Scritto da Tommaso Cerutti
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«La Patria del Popolo sorgerà, definita dal voto dei liberi, sulle rovine della Patria dei re, delle caste privilegiate. Tra quelle patrie sarà armonia, affratellamento. E allora, il lavoro dell’Umanità verso il miglioramento comune, verso la scoperta e l’applicazione della propria legge di vita […], potrà compirsi per via di sviluppo progressivo, pacifico […]» (Giuseppe Mazzini, Doveri dell’uomo).
Il 31 dicembre 1963, sulle pagine de La Stampa, Alessandro Galante Garrone celebrò, a vent’anni dall’uscita, Pensiero e azione del Risorgimento di Luigi Salvatorelli come un’opera fondamentale di interpretazione storica. Eppure, come precisato dallo stesso Galante Garrone, al momento della pubblicazione nella primavera del 1943, il testo edito per i tipi Einaudi aveva rappresentato innanzitutto una battaglia politica, come traspariva dall’ammonimento di chiusura, decaduto nelle edizioni successive al secondo conflitto mondiale: «Non subire le deformazioni e i traviamenti delle visuali nazionalistiche; ma preservare la libertà di pensiero e di azione, guardare dall’alto e lontano, ascoltare e riflettere, preparare e costruire»[1].
In questo senso si può affermare che tale scritto rappresenta al meglio quanto affermato da Giuseppe Galasso[2] ‒ sulla scorta di quel Profilo ragionato della mia attività e della mia personalità inviato da Salvatorelli ad Alberto Maria Ghisalberti in occasione del conferimento del Premio Marzotto durante le celebrazioni del primo centenario dell’Unità italiana[3] ‒ a proposito della complessiva unitarietà della sua figura di intellettuale e cittadino, precedente alle varie incarnazioni da essa assunte, fossero quella del docente, dello studioso, del giornalista o del militante politico. La sua azione sulla scena pubblica risultava così sempre coerente con un ethos civile che lo allontanava tanto dal modello dello studioso erudito distaccato dal mondo reale, quanto dalla cronaca giornalistica fine a se stessa. Ciò lo portava da una parte a interessarsi agli studi di storia del cristianesimo in concomitanza alle simpatie dimostrate nei confronti del movimento modernista e della Democrazia Cristiana di Romolo Murri[4], dall’altra a iniziare la carriera giornalistica in virtù dell’interesse sviluppato nei confronti della storia contemporanea italiana e internazionale[5].
La costante fedeltà ai propri principi è d’altronde ben rappresentata dalla sua travagliata vicenda biografica. Nato a Marsciano (Perugia) nel 1886, si laureò a Roma in lettere con Ernesto Monaci nel 1907 con una tesi su La politica interna di Perugia in un poemetto volgare della metà del Trecento. Dopo una parentesi come primo segretario al Consiglio superiore del Ministero della Pubblica Istruzione, si appassionò allo studio della storia, iniziando una serie di pubblicazioni che gli avrebbero permesso di aggiudicarsi la cattedra di Storia della Chiesa all’Università di Napoli nel 1916. Dopo aver combattuto nella Prima guerra mondiale, nonostante si fosse schierato a favore della neutralità italiana, iniziò a pubblicare articoli su vari quotidiani come Il Tempo, Il Resto del Carlino, Il Giorno e La Stampa di Alfredo Frassati, di cui divenne condirettore nel 1921. L’impegno politico e intellettuale profuso in quel primo dopoguerra lo avrebbero portato a scrivere Nazionalfascismo (1923) e Irrealtà nazionalista (1925), saggi che avrebbero causato il suo allontanamento dal giornale torinese nel 1925, al momento del passaggio di consegne della proprietà alla famiglia Agnelli, nell’ottica del processo di “normalizzazione dell’informazione” voluto dal fascismo. Negli anni del regime si dedicò nuovamente alla ricerca storica, per poi aderire al Partito d’Azione nel 1942, dopo essere stato membro dell’amendoliana Unione Nazionale e aver frequentato gli ambienti di Giustizia e Libertà. Con il secondo dopoguerra sarebbe tornato a La Stampa, per cui scrisse principalmente come editorialista per la politica estera, continuando a pubblicare importanti opere di sintesi storica. Morì a Roma nel novembre 1974[6].
