Recensione a: Enrico Letta, Ho imparato. In viaggio con i giovani sognando un’Italia mondiale, il Mulino, Bologna 2019, pp. 188, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Michelangelo Morelli
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«Da anni sento ripetere che la politica non conta più, che è passata in secondo piano e si trova sempre a rincorrere l’economia. Tutto questo è stato frutto di una visione neoliberista che ha dominato il panorama politico e culturale degli ultimi decenni. Tutti ne siamo stati più o meno influenzati, per convinzione o pigrizia intellettuale. Io semplicemente credo, oggi più che mai, che la complessità delle sfide che abbiamo davanti e lo spirito del tempo ci dicano a gran voce che la politica conta e che ne abbiamo davvero bisogno. Solo così lo Stato può trovare un nuovo protagonismo, adatto al contesto del XXI secolo. Per ora, questo aspetto fatica a emergere; siamo bloccati, mentalmente, al Novecento».
Ho imparato è il taccuino di un lungo viaggio, ricco di sensazioni, ricordi, osservazioni e consigli di un flâneur privilegiato ad un mondo che sta cambiando rapidamente senza avere piena cognizione delle sfide del futuro. Quello di Enrico Letta, Presidente del Consiglio dal 2013 al 2014 e Dean di Sciences Po a Parigi, è progetto dagli obiettivi ambiziosi. Forte di un prezioso background politico ed accademico, l’autore analizza dettagliatamente i principali temi che l’Italia e l’Europa si trovano a fronteggiare al bivio della contemporaneità. Intrecciando virtuosamente problemi e soluzioni, Letta ripercorre in tutta la sua complessità un importante pezzo di storia recente, fiducioso che il mondo, nonostante le ambiguità e le contraddizioni dell’epoca, sia ancora disposto ad imparare dai propri errori.
«Quando soffia il vento del cambiamento c’è chi alza muri e chi, guardando avanti, costruisce mulini a vento». L’ottimismo della volontà si trova spesso a fronteggiare la tendenza umana a far degenerare l’incontro in conflitto, inibendo così ogni potenziale progresso. Quella che Letta dipinge è una realtà divisa e disorientata, intrisa di quel rancore che il tramonto del vecchio paradigma di sviluppo ha lasciato sulla scia del proprio glorioso passato. Di questa malinconia da “fine della storia” la politica è stata senza dubbio la vittima eccellente. Nel momento in cui il vento del cambiamento è sopraggiunto sul finire del secolo, spazzando via sistemi politico-istituzionali apparentemente incrollabili, la “nuova politica”, impreparata a cogliere l’eredità, si è chiusa nel proprio egoismo e nell’ottusità del potere fine a se stesso. Il risultato è stato la nascita dell’antipolitica, che scagliandosi contro gli epigoni della vecchia politica ha finito per rigettare in blocco ogni elemento riconducibile all’establishment, incluse alcune fondamentali competenze di governo.
L’onda dell’antipolitica ha semplificato (e mistificato) temi complessi e sensibili, come l’ambiente e l’immigrazione, erodendo le fondamenta non solo della politica italiana, ma anche dell’Unione Europea e delle sue istituzioni. Quella che in passato era stata considerata una risorsa per il continente, adesso veniva dipinta come una macchina burocratica lontana e invasiva, indebolendo una governance già strutturalmente limitata e di conseguenza l’ideale che aveva guidato i padri fondatori all’indomani della guerra.
Quello che a Letta preme non è però dimostrare la bontà dell’assetto istituzionale europeo – si dimostra infatti favorevole ad una riforma degli organismi sovranazionali. Ciò che diventa essenziale comprendere è invece come gli istituti europei, fra cui la moneta unica, rappresentati dall’antipolitica come il male assoluto, siano in realtà elementi irrinunciabili del processo di integrazione europea, cruciali per costruire un destino di mulini a vento, e non di muri.
La concordia non sembra però essere la lunghezza d’onda su cui oggigiorno l’Europa vuole muoversi. Sia la Brexit che l’avanzata populista nelle nazioni europee sembrano anzi confermare come oggi la politica tenda ad orientarsi nel senso di una crescente polarizzazione. Questo vale anche e soprattutto per gli Stati Uniti, ritrovatisi in quella spirale nazionalista e isolazionista che periodicamente connota la politica estera americana. La schizofrenica leadership di Trump, fra rabbiose invettive e inspiegabili dietrofront, ha finito per sdoganare condotte fino a pochi decenni fa praticamente impensabili sia dentro che fuori il Paese. Ergendo continuamente attorno alla propria nazione muri materiali e immateriali, Trump ha gettato le basi psicologiche di questa divisione. A tal proposito Letta osserva che «se la potenza che più di ogni altra si è autorappresentata tanto a lungo come paladina del bene, d’improvviso si dimostra pubblicamente capace di tutto […] perché gli altri non dovrebbero sentirsi autorizzati a fare altrettanto? Il rischio, in termini più semplici, è che Trump diventi un modello: licenza di oltrepassare il limite, senza argini, senza contrappesi».
