Recensione a: Adelino Zanini, Invarianze neoliberali. A proposito di Michel Foucault, Postfazione di Geminello Preterossi, Derive Approdi, Bologna 2024, pp. 176, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Tommaso Cerutti
5 minuti di lettura
Con questa riedizione «riveduta e corretta» del suo precedente saggio sul Foucault “economico”, Adelino Zanini procede col lavoro di pulizia concettuale iniziato con la stesura del volume sull’ordoliberalismo – Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973) –, rispetto al quale, come avverte l’autore nella premessa, la sua nuova fatica si pone in funzione dialogica. Invarianze neoliberali vede infatti il terzo capitolo – centrale ai fini della trattazione – riscritto alla luce degli strumenti acquisiti dall’autore attraverso lo studio approfondito dell’opera di alcuni dei principali economisti tedeschi vissuti a cavallo della metà del secolo scorso.
Terminato il poderoso lavoro sulla pars construens, Adelino Zanini può così tornare alla pars destruens con maggiore consapevolezza, andando alla radice della critica portata avanti dal mondo intellettuale di sinistra nei confronti del “neoliberalismo”. Argomento, questo, quanto mai cruciale nel dibattito politico europeo contemporaneo, come sottolineato dalla postfazione di Geminello Preterossi, a cui vengono demandati oneri e onori del momento prescrittivo, a partire dall’opera di analisi descrittiva portata avanti da Zanini. E, forse, il maggior limite di un tale tentativo di attualizzazione ‒ al di là dei giudizi espressi, che rimangono inevitabilmente confinati alla sfera della soggettività personale ‒ è la sottovalutazione del binomio nazione/federazione rispetto a quello politico/economico. Sebbene assente nel discorso foucaultiano, la prima coppia concettuale sembra essere infatti non solo più cogente alla luce degli ultimi eventi che hanno caratterizzato la vita del continente, ma anche fortemente interrelata con la seconda. Inoltre, introdurre il problema del federalismo avrebbe permesso una maggiore problematizzazione del pensiero del filosofo francese, evidenziando elementi di continuità tra neoliberalismo ‒ si pensi alle visioni europeistiche di Lionel Robbins, Luigi Einaudi e Wilhelm Röpke ‒ socialdemocrazia ‒ con riferimento alla galassia azionista/socialista italiana di Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi ‒ e cristiano-cattolici ‒ veri protagonisti della «ricostruzione dell’Europa borghese», ispirata alla rifondazione di quella res publica christiana cancellata dall’avvento degli Stati nazione ‒, rispetto alla rigida dicotomia tra keynesismo e neoliberalismo.
In base a quanto detto finora, possiamo introdurre tre ordini di problemi. Il primo ci permette di rispondere alla domanda: quale neoliberalismo? Quello che sembra un concetto confuso nel dibattito odierno assume infatti maggiore chiarezza se si guarda all’analisi portata avanti da Foucault, prodromica per ogni discorso critico successivo. Come sottolineato da Zanini nel capitolo che fornisce il titolo al volume, al di là di qualche anacronistica sovrapposizione tra tedeschi, austriaci e scuola di Chicago, centrale nella riflessione del filosofo francese rimane il confronto con l’Ordoliberalismus, descritto come controparte continentale dell’anarco-liberalismo yankee, semplificando brutalmente le differenze esistenti all’interno dell’internazionale liberale formatasi dopo il colloquio Walter Lippmann del 1938 e aggregatasi nel secondo dopoguerra intorno alla Mont Pelerin Society.
E qui veniamo al secondo ordine di problemi: l’incidentalità del discorso sul neoliberalismo in Foucault, per il quale esso risulta strumentale a introdurre una più estesa riflessione sul potere nel mondo contemporaneo. A tal proposito, il filosofo francese nel corso Nascita della biopolitica, introducendo la lezione del 7 marzo 1979, si scusa con l’uditorio: «Vorrei assicurarvi che, malgrado tutto, all’inizio avevo intenzione di parlarvi di biopolitica, poi però le cose sono andate diversamente e mi sono ritrovato a parlare a lungo, forse troppo a lungo, del neoliberalismo, e precisamente del neoliberalismo nella sua forma tedesca». In proposito, Zanini mette in luce come il confronto con la political economy sia cruciale in Foucault per sviluppare il concetto di “governamentalità”, decisivo per descrivere il passaggio, avvenuto nel XVIII secolo, da regimi politici fondati sulle «strutture della sovranità» a regimi in cui a contare sono le «tecniche di governo». In questo nuovo scenario, non è più importante assicurare la disciplina sugli individui ma piuttosto garantirne la sicurezza: la police si trasforma così nello strumento attraverso cui creare utilità pubblica per mezzo dell’attività degli uomini, mentre dall’altra parte diventa fondamentale il processo di autolimitazione razionale dell’azione di governo. Risulta più chiara a questo punto la scelta di confrontarsi con l’Ordoliberalismus, che Zanini, in altro luogo, ha definito come vera e propria “scienza dello Stato”. Per gli autori della Scuola di Friburgo era infatti fondamentale che la concorrenza e il mercato fossero assicurati attraverso la forza del diritto, registrando il fallimento di una regolazione “naturale” degli stessi, tendente al contrario alla creazione di cartelli e monopoli.
