratore: la viralità. Qui veniamo al punto finale: dall’incredibile e irrituale apparizione di J.D. Vance alla Conferenza di Monaco del 14 febbraio, al discorso di Trump di fronte al Congresso del 4 marzo, passando per il tweet quotidiano di Elon Musk, quella a cui assistiamo è una continua riproposizione di una fiaba organica e coerente. Questi discorsi servono soprattutto a mantenere viva la guerra civile (fredda), producendo e consolidando miti e narrazioni. 

 

Studi condotti da notevoli istituti di ricerca americani, come l’Harvard Youth Poll, identificano nella Generazione Z la fascia demografica colpita più duramente da basse prospettive di reddito e da un netto calo dello stile di vita. Data la sua dimensione interetnica e altamente istruita, crede che la prossima generazione, poco incline alle retoriche trumpiane, potrebbe rappresentare un ostacolo per lo strapotere conservatore?

Mattia Diletti: A riguardo, i repubblicani sono stati abili nell’individuare un target efficace, ovvero quello del maschio bianco non altamente istruito, sedimentando un sentimento di esclusione sociale in grado di sopravvivere al tempo. In precedenza, ho utilizzato l’espressione “cultura da spogliatoio” non a caso, ma per fare riferimento a tutti quelli che si scagliano contro il politicamente corretto, pronti a difendere qualsiasi narrazione sia diversa dal pensiero maggioritario. L’implementazione di politiche a favore di “diversità, eguaglianza e inclusione” fomenta la convinzione con cui i campioni autoproclamati della “maggioranza silenziosa” difendono le proprie idee, persino le più violente e illiberali. Si tende a radicare e poi sfruttare una particolare narrazione che afferma l’esistenza di una coalizione di minoranze aggressive, decise a spazzare via usi e costumi tradizionali e ad imporre il proprio stile di vita a scapito della maggioranza della popolazione. In Italia, trovo che Roberto Vannacci stia adottando con successo la medesima strategia. A scapito di chi tende a sottovalutarlo, credo che l’eurodeputato della Lega stia sfruttando alla perfezione questi modelli trumpiani. La maggioranza silenziosa a cui ci si riferisce negli Stati Uniti, attualmente, è composta essenzialmente da maschi bianchi, sia giovani che adulti, ma temo che in futuro possa divenire anche interetnica. Quello che intendo dire è che la progressiva multietnicità che va configurandosi nella società americana non impone necessariamente un cambio paradigmatico di comunicazione ai repubblicani, perché la riscoperta dei valori tradizionali potrebbe finire per oltrepassare l’identità razziale degli elettori. In parte, lo sta già facendo.

Scritto da
Antonio Francesco Di Lauro

Studia presso la facoltà di Scienze Politiche – ramo Relazioni internazionali dell’Università di Bologna. Collabora con diverse realtà giornalistiche e vari blog. Ha partecipato al corso 2024 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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