Recensione a: Mario Giro, Global Africa. La nuova realtà delle migrazioni: il volto di un continente in movimento, Guerini e Associati, Milano 2019, pp. 176, 17.50 euro (scheda libro)
Scritto da Lorenzo Pedretti
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Con questo libro, Mario Giro presenta una panoramica di alcune fra le principali trasformazioni che hanno interessato l’Africa subsahariana dalla fine del colonialismo ad oggi. Trasformazioni che riguardano diversi ambiti, come le dinamiche dell’emigrazione, il funzionamento degli Stati, le relazioni internazionali, le caratteristiche dei conflitti, la condizione dei giovani. Repentine nella loro evoluzione e profonde nel loro impatto, sono avvenute mentre gli europei, a giudizio dell’autore, guardavano al continente senza voler superare la legittima, ma limitante, preoccupazione per la crescita demografica e le migrazioni. La stessa mobilità umana cui si riferisce il titolo è un filo conduttore in buona parte del libro, ma i temi rilevanti sono anche altri e, in mancanza di letture come questa, si rischia di perderli di vista.
Di migrazioni e rapporti fra africani ed europei tratta il primo capitolo. Giro dichiara di ritenere inadeguate le categorie che siamo soliti adoperare, come migrante economico e richiedente asilo. L’emigrazione è vista piuttosto come una grande esperienza multidimensionale, in quanto coinvolge ogni aspetto della vita umana, il che rende problematico operare distinzioni nette fra le sue cause. E il suo scopo è mutato nel tempo: da strategia di sopravvivenza comunitaria tramite l’invio delle rimesse dall’estero, a tentativo di emancipazione personale in Paesi dove ai giovani, numerosissimi, mancano spesso opportunità di mobilità sociale e rilievo politico. Avendo appreso dall’Occidente un modello valoriale maggiormente improntato all’individualismo, cercano così all’estero ciò che non trovano in patria, affrontando, tra l’altro, rischi molto maggiori oggi che in passato. E poiché in tanti già sanno che potrebbero trovare molta sofferenza sul loro percorso, e forse anche la morte, risulta molto difficile dissuaderli dal partire.
Alla paura di un’apocalisse demografica e migratoria, Giro rivolge un breve ma significativo caveat. Se la fortissima crescita della popolazione africana è innegabile, soltanto un Paese (la Nigeria) è però sovrappopolato; inoltre bisogna notare come non tutti gli abitanti del continente siano nelle condizioni di emigrare, poiché spesso, tra povertà e crisi regionali, gli ostacoli alla partenza sono troppi. E fra chi ci prova in molti preferiscono, a un’Europa occidentale dove le possibilità d’ingresso legale e lavoro dignitoso sono state drasticamente ridotte, altre mete: Cina (non serve il visto e ci sono buone opportunità di studio), Brasile e Russia, ma anche Paesi africani come Gabon, Kenya, Tanzania, Uganda, Angola e Sud Africa. Spesso, del resto, per molti africani la prima scelta è stata la migrazione interna (dalle zone rurali a quelle urbane) o quella in un Paese vicino al proprio, poiché tradizionalmente «partire per il “paese dei bianchi” era una lacerazione, una perdita d’identità che si accettava solo per eccesso di bisogno».
Giro ricorda anche come i rapporti fra Africa ed Europa occidentale abbiano una lunga storia, nella quale è centrale la colonizzazione. Nonostante la scolarizzazione si attesti ancora sul 40%, attraverso le radio europee prima e l’avvento di Internet poi, oggi molti africani possono dire di conoscere tutto di noi, mentre noi di loro sappiamo pochissimo e non sembriamo voler rimediare. L’autore ritiene infatti che la politica estera dei Paesi europei abbia trascurato l’Africa. A livello commerciale sembra che l’Europa non abbia mai desiderato realmente negoziare nuovi accordi con il continente, preferendo difendere la politica dei sussidi alla propria agricoltura, che storicamente ha penalizzato quella africana impendendo l’acceso dei suoi prodotti al mercato europeo. Nel campo della cooperazione allo sviluppo, malgrado un “piano Marshall per l’Africa” sia stato promesso varie volte, ancora non è chiaro se potrebbe sorgere un dialogo o addirittura un partenariato tra il continente e l’Europa, e quali sarebbero le sue caratteristiche. Così «mentre gli europei hanno preso le distanze dal continente, cinesi, ma anche giapponesi, coreani, malesi, indonesiani, brasiliani e turchi si sono avvicinati. Si è molto parlato dei grandi vertici Cina-Africa con ampia presenza di capi di Stato. Più recentemente ne sono proliferati di nuovi, come i summit Corea-Africa o Brasile-Africa e Turchia-Africa, con grande seguito di investitori e politici».