Sempre Galasso, in altra sede, ha insistito sul profondo intreccio tra storia civile e storia religiosa all’interno della trattazione salvatorelliana, rimarcando però l’estraneità del pensiero dell’intellettuale umbro tanto dall’idealismo gentiliano quanto dallo storicismo crociano, che avevano condizionato, almeno nelle fasi preliminari, il pensiero di un altro grande storico della sua generazione come Adolfo Omodeo[7]. Tale lettura risulta fondamentale per comprendere appieno il significato del Pensiero e azione fin dalle prime battute. La progressiva perdita di centralità della Penisola italiana nel corso del Seicento, è infatti spiegata da Salvatorelli, in alcune pagine molto suggestive, principalmente come un problema di classe dirigente. Davanti alla «crisi della coscienza europea»[8], prodotta dalla riforma protestante, non si era innescato negli antichi Stati quel processo di «liberazione spirituale» che altrove avrebbe posto le basi per un nuovo progresso culturale e scientifico[9]. La crisi politica italiana diventava così prima di tutto crisi morale, contro cui si rivelava inefficace, quando non controproducente, tanto l’opera controriformistica promossa dal papato ‒ «superstruttura autoritaria all’indifferentismo delle coscienze individuali»[10] ‒ quanto l’opera intellettuale di Paolo Sarpi e di Pietro Giannone. Anzi il potere temporale e spirituale del pontefice, veniva visto, in questa fase, come il principale ostacolo a una futura unificazione italiana, come già nel XVI secolo aveva avvertito Niccolò Machiavelli[11].
Il risveglio morale della Penisola sarebbe avvenuto nel Settecento con l’Alfieri di Del Principe e delle Lettere. Nell’analizzare l’opera, su cui aveva già posto l’attenzione Piero Gobetti[12], Salvatorelli mette l’accento sull’importanza degli scrittori nella formazione del sentimento nazionale, ribadendo la natura spirituale prima ancora che politico-territoriale del processo risorgimentale. L’antiassolutismo repubblicano di Vittorio Alfieri viene inoltre letto in chiave morale ‒ e non utilitaristica ‒ come il momento di affermazione di un individualismo personalistico nella cultura italiana[13]. Siamo davanti, da questo punto di vista, a un lungo Risorgimento, affondante le sue radici nell’opera intellettuale degli autori dell’illuminismo peninsulare ‒ da Muratori ai Verri a Beccaria ‒ che rimette in contatto gli Stati italiani con quanto stava avvenendo in quel momento nel resto d’Europa. Tale concezione, sviluppata a partire da Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870 edito nel 1935[14], contrasta però con le coordinate temporali del Risorgimento «politico» fissate da Salvatorelli. Egli nega infatti con forza sia l’idea «federale» di far risalire il momento d’inizio del Risorgimento alla pace di Aquisgrana del 1748, quando l’Italia si trovò, per la prima volta da secoli, quasi interamente libera dal dominio straniero ‒ nonostante l’Austria mantenesse una notevole influenza sugli Stati italiani ‒ sia l’idea «unitario-sabauda» di interpretare la data del 1713 ‒ pace di Utrecht ‒ come momento di definitivo ingresso dei Savoia nelle vicende italiane. In questo senso Salvatorelli si scaglia anche contro il mito politico tanto di Carlo Emanuele I quanto di Emanuele Filiberto[15].
La data prescelta è invece quella del 1796, in contrapposizione al 1494, momento della prima invasione francese guidata da Carlo VIII, che aveva posto fine all’indipendenza della Penisola. Il triennio giacobino (1796-1799) è però interpretato in maniera del tutto opposta rispetto a quanto fatto da Gramsci, non a caso sostenitore di un’interpretazione del Risorgimento come movimento di espansione territoriale del Regno di Sardegna[16]. Il movimento rivoluzionario non è infatti qualcosa di importato dall’esterno, che si abbatte su un territorio fino ad allora rimasto fuori dalla storia, ma consiste piuttosto nello sprigionamento di quelle energie che erano andate fermentando nel secolo precedente. Nei discorsi dei patrioti italiani Salvatorelli scorge in nuce già tutti i temi che si sarebbero riproposti più tardi nel corso dell’Ottocento: «libertà, democrazia, indipendenza, unificazione federale o unità»[17].
