Israele a 70 anni dal 1948
- 18 Maggio 2018

Israele a 70 anni dal 1948

Scritto da Davide Bellomo

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Dal conflitto per l’indipendenza dello Stato di Israele, che scoppiò tra il 14 e 15 maggio del 1948 dopo l’invasione degli Stati arabi vicini, sono trascorsi ben 70 anni. Sebbene sia passato ormai molto tempo e più volte si sia tentato di trovare una soluzione ai numerosi nodi lasciati aperti da quegli eventi, le cicatrici rimangono ben visibili ancora oggi. Le divisioni tra la maggioranza degli ebrei israeliani e la comunità araba, che costituisce all’incirca un quinto della popolazione totale del paese, sembrano ogni anno essere sempre più pronunciate.

Un’ampia dimostrazione di questo si è registrata proprio nel corso dell’ultima ricorrenza del giorno dell’indipendenza, fissata lo scorso 18 aprile. In risposta ai festeggiamenti dell’anniversario che si sono svolti nelle maggiori città israeliane, infatti, è stata indetta una “Marcia del Ritorno” nel centro costiero di Atlit, cui hanno partecipato molti membri della minoranza araba presente in Israele. Alla manifestazione era presente anche il deputato della Knesset Ayman Odeh, presidente della cosiddetta Lista Comune, partito di rappresentanza della comunità araba d’Israele. Le sue dichiarazioni, rilasciate alla testata Al-Monitor, sintetizzano in maniera abbastanza efficace il cuore del problema attorno alle festività da poco celebrate.

In sostanza, quello che per la maggior parte degli israeliani costituisce un giorno di festa, per la minoranza araba risulterebbe “un’autentica tragedia nazionale, una catastrofe”. Non a caso, gli avvenimenti del 1948-49 vengono riassunti dalla popolazione araba con il termine naqba: “catastrofe”, appunto.

Interessante è notare il dibattito storico-politico che si è creato riguardo le diverse narrazioni delle vicende legate alla guerra d’indipendenza israeliana e gli effetti a lungo termine che ne sono poi seguiti. Vero e proprio spartiacque per tutto il Medio Oriente, il conflitto è stato spesso rappresentato come una lotta essenzialmente impari, dove a fronteggiarsi erano il piccolo Stato appena nato all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e gli eserciti (preponderanti per numero di effettivi) degli Stati arabi circostanti: Egitto, Regno di Giordania, Siria, Libano e Iraq. Il tutto, nato dal consolidamento della presenza ebraica in Palestina e dal rifiuto, da parte della comunità araba-palestinese, della risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del novembre 1947, la quale prevedeva la formazione di uno Stato ebraico e di uno a maggioranza palestinese legati da un’unione economica, nonché di un regime di controllo internazionale per la città di Gerusalemme, da sempre oggetto di contesa tra i due schieramenti.

Nonostante queste prescrizioni, tuttavia, la diplomazia sionista fu tra le prime ad accettare il risultato dei lavori dell’ONU, valutando il tutto come una inequivocabile legittimazione del nuovo Stato ebraico, per cui combatteva ormai da anni. Il progetto del movimento sionista, avviato sin dagli ultimi anni del secolo precedente quando aveva favorito l’ingresso in Palestina dei migranti ebrei provenienti da tutta Europa (andando anche contro le limitazioni imposte dal governo mandatario britannico negli anni Venti e Trenta), vedeva finalmente il suo coronamento, con tanto di appoggio della comunità internazionale.

D’altro canto, questo processo provocò anche l’emergere di un nazionalismo di matrice arabo-palestinese, che mal sopportava l’espansione della componente ebraica e la sua acquisizione di terreni a scapito dei locali, i quali tendevano ad identificarsi come i soli e legittimi occupanti della regione. A maggior ragione quando tra i progetti dei nuovi arrivati si insinuò l’idea di costruire uno Stato a maggioranza ebraica. Di qui il rifiuto più assoluto dei palestinesi nei confronti della risoluzione, sotto la guida del gran muftì di Gerusalemme Hajj Amin al-Husseini.

