Scritto da Paolo Borioni
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Le elezioni in Svezia, le ultime politiche nazionali prima delle prossime europee, hanno segnato un momento importante e sono state seguite con attenzione in tutta Europa. Dopo una prima analisi dei risultati elettorali da noi pubblicata, proponiamo un approfondimento a cura di Paolo Borioni, scandinavista e Professore di Storia delle Dottrine e delle Istituzioni politiche presso l’Università La Sapienza di Roma. Borioni approfondisce l’analisi del voto in Svezia, affrontando le questioni politiche che emergono dall’erosione del modello nordico e delineando le dinamiche parlamentari svedesi che porteranno ai possibili futuri scenari di governo.
In merito a questi temi segnaliamo anche l’interessante dibattito dal titolo Voto svedese ad alta tensione, ospitato dalla RSI – Radiotelevisione svizzera di lingua italiana, a cui hanno partecipato anche Paolo Borioni e Marco Tarchi.
Al momento della stesura di quest’articolo non risultano ancora giunti i risultati delle ultime schede votate per lettera che, a quanto segnalavano i media la sera delle elezioni, hanno messo in crisi il servizio postale, destinato a smistarle alle autorità elettorali. Si tratterebbe in ogni caso di circa trentamila voti che difficilmente potranno alterare l’equilibrio determinatosi fra centro-destra borghese e sinistra rosso-verde, con quest’ultima in vantaggio di cinquantamila voti.
Ciò servirà a Löfven, il metalmeccanico che guida la socialdemocrazia, ad entrare al Riksdag ancora legittimato alla testa del proprio governo, a meno che non si manifesti un’esplicita maggioranza contraria. Questo avviene per effetto del principio del parlamentarismo negativo, solo in parte corretto anni fa dal precedente leader socialdemocratico Göran Persson. Questo sistema particolarmente rappresentativo e stabile, proprio perché più coerentemente proporzionale, consentirebbe all’esecutivo, in altri ordinamenti nordici affini, di proseguire semplicemente a meno di una mozione di sfiducia che raccogliesse la maggioranza dei deputati.
Ma al tempo di Persson si è voluto incrinare leggermente i principi del parlamentarismo svedese rendendo questo voto obbligatorio all’apertura del Riksdag. E Löfven ha detto chiaramente da tempo che se i partiti rosso-verdi avessero mantenuto la maggioranza relativa si sarebbe appunto presentato ancora in sella, pur non essendo questo schieramento un cartello elettorale né una maggioranza di governo inclusiva di tutte le forze che vi si collocano, ma solo appunto un dato di fatto parlamentare non rovesciato dalle urne o, fino a prova contraria, dalla volontà degli eletti.
È opportuno ricordare tutto questo perché, oltre all’interesse istituzionale e costituzionale che presenta, tale scelta ha diverse finalità. Intanto si propone di riaffermare con maggiore decisione la proclamazione di vittoria – o non sconfitta – dei primi momenti posteriori alla nottata di domenica 9 settembre. Poiché si è assistito ad una gara a dichiararsi tutti vincitori (come anche il più qualificato canale della radio danese ha sottolineato in modo piuttosto sfottente) il governo dimettendosi avrebbe contraddetto sé stesso in modo imbelle, dando al contempo ragione al giubilo altrui. Così invece, è come se Löfven dicesse: “gli elettori hanno affermato che sono più forte di voi, e solo per vostra decisione contraria potete ribaltare questa affermazione”. Questo “per vostra decisione contraria”, in virtù del parlamentarismo negativo e dei suoi principi, serve a sottolineare che per farlo occorrerebbe un piano deliberato che sdogana e mobilita i voti dei nazional-populisti.