Superata la successiva fase napoleonica, che nel pamphlet del 1944 Leggenda e realtà di Napoleone lo storico umbro avrebbe bollato come precorritrice del «ducismo» novecentesco[18], si sarebbe avviata l’età della Restaurazione, nei confronti della quale il movimento risorgimentale si sarebbe posto nei termini di una rivoluzione e non piuttosto di una evoluzione[19]. Interessante notare come, ancora una volta, l’affermazione degli ideali del liberalismo politico, in contrapposizione alle riforme paternalistiche delle monarchie restaurate, venga ricondotta con il pensiero di quegli scrittori «antipolitici», tra tutti Manzoni e Leopardi, che pongono la morale prima della politica nella convinzione che «i mezzi devono essere consoni al fine, sono fini essi stessi», in ideale collegamento con il discorso antiassolutistico portato avanti dal giansenismo più di un secolo prima[20]. In questo contesto i moti rivoluzionari del 1821 e 1831 continuano a mantenere una matrice europea, collegandosi il primo al pronunciamiento spagnolo di Rafael de Riego, il secondo alla rivoluzione orleanista francese[21].
Si arriva così al fondamentale periodo 1848-1861, in cui centrale risulta per Salvatorelli il binomio Mazzini-Cavour[22]. Come ricordato da Arduino Agnelli, da qui passa infatti buona parte del tentativo di portare avanti quell’opera di «difesa del Risorgimento» da lui stesso definita[23]. In particolare, l’interpretazione data in quelle pagine dallo storico umbro sembra contrapporsi nettamente con l’operazione portata avanti da Giovanni Gentile, che dando alle stampe Origini e dottrina del fascismo nel 1929, aveva posto il pensiero mazziniano e l’opera degli uomini della destra storica a fondamento dello Stato etico[24]. Da questo punto di vista, per Salvatorelli, risulta essere urgente da risolvere il problema della libertà in Mazzini[25], che nel Pensiero e azione viene riconosciuto come un prerequisito fondamentale dell’opera dell’intellettuale genovese[26].
All’altro estremo si pongono gli scritti gramsciani, in cui viene negata una dimensione popolare del Risorgimento a causa della mancata risoluzione della questione agraria ‒ e quindi della non partecipazione delle masse rurali ‒ arrivando a definire come “antinazionale” l’operato della classe dirigente piemontese[27]. Al contrario, nell’interpretare i fatti del biennio 1848-1849, Salvatorelli sottolinea il carattere nazional-popolare del movimento risorgimentale, ben conscio delle evidenti diversità con i successivi fatti del 1859-1861, che avrebbero portato con il procedimento annessionistico plebiscitario-parlamentare a una soluzione di compromesso dettata dalla necessità dell’ora. Eppure, rimaneva in dote al nuovo Stato unitario una fondamentale novità ‒ principale acquisizione per il cui mantenimento si era battuto lo schieramento moderato guidato da Cavour: il regime liberale, che avrebbe permesso con il tempo, attraverso la lotta politica quotidiana, di far evolvere la situazione di partenza, dando progressivamente soluzione a una serie di problemi lasciati insoluti, a partire dalla questione romana e dalla questione sociale[28]. Salvatorelli non negava affatto che il Risorgimento fosse stato opera di una minoranza, ma sottolineava come «la parte politica attiva tocca sempre alle minoranze, perché la maggioranza ha da fare». Il punto cruciale era stabilire quale fosse il rapporto tra minoranza e maggioranza: «di persuasione o di costrizione, di partecipazione intima o di adesione passiva, nella luce della coscienza o nelle tenebre dell’ignoranza». Egli non aveva alcun dubbio: «La minoranza che fece il Risorgimento appartenne al primo tipo, l’unico che permette le costruzioni durature»[29].
