Recensione a: Alberto Heimler, Il segno più. Come riformare la regolazione a sostegno della crescita, Prefazione di Giuliano Amato, Luiss University Press, Roma 2021, pp. 294, 25 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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Il tema della concorrenza di rado assume la centralità che meriterebbe all’interno del dibattito pubblico. Trova, tuttalpiù, spazio nella dottrina economica o giuridica, senza però essere inserito in un discorso di ampio respiro in grado di raggiungere l’opinione pubblica e la politica; o, in termini negativi, nelle cronache sulla distruzione creatrice dell’economia competitiva globalizzata. Eppure, specie in Italia, una riflessione sul tema appare quanto mai necessaria, anche perché costringe ad interrogarsi su due aspetti fondamentali del sistema economico ed istituzionale del nostro Paese: da un lato, la (storicamente) scarsa attitudine del capitalismo italiano all’innovazione competitiva, sovente sostituita da piccole rendite di posizione, sussidi statali e compressione del costo del lavoro; dall’altro, il rapporto mai del tutto funzionale tra Stato e mercato, che porta ancora con sé le contraddizioni della transizione giuridico-economica degli anni Novanta.
Sul rapporto tra regolazione pubblica e concorrenza interviene, nel momento giusto – come sottolinea Giuliano Amato nella prefazione, evidenziando l’importanza del tema in vista delle sfide prossime dettate dall’utilizzo dei fondi del Recovery Plan – Alberto Heimler, docente alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, con il suo ultimo libro Il segno più. Come riformare la regolazione a sostegno della crescita (Luiss University Press 2021). Il volume, denso di analisi, esempi concreti e spunti, affronta diverse tematiche inerenti alla concorrenza: dalla stagione delle privatizzazioni alla regolazione dei mercati, dai servizi di pubblica utilità agli interventi antitrust. L’autore muove da una prospettiva che, per certi versi, può ricordare la dottrina ordoliberale, stante la marcata attenzione riservata alla cornice regolatoria di origine statale a protezione dei processi concorrenziali; da qui, la convinzione che nell’economia sia la concorrenza a promuovere l’efficienza e lo sviluppo, e che il settore pubblico può promuoverla o difenderla, ma non crearla, perché a ciò possono provvedere solo le innovazioni. In questo senso, Heimler assume una posizione spesso anche molto severa nei confronti del pubblico, che potrebbe non essere condivisa da alcune prospettive – specie quando afferma che in Italia, il più delle volte, il problema non è l’iniziativa imprenditoriale ma la rigidità della cornice amministrativa, mentre a parere di chi scrive vi è quantomeno un concorso di colpa. Le posizioni sono tuttavia sempre estensivamente argomentate e accompagnante da analisi obiettive nel senso opposto, come quella sulla fallimentare privatizzazione del monopolio naturale della Società Autostrade. Per questo motivo la lettura si presta ad essere particolarmente utile: offre numerosi stimoli per rivitalizzare un dibattito che era leggermente emerso negli anni Novanta (quando fu approvata la legge antitrust 287/90) ma che cadde poi subito nel dimenticatoio.