In Svezia la destra borghese è nei guai quanto e più della socialdemocrazia
Lo sdoganamento del nazional-populisti necessario per formare una maggioranza alternativa dovrebbe essere stavolta davvero programmatico e storicamente significativo, perché, invece, sono stati calcolati almeno ventisei casi in cui nella scorsa legislatura i voti degli Sverigedemokraterna sono stati utilizzati. Ma, appunto, questo era semplicemente una conseguenza della stabilità indotta dal parlamentarismo negativo: non potendo ribaltare il governo a cui si opponevano, gli Sverigedemokraterna trattavano soluzioni singole in cambio dei propri voti. Ben diverso sarebbe usare questi stessi voti per ribaltare un governo di maggioranza relativa come sopra descritto. Per fare questo occorrerebbe un certo coraggio, specie appena dopo una campagna elettorale in cui particolarmente forte è stata la retorica nazionalpopulista, ormai impiegata senza freni. Questo è vero per diverse ragioni. Innanzitutto, fra i partiti “borghesi” ce n’è almeno uno per il quale l’uso dei voti xenofobi sarebbe davvero temerario: il Centerpartiet. Questo “centro” liberale di derivazione agraria ha guadagnato abbastanza (meno di quanto si ipotizzava), ma, a giudicare dai flussi finora disponibili, ha ottenuto questo risultato proprio in virtù di una chiara presa di posizione: “mai con gli Sverigedemokraterna”. Ora, gli esponenti del Centerpartiet potrebbero replicare che stanno solo facendo il proprio dovere nell’abbattere l’esecutivo di Löfven, ma quest’ultimo potrebbe già da subito coglierli in una prima contraddizione.
È ancora assordante il frastuono delle polemiche elettorali suscitate dalle dichiarazioni del leader Sverigedemokraterna Jimmie Åkesson nel dibattito televisivo più seguito: “gli immigrati non vanno bene semplicemente perché non sono svedesi, perché non sono adattabili alla Svezia”. Ma questa contraddizione aprirebbe subito ad una seconda più insidiosa: abbattere il governo Löfven potrebbe solo essere finalizzato a fare un governo almeno con l’appoggio Sverigedemokraterna.
Tutto può succedere, sia chiaro: nella politica nordica si è assistito a conversioni clamorose ogni volta che l’egemonia socialdemocratica è declinata. Ed è proprio questo il caso, nonostante il risultato di questo partito sia migliore del previsto ed anzi il partito si sia affermato come ancora nettamente il più grande, con i liberalconservatori Moderaterna scesi di più, al di sotto del 20%. Ma, appunto, nella dialettica del contesto storico, istituzionale, elettorale e costituzionale che abbiano sommariamente delineato, il Centerpartiet farebbe già una prima forzatura ad abbattere Löfven.
E cosa succederebbe in seguito? Le forze parlamentari dovrebbero indicare un diverso nominativo con il presidente del Riksdag (come si è capito il re non ha proprio alcuna funzione, nemmeno notarile come a Copenaghen, dove infatti questa prassi si chiama “dronningerunde”: giro di regina) con l’idea che sarebbero intenzionati a votare a favore o a non opporsi, almeno al suo insediamento. Quelli del Centerpartiet entrerebbero in una contraddizione ancora più stridente se indicassero, solo a quel punto, Löfven. Se non intervenissero novità particolari, ciò non avrebbe senso: Löfven ha già detto che vorrebbe spaccare la ex coalizione borghese, e fare un governo col Centerpartiet, quindi il consenso di questo partito a tale ipotesi dovrebbe logicamente manifestarsi già prima. Oppure esso dovrebbe rassegnarsi a perdere i voti di centro-destra contrari agli xenofobi, appena guadagnati, sostenendo un governo per esempio dei Moderaterna al pari dei nazionalpopulisti. Questa soluzione non sarebbe pacifica, al momento, nemmeno per i Moderaterna. Infatti, la signora Kingberg Batra, che guidava questo partito fino a poco tempo fa, aveva tentato l’avvicinamento organico ai nazional populisti, vedendo subito le proprie fortune sondaggistiche calare vistosamente, a favore dei liberali centristi del Centerpartiet, ma non tanto più in basso del risultato effettivo appena ottenuto: il 19% circa, per essere poi spodestata. Perciò Ulf Kristersson, il nuovo leader Moderaterna, dirigendo ipoteticamente un governo in cui il rapporto con gli Sverigedemokraterna sarebbe non solo una strategia, ma un fatto, si spingerebbe in acque inesplorate e nemmeno mappate.