 

La controversia degli storici

Il dibattito sugli episodi del 1948-49 è stato particolarmente sentito a livello storiografico. Dai molti punti controversi del primo conflitto arabo-israeliano è scaturita, proprio in Israele, quella che viene chiamata in ebraico Machloked HaHistorinim, o “controversia degli storici”. L’importanza di questo dibattito risiede nella sua ricaduta in ambito politico, poiché va a colpire alcuni punti chiave del mito identitario che è alla base della struttura stessa dello Stato ebraico.

Storici come Benny Morris, Avi Shlaim e Tom Segev – per citarne solo alcuni – sono tutti nati a ridosso o dopo gli eventi del 1948 e non hanno vissuto sulla propria pelle il processo di nation-building. Il che, a detta di molti, li spingerebbe a una lettura maggiormente imparziale e allo sviluppo di uno spirito fortemente critico nei confronti del loro paese natio. Partendo da un’analisi attenta del rapporto di Israele con i popoli arabi, insomma, è inevitabile toccare alcuni nervi scoperti della storia israeliana potenzialmente in grado di riformulare quelle che sono state finora le direttrici della politica dello Stato.

La rilettura, innanzitutto, coinvolge alcuni aspetti strettamente strategici e militari, come quello del presunto sbilanciamento delle forze in campo. Abitualmente raffigurate come inferiori dal punto di vista numerico, nel maggio del 1948 le forze di autodifesa dell’Yishuv ebraico, l’Haganah (“La Difesa” organizzazione paramilitare attiva durante il Mandato britannico alla base delle future Forze di Difesa Israeliane) potevano contare già su 35000 effettivi, che crebbero sensibilmente nel corso del conflitto, fino ad arrivare ad un picco di 96441 nel dicembre dello stesso anno. Senza contare, poi, le forniture di armamenti provenienti dalla Cecoslovacchia e la qualità dell’addestramento degli uomini nelle fila dell’Haganah, i quali avevano già servito al fianco degli inglesi durante il conflitto mondiale appena concluso ed erano, quindi, addestrati ad affrontare un conflitto convenzionale in linea con la guerra moderna. In definitiva, le capacità materiali del neonato Stato ebraico non sembravano assolutamente in difetto rispetto alla controparte araba, la quale, dagli iniziali 28000, nell’ottobre del 1948 riusciva a dislocare in Palestina non più di 55000 uomini. Il successo di Israele nel primo conflitto arabo-israeliano, dunque, non sarebbe solo merito del naturale spirito di sopravvivenza della comunità ebraica, ma prima di tutto del vantaggio dal punto di vista militare.

A gettare nuova luce sulle vicende del 1948 vi sarebbe anche una rivalutazione della compattezza dello schieramento arabo. A fronte delle innumerevoli carenze dal punto di vista organizzativo che caratterizzavano la resistenza palestinese – la quale, stando alle considerazioni dei nuovi storici, si presentava fortemente frammentata e non condivideva del tutto i metodi decisamente poco ortodossi del muftì – è importante spendere qualche parola sul rapporto degli Stati arabi intervenuti nel conflitto. In un’ottica tutt’altro che disinteressata, per i paesi limitrofi appena usciti dal sistema dei Mandati ciò rappresentava un’occasione d’oro per ridisegnare la geografia della regione ereditata dal periodo coloniale e acquisire un maggior peso in Medio Oriente, specialmente se si poteva veicolare una causa trasversale per il mondo arabo come lo era quella palestinese. Gli Stati arabi, dunque, erano sì attenti alla realizzazione dei propri interessi nazionali e territoriali, ma allo stesso tempo finirono per formare un fronte assai poco coeso.