In questa appassionata difesa del costituzionalismo risorgimentale, sta forse il senso più vero di quell’opera di congiunzione tra quel patrimonio politico-intellettuale e la fondazione di un nuovo sistema democratico, portata avanti da Salvatorelli a cavallo della Seconda guerra mondiale, di cui ha parlato Arturo Colombo[30]. Non a caso nel Pensiero e azione il Mazzini della Costituzione romana del 1849, il cui testo fu il primo tra le 11 costituzioni pubblicate dal Ministero per la Costituente nel 1946[31], è contrapposto alla tendenza di Garibaldi alla «dittatura nazionale»[32]. Un’osservazione interessante, questa sul modello cesaristico garibaldino, soprattutto se letta alla luce di quanto affermato da Giuseppe Maranini sulla coincidenza di vedute in merito al rapporto governo-Parlamento tra l’eroe dei due mondi e il Crispi presidente del Consiglio[33] e spiegabile alla luce dell’influsso esercitato dalle vicende sudamericane della prima metà del XIX secolo, a cui molti esuli del Risorgimento democratico avevano partecipato[34]. Profondamente legata a ciò risulta la riflessione sulla dimensione europea dei moti quarantotteschi. L’analisi del pensiero mazziniano permetteva infatti a Salvatorelli non solo di porre la questione dell’indipendenza italiana all’interno di un più generale moto di liberazione continentale ‒ similmente a quanto sarebbe avvenuto nei mesi successivi alla tribolata scrittura del Pensiero e Azione ‒ ma anche di giocare tutto sulla dimensione popolare di quella proposta, contrapposta al disegno autoritario e cesaristico di Napoleone III[35]. Giuseppe Tramarollo[36] ci ricorda d’altronde come l’analisi della storia europea rivestì una parte importante della produzione salvatorelliana e, nel secondo dopoguerra, fu svolta in parallelo all’attività di commentatore in presa diretta del processo di integrazione continentale, come ci restituiscono gli articoli raccolti nel 1956 nel volume La guerra fredda. All’interno del libro, ancora una volta, la «questione morale» appare come categoria irrinunciabile nel definire gli avvenimenti internazionali del presente, si trattasse di condannare e combattere il comunismo mondiale o sostenere Israele nella contesa contro nemici che, nonostante il regime armistiziale, mantenevano il programma della sua distruzione[37].
Era questa la base da cui muoveva in definitiva anche l’interpretazione data da Salvatorelli del fascismo nell’ultimo capitolo del Pensiero e azione, scritto nel 1944 dopo la liberazione di Roma[38]. Il fascismo era qui definito infatti come Antirisorgimento, «risurrezione dello Stato assoluto, ma assai peggiorato, perché se ne estendeva illimitatamente il potere e l’arbitrio, abbandonandone il vecchio contenuto morale»[39]. Esso era il prodotto del trionfo del socialismo massimalista ‒ il «socialismo mussoliniano» ‒ e del nazionalismo, ideologie di importazione, risultato di quella «voragine ideologica» definita da Jaime Vicens Vives, che si era abbattuta in Europa alla fine del secolo XIX[40]. La democrazia italiana, sebbene ancora «adolescente» e limitata nell’educazione politica e dalla conseguente ristrettezza della classe dirigente[41], fu tradita nella sostanza dalle politiche dissennate di Vittorio Emanuele III, definito da Salvatorelli come il re dei tre colpi di Stato ‒ 1915, 1922, 1943[42]. La polverizzazione del partito liberal-democratico, a ben vedere, era infatti il prodotto del maggio del 1915, polverizzazione che lo rese impossibilitato a governare i processi innescatisi alla fine del primo conflitto mondiale. Il colpo di grazia al regime nato dal Risorgimento, casa Savoia, lo avrebbe dato nel 1922. Si veniva a sciogliere il patto tra nazione e casa regnante che era stato alla base della monarchia costituzionale fino a quel momento. La palla ripassava al popolo italiano[43]. Non è a questo proposito secondario sottolineare che, se si passano in rassegna i nomi degli uomini del CLNAI, ovvero dei capi del movimento resistenziale ‒ Pizzoni, Marazza, Arpesani, Cadorna, Parri e perfino Pertini ‒ si troverà un gran numero di eroi decorati della Prima guerra mondiale, conflitto che aveva portato a termine il processo di unificazione territoriale. Fatto che dava pienamente senso a quel monito, lanciato da Salvatorelli nel 1943, a restaurare le libertà perdute.