Il punto di partenza per comprendere il rapporto tra regolazione pubblica e concorrenza risiede nell’assunto che, in un modo o nell’altro, il modello astratto del mercato come luogo autosufficiente non esiste: la cornice istituzionale e, più nello specifico, gli interventi regolatori, sono intrinseci ad ogni settore dell’economia, definendo – a volte in modo virtuoso, a volte in modo contradditorio – le regole del gioco cui dovranno sottostare i diversi attori. Per questo motivo, all’illusoria convinzione secondo cui un mercato concorrenziale sia la massima espressione di un’economia liberista, va sostituita la consapevolezza che per ottenere la concorrenza sono necessari (anche) ipertrofici interventi regolatori, spesso estremamente tecnici e specifici, espressione di come il mercato di riferimento sia disegnato dall’interventore pubblico. Un esempio interessante offerto da Heimler è quello del fallimento della liberalizzazione dei servizi di trasporto su gomma a medio raggio da parte della Thatcher negli anni Ottanta: «L’obiettivo era migliorare la qualità e la diffusione del servizio, ridurre i sussidi e abbassare i prezzi per l’utenza. Il risultato fu il caos. In alcuni casi le corriere delle diverse compagnie in concorrenza tra loro si fermavano alla fermata comune aspettando di riempirsi prima di partire, in altri fissavano gli orari di partenza cinque minuti prima del concorrente, così che la corsa successiva era vuota, in altri ancora si rifiutavano di svolgere il servizio in orari non remunerativi o nelle zone con scarsa domanda. Inoltre, il contrasto insanabile tra passeggeri che desiderano corriere frequenti e mezze vuote, e imprese di trasporto che invece prediligono corriere sempre piene, non è risolvibile dal sistema dei prezzi […] Pertanto la liberalizzazione nel Regno Unito del servizio di trasporto su gomma di passeggeri fu un clamoroso insuccesso che fece praticamente saltare la regolarità del servizio e condusse al fallimento di numerose imprese. Qualche anno dopo venne reintrodotto un sistema regolamentato, con operatori privati talvolta in concorrenza tra loro, e con l’adozione di un sistema di incentivi (affidamento del servizio tramite gara e suo rinnovo per altri due anni solo se la qualità era eccellente), per esempio nella città di Londra, con il raggiungimento di uno standard di qualità elevato a favore degli utenti» (p. 18).
Un altro esempio, questa volta inerente al rapporto Stato e mercato, è quello della privatizzazione di Società Autostrade. Infatti, mentre nelle privatizzazioni nei settori dell’energia elettrica o delle telecomunicazioni l’obiettivo era di consentire l’emergere di una concorrenza divenuta ormai possibile grazie agli sviluppi tecnologici, nel caso di Autostrade lo scopo principale era di massimizzare le entrate per lo Stato, dal momento che era chiaro che la concorrenza non si sarebbe mai sviluppata in quel settore: come scrive l’autore, le diverse tratte autostradali non sono in concorrenza tra di loro e non è concepibile pensarne di alternative così da rimettere la scelta all’utente. Per di più, l’avere affidato un monopolio naturale a dei privati ha reso impossibile avere un «pedaggio sganciato dai costi di realizzazione e mantenimento dell’infrastruttura […] dovendo il gestore privato essere necessariamente remunerato e rimborsato per gli investimenti effettuati» (p. 75). Infine, la conseguenza più deleteria riguarda i costi che l’operatore può andare (e, si direbbe, è andato) a ridurre senza che l’utente se ne possa accorgere: ossia quelli di manutenzione, dall’asfalto alle barriere tra le corsie. Senza entrare nel merito della vicenda del Ponte Morandi, conclude Heimler, la questione della privatizzazione di Autostrade rappresenta un esempio negativo, in un concorso di colpa tra l’operatore privato e l’amministrazione – che avrebbe dovuto effettuare maggiori controlli, stante la prevedibilità del comportamento del gestore finalizzato alla riduzione dei costi.
Il messaggio su cui l’autore insiste maggiormente è che la concorrenza non si crea per decreto, ma sono necessarie diverse condizioni di partenza, nonché una riflessione costante che permetta di adottare gli interventi più opportuni, nella consapevolezza che non sempre è possibile prevedere i risultati di alcune azioni di liberalizzazione e che arroccarsi in posizioni conservative nel timore della “distruzione creatrice” non è un’opzione auspicabile. In tal senso, sono utili gli esempi della liberalizzazione nel settore aereo e quella dei farmaci da banco.
