“Illusioni perdute” di Pietro Modiano e Marco Onado
- 21 Novembre 2023

“Illusioni perdute” di Pietro Modiano e Marco Onado

Recensione a: Pietro Modiano e Marco Onado, Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, il Mulino, Bologna 2023, pp. 376, euro 35 (scheda libro)

Scritto da Luca Picotti

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La letteratura sulla stagione delle privatizzazioni in Italia è molto ampia. Si tratta, infatti, di una fase di riscrittura dell’intera infrastruttura giuridico-economica del Paese, in un contesto di grandi trasformazioni sia a livello esterno – l’integrazione europea, la caduta del Muro di Berlino e l’apertura dei mercati – che interno, con la crisi dei partiti di massa, l’azione della magistratura, le stragi mafiose, i primi governi tecnici, l’emergere di un nuovo, seppure fragile, bipolarismo. A ogni fase di transizione corrispondono una serie di rischi e di opportunità. Gli anni Novanta potevano essere l’occasione per traghettare l’Italia verso il nuovo secolo con una architettura politica, economica e giuridica adeguata. Invece, hanno rappresentato l’inizio di un declino relativo di un Paese che non ha saputo trovare un nuovo baricentro dinnanzi ai cambiamenti in atto. Illusioni perdute? Questo è il titolo, senza il punto interrogativo, del recente volume scritto a quattro mani per il Mulino da Pietro Modiano e Marco Onado, che unisce così l’esperienza da dirigente d’azienda del primo a quella accademica del secondo: una riflessione a posteriori sugli errori, sulle occasioni mancate, sulle speranze disattese di un decennio centrale nella storia d’Italia. Un’amarezza che riguarda soprattutto, sottolineano gli autori riprendendo gli insegnamenti di Raffaele Mattioli, il fallimento della classe dirigente. Nel complesso, dal boom economico del secondo dopoguerra ai primi segnali di crisi a fine anni Settanta, dalla (non) strategia alla base dei piani di privatizzazione alla implementazione concreta, sino all’analisi della struttura economica italiana e delle sue criticità, il volume rappresenta una approfondita e preziosa fotografia dell’Italia.

Gli autori, prima di focalizzarsi sulla stagione delle privatizzazioni in senso stretto, si soffermano su quelli che ritengono i vizi antichi dell’architettura economica, finanziaria e imprenditoriale italiana: in particolare, un capitalismo tendenzialmente familiare, senza separazione tra proprietà e controllo, ingessato su patti di sindacato e non inserito in una cornice normativa adeguata e volta a favorire concorrenza, contendibilità delle imprese e tutela delle minoranze. Ragione per cui il capitalismo privato italiano ha ruotato, storicamente, attorno a grandi famiglie (da Agnelli a Pirelli) dedite più al mantenimento delle rendite di posizione che al rischio e all’innovazione. Quanto denunciano gli autori è proprio l’atavica debolezza del mercato di rischio italiano – ossia quello dei capitali, sempre troppo pochi per eccesso di cautela o mancanza di coraggio dei suoi capitalisti – soppiantato così da un eccessivo ricorso al credito bancario. Sistema, quello del credito, che sino agli anni Novanta viveva ancora della cornice normativa della legge bancaria del 1936. Parallelamente, il modello delle partecipazioni pubbliche che aveva guidato la ripresa del secondo dopoguerra ha iniziato, a fine anni Settanta, a perdere la propria forza propulsiva, piegato da un eccesso di debiti, corruzione, clientelismo politico, nonché da talune difficoltà geograficamente localizzate, come il sempre maggiore divario tra Nord e Sud. Nel complesso, il sistema di economia misto necessitava di nuove formule sia sul piano privato che pubblico, rese necessarie, peraltro, dall’integrazione europea – e dalla nuova costituzione economica introdotta dai Trattati, abito calato dall’alto senza, forse, una vera e propria consapevolezza delle implicazioni. Un tale sfida, però, sottolineano gli autori, doveva essere condotta per tempo, all’interno di una strategia di ampio respiro. In primo luogo, occorreva una classe dirigente all’altezza. Invece, si è aspettato la crisi degli anni Novanta – economica (svalutazione della lira), politica (crisi dei partiti di massa), giudiziaria (Mani pulite) e sociale (terrorismo mafioso) – e le scadenze comunitarie: «Sul fronte delle privatizzazioni, i ritardi accumulati nel tempo non potevano essere recuperati in pochi mesi, tanto meno nel fuoco dell’emergenza. Si era arrivati alla crisi senza strategia alcuna sulle modalità con le quali si sarebbe dovuto rimettere a punto, e tendenzialmente superare, il sistema di economia mista che aveva retto il Paese dal dopoguerra. Prima del 1992 se ne era discusso in un circuito ristretto, e non si era fatto quasi niente fino alla fine, e cioè fino al dicembre 1991, quando il governo Andreotti VII aveva varato un provvedimento dal titolo: Trasformazioni degli enti pubblici economici, dismissioni delle Partecipazioni sociali, convertito in legge nel gennaio 1992» (p. 153). Trattasi, invero, solo del primo atto della saga delle privatizzazioni, ossia la trasformazione degli enti pubblici economici in società per azioni (privatizzazione formale). La privatizzazione sostanziale – ossia l’effettiva dismissione da parte dello Stato dei pacchetti azionari di sua proprietà – arrivò solo nel 1994, in modo peraltro parziale e disorganico. È proprio la mancanza di visione l’aspetto su cui gli autori insistono maggiormente. Paesi come Francia e Regno Unito avevano iniziato percorsi di rimodellazione dell’architettura economico-istituzionale già negli anni Ottanta, mentre l’Italia – che si apprestava a cimentarsi in una delle operazioni più grandi dal punto di vista quantitativo – ha atteso sino alla crisi degli anni Novanta; in sostanza, ha aspettato che fossero gli eventi esterni a costringere il Paese a intraprendere la strada delle privatizzazioni: necessità di fare cassa, necessità di ridurre il debito, necessità di adeguarsi alle regole comunitarie sui limiti agli aiuti di Stato e sulla concorrenza. Un’operazione non strategica, ma emergenziale. Ragione per cui non è emersa alcuna coordinata precisa su quale volto dare al capitalismo italiano: il paradigma anglosassone della public company? Quello accentrato francese dei grandi gruppi? Il modello renano? Il sistema che ne è emerso è un ibrido, in cui hanno convissuto esperienze positive di dismissioni delle partecipazioni statali ed esperienze piuttosto negative. Ad esempio, è emblematico che un terzo del valore della borsa italiana sia costituito dalle imprese pubbliche; a ben vedere, da ENI a ENEL, passando per Leonardo e Fincantieri, le maggiori realtà italiane vedono il socio pubblico ancora presente. È una formula in parte virtuosa, che ha visto lo Stato dismettere solo in via parziale le proprie partecipazioni, tenendosi tramite il MEF o CDP una quota di controllo: in questo modo lo Stato continua a fare impresa, in una cornice però di diritto privato (non più enti pubblici economici ma società per azioni, sovente quotate in borsa) e con una maggioranza (numerica, non di controllo) di azionisti privati interessati al profitto e quindi attenti a che la società a controllo pubblico non diventi sede di inefficiente clientelismo politico. Un modello di privatizzazione parziale che ha funzionato per le imprese più strategiche. Tra gli esempi negativi, invece, gli autori menzionano i quattro casi più famosi: Telecom, Autostrade, Alitalia e Ilva; in generale, «storie di debito contratto dagli investitori e scaricato sulle società, di difesa di posizioni oligopolistiche, di scarsi investimenti, in presenza di cospicui utili per i privati, e proventi non ottimizzati per le finanze pubbliche» (p. 181).