Un esempio è costituito dal comportamento politico dell’allora re Abdullah di Giordania. Nella complessiva incapacità di stabilire un’unità d’intenti dal punto di vista politico e militare nel fronte arabo, molti degli sforzi erano rivolti a contenere i reciproci espansionismi. Già prima della risoluzione ONU del 1947 Abdullah aveva mostrato l’intento di acquisire la Cisgiordania durante l’incontro segreto con Golda Meir a Naharayim, in cambio della non interferenza nel processo di fondazione dello Stato ebraico. Inutile dire che il sovrano giordano fu in seguito costretto a schierarsi con il resto dei paesi arabi e ad impiegare la sua Legione Araba, specie dopo l’inasprirsi della situazione dovuto al contenuto della risoluzione 181. Ma, come si è appena detto, erano gli interessi dei singoli attori ad avere la priorità rispetto alla causa della resistenza palestinese. Dalla valutazione delle azioni sul campo, infatti, si può delineare la strategia politica di Abdullah, che concentra tutte le sue risorse solo nella West Bank, senza mai tentare di sfondare il confine e penetrare in quello che era il territorio assegnato a Israele dalla risoluzione 181. Una special relationship, quella tra Israele e Giordania, che regge nonostante tutto, anche in un momento di crisi come quello. Persino quando le IDF (Israeli Defense Force) tentano di sottrarre al controllo giordano punti strategici quali Latrun e Ramallah: la Legione Araba, incredibilmente, non tenta mai ritorsioni in territorio israeliano. Abdullah aveva obiettivi molto circoscritti e, di certo, non includevano la minaccia all’esistenza dello Stato ebraico.

L’esito del confronto militare, dunque, non sarebbe da ascrivere solamente dalle dinamiche operative del conflitto, ma anche e soprattutto alle divisioni interne allo stato maggiore arabo e alla reciproca diffidenza esistente nel fronte antisionista, che emergerebbe proprio dalla diplomazia del re Abdullah e dai suoi propositi espansionistici.

 

Israele e la questione dei rifugiati palestinesi

Al netto di tutte queste considerazioni, si possono distinguere già due punti chiave in grado di restituire una lettura radicalmente diversa da quella presentata dalla storiografia tradizionale israeliana. Ciò che si evince è uno Stato di Israele nient’affatto inferiore in quanto a capacità materiali e una coalizione araba dopotutto non così devota alla difesa incondizionata della resistenza palestinese, soprattutto quando andava a ledere gli interessi di uno o più Stati del suo schieramento. Una tendenza, quest’ultima, che si ripresenterà anche nelle successive guerre del 1967 e del 1973.

L’eredità più pesante del primo conflitto arabo-israeliano, tuttavia, è rappresentata dall’esodo della popolazione palestinese e dalla nascita del problema dei rifugiati, di cui ancora oggi si subiscono le conseguenze. La questione delle responsabilità dell’una o dell’altra parte rappresenta una vera e propria costante del dibattito storico e politico. Israele, dal canto suo, ha sempre respinto qualsiasi accusa venisse fatta in proposito, affermando che lo sfollamento della popolazione araba locale si sarebbe verificato in seguito a precise direttive provenienti dalla stessa leadership palestinese, che avrebbe appunto spinto per l’abbandono dei villaggi al fine di evitare agli sfollati di trovarsi intrappolati nel vivo delle operazioni militari. In breve, la soluzione del problema che anche oggi persiste spetterebbe ai soli Stati arabi. Di qui l’atteggiamento di rifiuto da parte di Israele verso la risoluzione 194 dell’Assemblea Generale ONU, che prevedeva il diritto al ritorno dei profughi del conflitto nelle loro terre oppure un risarcimento nel caso questi ultimi avessero scelto di rimanere nel paese ospitante.