Ad accendere definitivamente la miccia è stata una delle questioni più scottanti dell’ultimo decennio: l’immigrazione. Sia in Europa che oltreoceano questo tema si è intrecciato a motivazioni di carattere economico, securitario e spesso anche razzista, incontrando nell’antipolitica un valido appoggio nel rivendicare lo spazio dell’identità nazionale contro le derive “globaliste”. Ciò che però è mancato, soprattutto in Europa, è stato un approccio deciso e costruttivo al tema, capace di cogliere sia le motivazioni reali del fenomeno sia i potenziali vantaggi all’interno delle economie sviluppate. Enrico Letta combina abilmente queste due prospettive e ne deriva un progetto. Se da un lato il continente africano ha sperimentato negli ultimi decenni un’enorme crescita della popolazione, in Italia si è verificata una forte stagnazione demografica, che ha generato vuoti significativi in diversi settori lavorativi. La soluzione proposta da Letta risiede quindi in una collaborazione euro-africana, in grado di incentivare lo sviluppo economico dell’Africa e garantire contemporaneamente l’integrazione con l’economia europea attraverso flussi migratori sicuri e regolamentati.
Le velleità progettuali si scontrano però con l’inerzia degli organismi nazionali e soprattutto sovranazionali, di cui Letta riconosce i limiti e le manchevolezze. Non si tratta di attribuire colpe all’uno o all’altro soggetto, ma di riconoscere come gli egoismi degli Stati nazionali si siano intrecciati viziosamente con una governance europea già strutturalmente inibita. L’impasse europea sui migranti si riflette principalmente sul fallimento nel costruire una politica comune sul Mediterraneo. La geografia non può fungere da scusante per alcuni paesi e da costrizione per altri, e l’impellenza di trovare una soluzione può anzi offrire spunti per una rivoluzione della governance europea in senso positivo. Per l’autore è infatti auspicabile una politica estera comune che, sostituendo la moltitudine degli accordi bilaterali e multilaterali con i paesi extra-UE, riesca a rendere le migrazioni non più un problema, ma un’occasione reciproca di crescita economica e culturale. «Il nostro mare è ricco di storia e trasformarlo in un muro, oltre che impossibile, sarebbe un grave errore. Deve essere, invece un ponte, certamente regolato, ma che permetta di liberare il potenziale di scambi culturali, economici e di persone tra le due sponde del Mediterraneo».
Ciò che sembra davvero mancare alla politica, e che pervade con preoccupazione l’analisi di Letta, è una cultura del lungo termine, capace di guardare oltre il presente e costruire le società del futuro. Questo vale per le migrazioni così come per l’educazione, trascurata negli anni da una politica di corto raggio preoccupata più del proprio tornaconto che della creazione di politiche scolastiche lungimiranti. Per Letta è necessario cambiare questa traiettoria declinante, agendo su diverse direttrici. Bisogna in primo luogo “blindare” i fondi per l’educazione, quindi gli investimenti a lungo termine: a tal fine sarebbe necessaria una supervisione da parte di organismi europei “super partes” e una riforma complessiva del diritto allo studio, in grado di allargare la platea di beneficiari e potenziare l’offerta formativa per l’istruzione superiore. L’educazione non è però solo questione di fondi, ma anche di interazione tra diverse realtà. Il programma Erasmus è l’esempio di come la cultura nazionale non sia solo lo strumento privilegiato della retorica sovranista, diventando anzi un mezzo “aggregante”, cioè funzionale ad un’identità più forte perché fondata sulla diversità. Attraverso lo scambio culturale, le occasioni per l’Italia e per l’Europa si moltiplicherebbero, generando per ogni costo marginale un guadagno universale in termini economici, sociali e soprattutto umani.
Ho imparato è il lucido resoconto di una vita spesa a costruire ponti verso il domani, una mappa su cui tracciare il cammino e orientarsi nella complessità, un diario in cui si annotano osservazioni, progetti e speranze per un’Italia ed un’Europa mondiali. Forte del proprio cursus honorum politico e dell’impegno accademico con Sciences Po e la Scuola di Politiche, Enrico Letta impegna la propria esperienza al servizio di proposte e idee concrete per il futuro, palesando l’urgenza di un onesto esame di coscienza, collettivo e individuale, per poter finalmente virare, tutti insieme, verso un mondo pacificato: un mondo irrorato da quella «energia che alimenta i mulini a vento e tira giù tutti i muri, quelli reali e quelli che per paura costruiamo nella nostra testa».