Non si può dire che nulla si sia fatto negli anni Novanta. Anzi, è proprio un decennio in cui si susseguono i principali interventi normativi: legge sulla concorrenza (1990), legge bancaria (1993), legge sui mercati finanziari (1998), riforma del diritto societario (2003), solo per citarne alcuni. Un tentativo di ridisegnare l’infrastruttura giuridico-economica c’è stato. Il punto è che non è stato partorito all’interno di una strategia strutturale, concepita per l’Italia e implementata per tempo, bensì in modo emergenziale, sotto pressione dell’Unione Europea e dei mercati, senza visione e con una serie di interventi parziali, poco incisivi. È mancato coraggio, sostengono gli autori. Difatti, molti problemi sono tutt’oggi ancora presenti: nonostante le riforme, non si è sviluppato un capitalismo privato all’altezza, l’elemento familiare rimane centrale, la contendibilità è ostacolata dai patti di sindacato, il mercato del capitale di rischio e la borsa restano quantitativamente deboli, dominano le microimprese, mentre realtà virtuose come le cosiddette “multinazionali tascabili” non sono abbastanza per dare uno slancio alla produttività e alla crescita del Paese. Sul fronte bancario, il bilancio è relativamente migliore; sono emerse realtà come Intesa San Paolo e Unicredit, che ad oggi rappresentano player di livello internazionale, anche se la crisi finanziaria ha smorzato la generale euforia del settore creditizio dei primi anni Duemila: nel complesso, «il bilancio presenta più luci che ombre, ed è sicuramente più positivo di quello che riguarda le imprese. [Però] dobbiamo anche rilevare che, mentre si sono potuti formare due grandi poli bancari, il sistema sembra ancora caratterizzato da un mix di prodotti non sostanzialmente diverso da quello precedente alle privatizzazioni» (p. 298).

Rileggere la stagione delle privatizzazioni non rappresenta un mero esercizio di stile. Significa andare alla radice di una fase centrale di riscrittura del sistema-Italia, per comprenderne luci e ombre, e soprattutto gli errori. In una fase di transizione come quella attuale – che vede profondi mutamenti nei rapporti Stato e mercato, pubblico e privato – l’insegnamento degli anni Novanta appare ancora più importante, per evitare che occasioni di riforma diventino le ennesime illusioni perdute, per riprendere il titolo del volume di Pietro Modiano e Marco Onado, impietosa ma senz’altro meritevole riflessione a posteriori sulle privatizzazioni italiane.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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