Della Cina, in particolare, Giro nota come essa intervenga non solo con massicci investimenti ma presentando un nuovo modello etico e politico che, se non assicura di certo aiuti disinteressati, quantomeno propone una cooperazione priva di condizionalità, ingerenze, aggressioni. Per questo appare più appetibile di quello europeo.
Col secondo capitolo si sottolineano alcune fondamentali differenze tra gli Stati africani e quelli europei, come la mobilità di molte frontiere e capitali precoloniali e l’insignificanza di numerosi fra i confini odierni, tracciati dagli europei senza tenere conto della complessità di popolazioni che non coincidono con le «cittadinanze moderne di passaporto». Emblematico in questo senso il caso dei fula (anche detti fulani o peul), un gruppo etnico tradizionalmente semi-sedentario o nomade e dedito alla pastorizia, che conta circa 40 milioni di persone distribuite in un’ampia fascia che attraversa ben 18 Paesi, dal Senegal alla Repubblica Centrafricana.
Si ricorda anche, giustamente, quanto siano diverse le istituzioni statali africane dalle nostre, e non potrebbe essere altrimenti: sviluppatesi in Europa con un processo durato secoli, sono state poi introdotte in Africa appena pochi decenni fa. Come si può analizzarle con lo stesso metro? Istituzioni forti, accentratrici, spesso clientelari e autoritarie all’indomani delle indipendenze, che vengono poi sconquassate dai piani di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo Monetario Internazionale a partire dalla fine della Guerra fredda, che prevedevano tagli alle spese sociali, educative e sanitarie. Questo è un mutamento radicale e senza precedenti che, a giudizio dell’autore, causa la crescita dell’analfabetismo e il ritorno alla medicina tradizionale (visto che la scuola e la sanità pubblica sono molto meno accessibili e performanti di prima), e contribuisce inoltre a trasformare la competizione politica fra élite in numerose e atroci guerre interne, quelle degli anni Novanta (in Liberia, Sierra Leone e Repubblica Democratica del Congo, per citarne alcune) che coinvolgono intere popolazioni. In questo contesto lo Stato africano rischia di soccombere, ed è allora che la Cina ed altre economie emergenti appaiono in Africa in cerca di profitti, seguite dagli occidentali, non disposti ad essere scalzati da Paesi che pure sembravano non considerare più prioritari.
Il quarto capitolo tratta dei conflitti, troppo spesso spiegati con la lotta per il controllo di risorse strategiche o adducendo motivi etnici. Giro suggerisce invece di concentrarsi sul tema dell’esclusione. Dall’indipendenza ad oggi, con l’accelerare della globalizzazione e l’indebolirsi delle istituzioni, in molti Stati africani sono saltate tutte le reti sociali e le forme tradizionali di supporto (familiari, claniche, etniche, politiche). Sono venute meno tanto la solidarietà quanto molte opportunità di mobilità sociale e occupazionale. «Chi ha deciso di prendere le armi lo ha fatto per un insieme complesso di ragioni, tutte derivanti dall’assenza di uno status sociale pur minimo. […] È chiaro che laddove le strutture dello Stato in cui tale fenomeno emerge sono più deboli o fortemente corrotte, il contagio è più rapido e le conseguenze letali».