In quest’ottica, avviandoci alla conclusione, è interessante fermarsi a riflettere in merito al concetto di «evitabilità» del fascismo espresso da Leo Valiani in un suo saggio sull’interpretazione del pensiero salvatorelliano[44], che poco ha a che vedere con la teoria crociana del fascismo come parentesi[45]. Rivelatrice la famosa polemica sul veto a Giolitti scoppiata nel 1955 in seguito alla pubblicazione del famoso articolo Testamento di De Gasperi[46]. L’accusa fatta al vecchio Sturzo di aver messo gli interessi di partito davanti a quelli dello Stato liberale[47] ‒ peraltro già presente nel Pensiero e azione[48] ‒ non va infatti letta nell’ottica di una difesa a oltranza di Giolitti[49], di cui Salvatorelli, pur essendo stato fin dalla prima ora un oppositore di un ritratto del politico piemontese come «ministro della malavita», riconosceva tutti i limiti[50]. Al contrario l’accento andrebbe messo sul successivo elogio di De Gasperi, in cui, si diceva, proprio in quel drammatico frangente venne «a piena maturità quella coscienza statalnazionale ‒ e possiamo aggiungere liberaldemocratica ‒ che doveva poi esplicarsi con volontà robusta, direttiva costante, efficacia primaria, dopo la caduta del fascismo». Tale consapevolezza gli permise ‒ «odiato a morte dal neofascismo, svilleneggiato dal comunismo […] avversato da potenti forze clericali-reazionarie e diciamo pure clerico-fasciste»[51] ‒ di preservare la «democrazia repubblicana» dalle violente pressioni esercitate dalla guerra fredda, compattando il fronte democratico contro i suoi avversari[52].
In un’epoca di «memorie» divise e confliggenti tra loro, in cui il significato dell’identità nazionale è stiracchiato e conteso tra le parti in contrasto, la rilettura di un’opera potente come il Pensiero e azione di Salvatorelli ci permette di mettere ordine al caos che ci circonda, riscoprendo, attraverso lo strumento della Storia, i valori fondanti del nostro stare insieme.
[1] Alessandro Galante Garrone, Luigi Salvatorelli dimostrò nel ’43 che il fascismo è Antirisorgimento, «La Stampa», 31 dicembre 1963, p. 11.
[2] Giuseppe Galasso, Per una biografia intellettuale di Luigi Salvatorelli, in Luigi Salvatorelli (1886-1974). Storico, giornalista, testimone, a cura di Angelo d’Orsi con la collaborazione di Francesca Chiarotto, Nino Aragno Editore, Torino 2008, pp. 3-4.
[3] Giuseppe Talamo, Salvatorelli storico del Risorgimento, in Luigi Salvatorelli… cit., p. 251.
[4] Giuseppe Galasso, Per una biografia… cit., p. 4.
[5] Alberto Sinigaglia, Salvatorelli e «La Stampa», in Luigi Salvatorelli… cit., p. 375.
[6] Angelo d’Orsi, Salvatorelli, Luigi, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 89, Treccani, Roma 2017.
[7] Giuseppe Galasso, Forze storiche e vita morale nell’opera di Luigi Salvatorelli, in Salvatorelli storico, a cura di Fulvio Tessitore, ESI, Napoli 1981, pp. 33-54.
[8] Il riferimento è, ovviamente, a Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, UTET, Torino 2019.
[9] Il pensiero non può fare a meno di correre al Weber di Etica protestante e spirito del capitalismo.
[10] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 1963, p. 29.
[11] Niccolò Machiavelli, Il Principe, Feltrinelli, Milano 2017, pp.138-143; Id. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Tutte le opere, a cura di Mario Martelli, Sansoni, Firenze 1971, I, 12.
[12] Piero Gobetti, La filosofia politica di Vittorio Alfieri, in Id., Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, Einaudi, Torino 1976. Sull’influsso di quest’opera su Salvatorelli si veda Arturo Colombo, Salvatorelli storico del pensiero politico, in Salvatorelli storico… cit., p. 86.