D’altro canto, va detto che lo stesso percorso è stato attraversato dai partiti borghesi di tutti gli altri paesi nordici, con il risultato che da un lato la nuova destra è divenuta digeribile, e dall’altro i suoi temi sono divenuti centrali. La Svezia potrebbe probabilmente andare in analoga direzione (sul piano del dibattito e dell’ordine del giorno politico è già così da tre anni) ma l’esperienza dice che per passare questa strettoia storico-politica occorre inventarsi qualcosa. Vale la comparazione danese: nel 2001, ad esempio, alle classi medie e popolari che già allora avevano decisamente preso a spostarsi sul nazionalpopulista Dansk Folkeparti, liberali e conservatori danesi concessero restrizioni all’immigrazione enormi e fino ad allora impensabili, nonché una politica fiscale che passava dai tagli “thatcheriani” (in cui il primo ministro liberale Fogh Rasmussen aveva creduto fino a quel momento) ad una strategia di “crescita zero” delle tasse. Secondo questa “norma” le tasse nel loro complesso non potevano crescere, anche se alcune potevano essere tagliate a favore di altre.
Insomma si inventò un modo per poter “pagare” la rappresentanza di interessi curata dai nazionalpopulisti, permettendo così loro di detenere quote di voto ex socialdemocratico utile per perpetuare la maggioranza borghese, ma continuando in sostanza ad abbattere il welfare. Un abbattimento regolato da alcune norme centrali deflative, di stampo quindi ordoliberale, che causava lo spostamento anche dei modelli nordici verso questa ideologia tedesca.
Il punto è che questo abbattimento ha ormai, in Danimarca come in Svezia come dovunque, quindici anni di più, e causa perciò un triplicato livore per la disuguaglianza in crescita. Per tale motivo i calcoli tattici ed elettorali dei partiti borghesi di Danimarca si sono infranti sui meccanismi storici-sociali fondamentali: abbattendo il welfare e l’eguaglianza salariale (cioè sia la redistribuzione sia la distribuzione primaria) non si danneggiano solo i risultati elettorali socialdemocratici, e non avviene affatto la definitiva sterilizzazione postideologica della questione sociale, né delle classi. Al contrario si determina il suo culmine, e le classi medie come sempre sono l’acme di tale culmine: per questo la destra borghese è nei guai quanto e più della socialdemocrazia, e in Svezia in modo più perspicuo.
La socialdemocrazia alle prese con l’erosione del modello nordico
Da quanto si è visto, infatti, mentre in Danimarca i nazionalpopulisti abbiano imposto il proprio ordine del giorno con gradualità, venendo intanto normalizzati, in Svezia l’impatto è stato invece più temporalmente compresso e rapido, e il sistema politico/partitico consolidato si presenti ancora, come si vede, privo di soluzioni. In Svezia il danno potrebbe accentuarsi se dall’impasse parlamentare che abbiamo descritto scaturissero fasi tali da non risolvere le ragioni sociali di ciò che sta avvenendo. Infatti, dalle tatticissime finte e controfinte in atto oggi sul palcoscenico di Stoccolma potrebbero scaturire tre soluzioni per la socialdemocrazia.