È un punto, quello dell’esodo dei palestinesi, che più di tutti gli altri è direttamente collegato all’origine della naqba, la catastrofe a cui si riferiscono tutt’oggi i discendenti degli arabi che nel 1948 si videro costretti ad un esilio forzato, senza poter fare successivamente ritorno. A maggior ragione se una buona parte delle responsabilità si dovesse proprio alle politiche del governo israeliano, come viene evidenziato dai nuovi storici. Dal novembre 1947, come si è già detto, la situazione andava di giorno in giorno sempre peggiorando e le azioni di guerriglia da parte araba erano via via più frequenti. Per il governo di Ben-Gurion non vi era più spazio per una risoluzione politica, tanto che decise di appoggiare i vertici dell’Haganah e la loro strategia di “difesa aggressiva”.

Il piano Tokhnit Dalet (piano D) rappresentò il pilastro dell’offensiva dello Stato ebraico, il quale voleva procedere con la messa in sicurezza delle aree assegnate ad esso dalla risoluzione 181 e di tutti gli altri territori ritenuti strategici, come ad esempio le zone immediatamente a ridosso di Gerusalemme. Proprio con il piano D, tuttavia, il problema dell’esodo dei profughi palestinesi iniziò a manifestarsi, dopo che l’ingresso delle forze israeliane all’interno dei villaggi palestinesi causava i primi sgomberi. Nell’ottica della nuova storiografia, che si veda il piano D come un progetto politico deliberatamente volto all’espulsione della popolazione palestinese dai propri territori (questa, ad esempio, la lettura di Pappè) o si consideri quello dei rifugiati una conseguenza delle operazioni militari delle Israel Defense Forces (IDF), l’autoassoluzione da ogni responsabilità della leadership di Israele andrebbe, dunque, contro le evidenze storiche. Pur volendo respingere tesi che implicherebbero la premeditazione delle espulsioni, infatti, la ricerca da parte di Israele di soli obiettivi militari e territoriali e la conduzione di operazioni che includevano la cattura di interi centri abitati e, alcune volte, la loro distruzione, costituiscono una causa molto rilevante. Insomma, l’esodo dei rifugiati palestinesi sarebbe stato la logica conseguenza di una strategia militare aggressiva rivolta contro una resistenza che utilizzava i villaggi come basi (elemento abbastanza comune in tutti i gruppi di resistenza). Il tutto a vantaggio dello Stato ebraico, che alla fine del conflitto incrementava il territorio sotto il proprio controllo del 24% rispetto al piano di spartizione originario.

Le cifre sull’esodo sono ancora oggi le più diverse. Si spazia dai 250.000-300.000 profughi degli storici israeliani tradizionali ai circa 900.000 della storiografia araba. Per contro, i nuovi storici stimano circa 700.000 rifugiati, gli stessi contati anche dall’UNRWA (United Nations Relief and Work Agency). Lasciando da parte i numeri, è indubbio che l’esodo palestinese divenne un fattore propulsivo importante per i successivi confronti, aprendo la strada per la formazione dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), resistenza in esilio che rappresentava più un problema che un vanto per gli Stati arabi. Questi ultimi, infatti, oltre a doversi occupare delle condizioni precarie in cui versavano i rifugiati palestinesi all’interno dei propri confini – per la maggior parte stipati in veri e propri campi profughi che sopravvivono ancora oggi in paesi come la Giordania e il Libano – si trovarono a gestire le conseguenze delle continue incursioni dell’OLP a ridosso delle frontiere ai danni dei villaggi israeliani, che finirono per rappresentare un motivo di grande apprensione per gli Stati arabi dal momento che potevano esporli alle rappresaglie delle IDF.