[13] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 50-54.
[14] Arturo Colombo, Salvatorelli storico del pensiero politico… cit., pp. 80-84.
[15] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 33-38.
[16] Si vedano i seguenti scritti raccolti in Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1996: L’età del Risorgimento di Adolfo Omodeo (Q. 19); [Quando incomincia il Risorgimento?] (Q. 6); Le origini del Risorgimento (Q. 19).
[17] Luigi. Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 59-65.
[18] Alessandro Galante Garrone, Salvatorelli storico del Risorgimento, in Salvatorelli storico… cit., p. 113.
[19] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 76-77.
[20] Ibidem, pp. 44, 82 e 92.
[21] Ibidem, pp. 86-89.
[22] Ibidem, pp. 150-155.
[23] Arduino Agnelli, Salvatorelli interprete di Mazzini, in Salvatorelli storico… cit., p. 133.
[24] Giovanni Gentile, Origini e dottrina del fascismo, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Roma 1934, pp. 11-20.
[25] Arduino Agnelli, Salvatorelli interprete di Mazzini … cit., pp. 125-126.
[26] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 93-101.
[27] Si veda in particolare l’interpretazione data della sconfitta di Novara: Novara (Q. 19). Per il resto (sempre con riferimento ad Antonio Gramsci, Il Risorgimento… cit.) si veda: Il rapporto città-campagna nel Risorgimento e nella struttura nazionale italiana (Q. 19); I moderati e gli intellettuali (Q. 19); [La funzione del Piemonte] (Q. 15); [Il nodo storico 1848-49] (Q. 8).
[28] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 134, 164, 174-175.
[29] Ibidem, pp. 110-111.
[30] Arturo Colombo, Salvatorelli storico del pensiero politico… cit., pp. 95-96.
[31] 11 Costituzioni, a cura del Ministero per la Costituente, Roma 1946, pp. 9-19.
[32] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 153, 155-156.
[33] Giuseppe Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Nuova Guaraldi Editrice, Firenze 1983, p. 191.
[34] Sul punto si veda Maurizio Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Laterza, Roma-Bari 2009.
[35] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., pp. 159-160.
[36] Giuseppe Tramarollo, Europeismo di Salvatorelli, in Salvatorelli storico… cit., pp. 161-170.
[37] Luigi Salvatorelli, 100. La nuova fase, in La guerra fredda, Neri Pozza, Venezia 1956, pp. 315-318.
[38] Alessandro Galante Garrone, Luigi Salvatorelli dimostrò… cit.
[39] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., p. 182.
[40] Giuseppe Galasso, Per una biografia… cit., p. 12.
[41] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., p. 180.
[42] Luigi Salvatorelli, Tre colpi di Stato, «Il Ponte», VI (1950), 4, pp. 340-350.
[43] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., p. 192.
[44] Luigi Valiani, Salvatorelli storico dell’Unità d’Italia e del fascismo, in «Rivista storia italiana», LXXXVI, IV, 1974, pp. 722-749.
[45] Consulta nazionale, Assemblea plenaria, 27 settembre 1945.
[46] Luigi Salvatorelli, Testamento di De Gasperi, «La Stampa», 21 agosto 1955, p. 1.
[47] Prontamente rispedita al mittente. Vedi Il veto a Giolitti nel ’22, «La Stampa», 26 agosto 1955, p. 1.
[48] Luigi Salvatorelli, Pensiero e azione… cit., p. 186.
[49] In cui sembra invece indulgere Alfredo Frassati. Si veda Alfredo Frassati, “Don Sturzo e la visione dell’imminente catastrofe”, «La Stampa», 10 settembre 1955, p. 1. Sul punto si veda anche Giolitti ottobre 1922, «La Stampa», 16 settembre 1955, p. 5.
[50] Marco Scavino, L’opera e la personalità di Giolitti nell’interpretazione salvatorelliana, in Luigi Salvatorelli… cit., pp. 337-374.
[51] Luigi Salvatorelli, Testamento di De Gasperi…cit.
[52] Sul concetto di «democrazia repubblicana» si veda Giuseppe Galasso, Per una biografia… cit., p. 23.