Mercoledì 12 settembre il centro-destra ha tentato una controfinta iperpoliticista, affermando che se si vuole tagliare fuori gli Sverigedemokraterna, i socialdemocratici devono a loro volta tagliare l’altra estrema (il postcomunista e rosso-verde Vänsterpartiet, che ha avuto un buon successo elettorale con il popolare leader Sjöstedt). Questo conduce alla prima soluzione: si tratterebbe in sostanza di rinunciare all’idea di “blocco rosso-verde di maggioranza relativa”, dimettersi come governo, rassegnarsi a vedere nascere un esecutivo di centro-destra e riproporre a parti invertite il “compromesso di dicembre”, ovvero rinunciare ad utilizzare i voti di estrema destra ed estrema sinistra per abbattere la legge finanziaria che sarebbe proposta dal nuovo governo borghese.
Come detto sopra invece – e questa sarebbe la seconda soluzione – Löfven mira a rompere i blocchi per una collaborazione trasversale che coinvolga almeno il partito detto Centro (Centerpartiet). Ma un rapporto di governo con i liberali centristi è stato già nefasto per molti socialdemocratici, ad esempio per i vicini compagni di Copenaghen. Finché questi ultimi hanno governato assieme a qualcosa di analogo al Centerpartiet (cioè Radikale Venstre, dal 2011 al 2015) essi non hanno potuto invertire l’erosione del modello sociale nordico (anzi) né quindi la propria stessa erosione, né quella dell’intero sistema politico-sociale. Oggi la socialdemocrazia svedese si accingerebbe al medesimo passaggio: il Centerpartiet li costringerebbe a limitare moltissimo gli ingenti stanziamenti in welfare promessi in campagna elettorale, cioè a rimangiarsi la forte accentuazione di linea, rispetto alla condotta di governo, grazie a cui si sono risollevati da una sconfitta più amara, in più distanziando i Moderaterna. E ciò accadrebbe, appunto, avendo nel frattempo raggiunto un livello di malcontento sociale ancor più acuto di quanto non dovesse affrontare la socialdemocrazia danese nel 2011, alla fine di un decennio governato dal centro-destra. È molto verosimile che ciò accentuerebbe il passaggio rabbioso di classi medie ed operaie ai nazionalpopulisti, facendo comunque calare i consensi del governo socialdemocratico-centrista che stiamo ipotizzando. E questo poi fornirebbe al resto del centro-destra borghese, che sarebbe rimasto all’opposizione, la giustificazione agognata per utilizzare i voti degli Sverigedemokraterna: l’assenza e l’accresciuta impopolarità di ogni alternativa.
La terza possibilità socialdemocratica, diversa ed opposta a queste due appena delineate, nasce dalla relazione fra i fenomeni di erosione del modello nordico e il successo dei nazional-populisti, confermata da ottimi studi, uno degli ultimi appena pubblicato sul giornale non certo socialdemocratico di Stoccolma Dagens Nyheter.
Sarebbe il caso di ritornarci in modo più approfondito, ma si può per ora concludere con quello che potrebbe essere un punto dal quale ripartire: i centri studi della sinistra sindacale di area LO paiono individuare un ritorno della tematica di classe. Una grande massa di svedesi vede tornare una società di classe, il sociologo di fama mondiale Göran Therborn lo conferma con i suoi studi maturi, tornando in patria dopo decenni passati nelle maggiori università del mondo. E i dati di polarizzazione sociale impressionano da lustri anche in Svezia. Si tratterebbe ora di rappresentare in modo stabile tutto questo, al di là delle formule di governo o di opposizione che si renderanno necessarie.
Si tratterebbe qui di intendere la rappresentanza in modo stabile e strategico, non di procedere a soluzioni emergenziali di recupero elettorale. Con l’antenato del Centerpartiet la socialdemocrazia ribaltò, a partire dal 1934, la povertà e l’elitismo della società svedese. Si trattò però di un grande patto fra classi operaie ed agrarie, che rovesciò un sistema che si trovava nel mezzo della grande crisi degli anni Trenta, non di un – peraltro piccolo – fronte “antipopulista”, lontano da troppi ceti in difficoltà, e incapace di fare egemonia.