Forse è proprio la necessità di sopravvivere all’esclusione e uscire dal caos a spingere le persone verso la religione, tema che Giro affronta nel quinto capitolo. Poco dopo le indipendenze, i politici africani erano distanti dalle autorità religiose, tanto cristiane quanto musulmane, talvolta persino ostili. Soprattutto negli Stati socialisti, come il Mozambico, nei quali «l’attacco dell’afromarxismo contro la religione è totale, non sono risparmiati nemmeno i culti ancestrali, allo scopo di spezzare il residuo potere dei capi tradizionali locali».
Invece, con la crisi istituzionale e sociale che avviene tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello presente, lo Stato arretra lasciando uno spazio vuoto e le religioni corrono ad occuparlo, provando a riportare un ordine morale e materiale. L’avanzata del cristianesimo è folgorante e coinvolge sia le chiese storiche (cattolica e protestanti) sia quelle di più recente creazione (pentecostali e neocristiane) che sembrano adattarsi meglio a una popolazione sempre più urbanizzata e individualista. Presso i musulmani si diffondono invece movimenti rigoristi, diversi dall’Islam africano tradizionale, più sincretico, il che segnala anche la presenza di uno scontro intergenerazionale, in quanto gli ideali politici delle fasce più anziane della popolazione sono ancora laici.
Il sesto capitolo verte sul tema della schiavitù. Giro non solo offre un excursus storico del fenomeno, ma lo lega anche all’attualità, evidenziandone la natura di trauma della memoria collettiva. Basta ricordare l’impatto che hanno avuto sull’opinione pubblica le immagini di un mercato di schiavi in Libia all’inizio del novembre del 2017. In tanti Paesi, infatti, si sono levate proteste non solo «contro i libici schiavisti, ma anche contro gli europei che hanno chiuso le frontiere e contro i leader africani che non proteggono la propria gente».
Da un lato può sembrare difficile – perfino azzardato – proporre, in poche pagine, un’analisi al contempo esaustiva e di facile lettura che copra un continente intero, per quanto circoscritta a poche questioni macroscopiche. Dall’altro non bisogna dimenticare che essa è sostenuta dalla vasta esperienza dell’autore. Mario Giro, infatti, oltre ad insegnare Storia delle relazioni internazionali all’Università per Stranieri di Perugia è stato anche Viceministro degli Esteri (2013-2018), e Responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio (1998-2013) attiva da decenni con progetti di cooperazione internazionale e di risoluzione dei conflitti in numerosi Paesi africani. Questo retroterra sia accademico che politico risulta determinante per la riuscita dell’opera.
I messaggi più importanti che essa pare voler trasmettere sono i seguenti. Innanzitutto, che l’Africa non è un continente – in senso assoluto – sottosviluppato, tantomeno immobile, mai entrato nella storia. Semplicemente, essa si è inserita nella globalizzazione e vi ha risposto a modo proprio, tra l’altro in tempi rapidissimi. Poi, il fatto che le migrazioni, sebbene non inevitabili, siano in ogni caso un fenomeno di lungo periodo che quindi sfugge al controllo totale della politica, che non di rado ragiona e vuole conseguire risultati su periodi troppo brevi. Infine, la presenza di varie somiglianze fra l’Africa e altre regioni del mondo. Centrale in questo senso è il terzo capitolo dell’opera, dedicato ai giovani. Cittadini spesso esclusi che però lottano contro la loro emarginazione sociale e la corruzione della politica e cominciano a pretendere con forza crescente spazi e diritti, come testimoniano i movimenti civici, giovanili e studenteschi sorti negli ultimi anni in diversi Paesi africani. Difficile per i giovani europei, anch’essi gravemente minacciati da impoverimento, precariato, disoccupazione e sottoccupazione non riconoscersi nelle loro ragioni.
Il senso più profondo del libro è dunque l’invito ad andare oltre le semplificazioni e i luoghi comuni e ad approfondire quanto più possibile la storia e l’attualità africana, che da molto tempo a questa parte ci riguardano ben più di quanto siamo soliti ammettere.