Arriviamo così al terzo ordine di problemi, ovvero l’incomprensione di fondo del keynesismo che Zanini rileva nel discorso di Foucault. Ad avviso di chi scrive, il motivo di tale incomprensione non è da registrarsi tanto nell’interpretazione dell’interventismo statale degli anni 1930-1950, che tende ad assimilare le esperienze degli Stati democratici al planismo autoritario, non riconoscendo, come rilevato da Preterossi, una “terza via” propria dello Stato costituzionale novecentesco. Piuttosto andrebbe osservato come le teorie di Keynes, così come il Rapporto Beveridge e il New Deal, costituiscano l’altra faccia della riflessione neoliberale, non solo perché nate all’interno della stessa tradizione culturale, ma soprattutto perché rispondenti alla medesima domanda, posta da un lato dalla definitiva crisi dello Stato liberale ottocentesco, innescata dal processo di massificazione della politica verificatosi all’inizio del secolo scorso, e dall’altro dai problemi di governo dell’economia messi in luce dalla crisi del 1929. La riflessione foucaultiana, se si guardano gli estremi cronologici utilizzati da Zanini (1967-1979), appare quindi fuori tempo massimo, applicando strumenti analitici appartenenti a un mondo ormai passato per interpretare il periodo di transizione che l’Europa e più in generale l’Occidente stavano vivendo in quegli anni. Le nuove questioni messe sul tavolo dalla crisi del Welfare State e dal repentino cambio di paradigma da un modello di produzione fordista a uno centrato sull’informazione vengono ideologicamente lette nell’ottica del trionfo delle «logiche neoliberali», fatto massimamente evidente nel giudizio dato della presidenza Giscard d’Estaing, che si era distaccata dalla tradizionale politica dei piani francese, dominante nel corso della Quarta Repubblica e del precedente periodo gollista.
Da questo punto di vista, andrebbe sottolineato come l’ordoliberalismo non costituisca una semplice evoluzione del liberalismo classico, in cui alla sottrazione dell’azione di governo si sostituirebbe un interventismo teso a mantenere l’economia di mercato, ponendo al centro non più l’homme de l’échange ma l’homme de l’entreprise. Una tale visione, come illustrato da Zanini, sottovaluta la critica radicale al modello dell’homo oeconomicus manchesteriano portata avanti da questi autori, che ci sembra rappresentata al meglio ‒ piuttosto che dall’interesse per la Vitalpolitik di Alexander Rüstow ‒ dall’attenzione per le esigenze spirituali dell’uomo presente nell’opera di Röpke, il cui pensiero, non a caso, risulta fortemente influenzato dal cattolicesimo politico, finendo per avere punti di contatto, ad esempio, con il personalismo di Jacques Maritain. La critica ai piani Beveridge mossa da Röpke risulta così finalizzata non tanto a negare l’esistenza di una politica sociale che faccia da contrappeso agli effetti del mercato concorrenziale, privilegiando la privatizzazione e garantendo la sicurezza degli individui attraverso lo sviluppo economico, ma piuttosto a contestare i processi di statalizzazione e centralizzazione a essa connessi, nel tentativo di difendere forme di gestione del potere decentrate.
Il cortocircuito più evidente che emerge dalle pagine di Zanini risulta essere in questo senso legato alla dinamica stessa della fondazione del potere negli autori ordoliberali e in Foucault, il cui pensiero viene ancorato nel capitolo introduttivo alla riflessione strutturalista e costruttivista a lui contemporanea ‒ non a caso l’autore nega in chiusura una qualsiasi tentation libérale del filosofo francese. Zanini sottolinea come, nonostante il tentativo di smarcarsi dalla dimensione puramente economicistica propria del marxismo, Foucault non riesca a superare la dinamica del dominio di una classe sull’altra, finendo per interpretare il conflitto sociale come una continuazione della guerra con altri mezzi. In questo modo, lo scontro politico si riduce a una mera riproposizione dei rapporti di forza cristallizzatisi in seguito a un momento “emergenziale” originale, volendo riprendere il paragone con Carl Schmitt introdotto da Preterossi nella postfazione. Nulla di più distante dall’ottica propria del liberalismo ‒ “neo-” e non ‒ in cui a prevalere è la logica formale-procedurale propria del contrattualismo, alla cui base risiede il mutuo riconoscimento tra le parti. Da qui l’interpretazione di Bad Godesberg, visto come momento di sottomissione da parte della SPD alle dinamiche di potere neoliberali imposte dalla democrazia cristiana tedesca, piuttosto che di definitiva accettazione di regole del gioco condivise in cambio della rinuncia al vecchio armamentario rivoluzionario, nell’ottica di quello che in Italia venne definito da Carlo Rosselli «socialismo liberale».
Come rilevato da Adelino Zanini, è in questa concezione del politico che si inserisce la riflessione foucaultiana sull’economico, ed è qui che risiede la radicalità del pensiero del filosofo francese e, forse, la sua pericolosità intrinseca, come testimoniano alcune pagine scritte negli anni Novanta da Bernard-Henri Lévy sul mito della rivoluzione cambogiana e il Sessantotto francese. Sovrapponendo questo sguardo prospettico alla nostra contemporaneità, potremmo sostenere che l’attuale critica al modello economico esistente nasconda una frattura più profonda e che, con buona pace dei cantori della «fine della storia», la sfida apertasi nel secolo scorso tra la «società aperta e i suoi nemici» non possa essere confinata a uno scontro tra ideologie ormai conclusosi, ma sia ancora pienamente in atto.