 

Conclusioni

La “controversia degli storici” e il lavoro di analisi della nuova storiografia israeliana è tuttora in corso ed è destinato sempre più a crescere in seguito all’apertura di nuovi archivi di Stato. Fondamentale per le ricerche di storici come Benny Morris, Avi Shlaim e Tom Segev è stata sicuramente la serie di eventi che lo Stato di Israele vive negli anni Ottanta e Novanta: l’inquietudine vissuta nella società israeliana durante la tragica invasione del Libano del 1982, la prima Intifada del 1987, il riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte del leader dell’OLP Arafat avvenuto nel 1988 e l’avvio del processo di pace israelo-palestinese con gli Accordi di Oslo nel 1993 furono tutti momenti che rappresentarono un fattore propulsivo per riesaminare molti dei miti che ancora oggi plasmano la l’immagine che Israele ha di sé, attraverso una narrazione che deviava da quella della storiografia sionista tradizionale.

Tra questi occupano un posto di rilievo il 1948 e la guerra per l’indipendenza, per l’appunto. Come detto in precedenza, le nuove interpretazioni che emersero dalla visione dei documenti d’archivio coinvolsero prima di tutto la visione di Stato “assediato” con la quale Israele ha sempre descritto la propria condizione nel corso del conflitto. Stando alle osservazioni dei nuovi storici, la situazione andrebbe notevolmente ridimensionata alla luce del bilanciamento delle forze dei due schieramenti e delle divisioni presenti nello stato maggiore arabo, nonché della diplomazia israelo-giordana.

Cruciale per la ridefinizione dell’identità israeliana e della concezione di sé alla base dello Stato di Israele è, infine, il punto riguardante le responsabilità circa l’esodo dei profughi palestinesi dalle proprie terre durante la guerra, che rimane ad oggi una questione irrisolta. Gli stessi nuovi storici sostengono diverse versioni sull’accaduto, ma sia che si sia trattato di un vero e proprio master plan con il preciso scopo di cacciare i palestinesi dai territori conquistati con la forza, oppure di un tragico effetto delle operazioni militari israeliane, di certo le responsabilità dell’accaduto non si possono totalmente imputare alla leadership araba.

La risoluzione 194 dell’Assemblea Generale ONU, che garantisce il diritto dei profughi palestinesi del 1948 a tornare nelle loro terre d’origine, viene tutt’oggi rifiutata dalla leadership israeliana, la quale dimostrò una certa intransigenza su questo punto sin dalle trattative per la pace che seguirono il conflitto stesso. Concedere un simile diritto, d’altronde, avrebbe significato aprire anche ad una consistente restituzione dei territori appena conquistati, il che non rientrava certamente tra le priorità dell’allora premier israeliano Ben Gurion. Israele doveva essere uno Stato con un’indiscussa maggioranza ebraica e il rientro di più di mezzo milione di sfollati arabi venne ritenuta un’eventualità da scongiurare con qualsiasi mezzo.

La narrazione suggerita dai nuovi storici, dunque, rispecchia la necessità di trovare dei punti di contatto con i nemici di sempre (i palestinesi e gli arabi) tramite la decostruzione dei miti e delle certezze su cui lo Stato di Israele ha sempre basato la propria identità nazionale. La ricaduta politica della loro analisi, infatti, deriva proprio da una proposta storiografica che si avvicini il più possibile ai fatti così come si sono svolti e in cui anche l’avversario (l’arabo-palestinese) si possa riconoscere. L’adozione di una simile visione degli eventi, infatti, potrebbe aprire la strada ad un vero e proprio rinnovamento dell’identità israeliana, che invece ancora oggi appare incentrata sull’assoluta negazione delle ragioni storiche del problema palestinese.


Bibliografia

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Pappé, I., Post-Zionist critique on Israel and the Palestinians. Part I: the academic debate, Journal of Palestine Studies, XXVI, 2, 1997

Shlaim, A., Collusion across Jordan: King Abdullah, the Zionist movement and the partition of Palestine, Columbia University Press, New York, 1988

Shlaim, A., The iron wall: Israel and the Arab world (2nd ed), W. W. Norton & Company, New York, 2014

Scritto da
Davide Bellomo

Classe 1992, ha da poco conseguito la Laurea Magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Bologna. Da sempre interessato a tematiche di politica ed economia internazionale, in particolare al Medio Oriente.

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