Per quanto concerne il trasporto aereo, il servizio è stato da sempre offerto da voli di linea, con frequenze e tariffe fisse, che spesso compensavano i periodi di bassa domanda con i proventi di quelli ad alta domanda, garantendo così nel complesso la regolarità del servizio. Nel momento in cui hanno iniziato a diffondersi i voli non di linea (charter), la paura era che questi dessero vita ad una concorrenza deleteria nei periodi di alta domanda, erodendo il mercato dei voli di linea grazie ai prezzi bassi. Quando però con l’Airline Deregulation Act del 1978 negli Stati Uniti venne liberalizzato il mercato del trasporto aereo, queste previsioni non si realizzarono: innanzitutto, non si era sufficientemente tenuto conto del fatto che i diritti di decollo e atterraggio venivano ceduti dagli aeroporti per tutto l’anno, e non a seconda delle esigenze del vettore; in secondo luogo, la concorrenza nei prezzi non avvenne, come erroneamente ipotizzato, a ridosso delle partenze, ma con una logica opposta, secondo cui venivano fissate tariffe basse a distanza dalle partenze e via via innalzate – «sfruttando così la diversa disponibilità dei passeggeri a pagare che aumentava via via che si avvicinava la data della partenza e l’urgenza del viaggio» (p. 112). In questo modo, i voli charter assorbivano una domanda potenziale di passeggeri che era storicamente esclusa dai voli di linea, senza danneggiare vistosamente il business di questi ultimi, con effetti benefici per i consumatori.
Anche nel caso della vendita di farmaci da banco, nei mesi precedenti all’adozione del Decreto Bersani (2006) l’idea che l’ingresso dei supermercati nella loro distribuzione avrebbe messo in difficoltà le farmacie era molto radicata. In realtà, sottolinea Heimler, la concorrenza non è arrivata dai supermercati, ma dalle parafarmacie, cresciute in pochissimi anni fino ad arrivare a 6.400 nel 2017 su 19.600 farmacie. «La ragione dello sviluppo delle parafarmacie è stato il numero considerevole di farmacisti professionisti presenti in Italia, circa 80.000, oltre quattro volte superiori al numero di farmacisti titolari di farmacia. La liberalizzazione della vendita dei farmaci da banco ha consentito loro di trovare un’occupazione autonoma nel loro settore di attività, un’opzione fino ad allora inesistente» (p. 113). In questo caso, conclude l’autore, nessuno si era accorto che gli incentivi erano già presenti, senza che si trattasse peraltro di un mercato sofisticato guidato dalle innovazioni tecnologiche.
Questi esempi sono utili per evidenziare come il rapporto tra regolazione pubblica e concorrenza sia molto complesso, dipendendo da diversi fattori, difficilmente inquadrabili con logiche binarie. Lo stesso rapporto tra Stato e mercato non può ridursi ad uno schema antitetico, ma deve essere invero coltivato nell’ottica di una compenetrazione virtuosa.
Se i diversi altri spunti presenti nel volume – dalla posizione dominante dei giganti digitali alla controversa operazione Alstom-Siemens bloccata dalla Commissione europea, passando per la regolazione del crowdfunding – necessiterebbero di un’analisi di ampio respiro in una sede più opportuna, quanto possiamo comunque trarre in conclusione di queste brevi note è che: a) la regolazione pubblica è necessaria ma non sufficiente per garantire la concorrenza; b) non è possibile concepire il mercato al di fuori della cornice istituzionale e normativa nella quale è inserito; c) senza incentivi e innovazioni non si creano le condizioni per la concorrenza, sicuramente non realizzabile per decreto; d) vi sono diversi esempi, storici e attuali, che indicano come «gli assetti regolatori ottimali non si trovano per caso né al primo tentativo, ma nascono da una continua riflessione sull’esperienza accumulata volta al miglioramento delle prassi esistenti che è possibile solo quando le norme di riferimento hanno un carattere di generalità e ci sono margini di flessibilità relativamente alla loro adattabilità alle condizioni concrete di applicazione».
Alla luce di questi punti, è necessario oggi più che mai avviare un dibattito su questo importante tema, cogliendo gli stimoli offertici dal volume di Heimler per addivenire a soluzioni appropriate per il nostro sistema-paese, il cui rapporto con i processi concorrenziali non è mai stato granché virtuoso.