Recensione a: Ernesto Sábato, L’altro volto del peronismo, a cura di Alessandro Volpi, Rogas Edizioni, Roma 2021, pp. 112, 11,70 euro (scheda libro)
Scritto da Enrico Cerrini
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Rogas Edizioni ha recentemente avviato la collana Inciampi, diretta da Geminello Preterossi, professore di Filosofia del diritto e Storia delle dottrine politiche all’Università di Salerno, oltre che direttore della rivista La Fionda. Dopo il primo volume Contro Golia, la collana propone il saggio L’altro volto del peronismo scritto nel 1956 dall’intellettuale argentino Ernesto Sábato (1911-2011), in una versione curata e tradotta da Alessandro Volpi, dottorando in Filosofia politica e del diritto. Il saggio si presenta come una lettera aperta indirizzata all’intellettuale nazionalista Mario Amadeo.
Dopo aver abbandonato il Partito Comunista Argentino in cui aveva militato in gioventù, l’autore si è unito al campo largo che componeva l’opposizione al regime di Juan Domingo Péron, destituito il 19 settembre 1955. L’opposizione al demagogo spaziava dalla sinistra comunista e socialista fino ai nazionalisti, tra cui Mario Amadeo, autore del libro Ayer, hoy, mañana, in cui esprimeva il punto di vista di chi aveva supportato inizialmente il peronismo per poi distanziarsene lentamente. Nel suo saggio, Ernesto Sábato ribatte con lo sguardo di chi è stato sin da subito critico con il regime, perché non ne tollerava gli abusi e le violenze. Al tempo stesso, prova a comprenderne il successo che ha avuto sulle fasce più povere della popolazione.
L’ispirazione arriva nel giorno della deposizione del dittatore. Mentre l’autore gioisce insieme a un amico in un albergo di Salta, ai piedi delle Ande, due governanti indigene piangono di tristezza. Sábato ricorda allora come le élite argentine, chiuse nel razionalismo illuminista, si siano rifiutate di interpretare le pulsioni recondite del popolo, culminando in ciò che l’autore definisce «lo storico divorzio».
Il risentimento
Ernesto Sábato individua nel risentimento delle masse argentine la principale ragione del successo del peronismo. Questo risentimento è nato durante la seconda metà dell’Ottocento, quando si palesò il rancore dei gaucho della pampa contro l’oligarchia esterofila di Buenos Aires e i ricchi agricoltori nordamericani, come narrato nel poema epico Martín Fierro. In seguito, l’immigrazione europea contribuì a formare gli arrabaleros, il proletariato urbano della grande Buenos Aires, assimilabili ai nostri borgatari. Questi ultimi, insieme agli indios, provavano risentimento per i potenti padroni delle piantagioni e degli zuccherifici.
Nella prima metà del Novecento, le masse si entusiasmarono per l’ascesa del partito radicale e la presidenza di Hipólito Yrigoyen. Malgrado lo spirito democratico e repubblicano interpretato da un governo che sostenne l’ampliamento dei diritti civili, il presidente si rivelò incapace di contrastare la corruzione, tanto da essere percepita dalle masse come male endemico del liberalismo. Nel 1930, un colpo di stato militare depose il presidente ormai anziano. Da quel momento, la situazione si avvitò e favorì lentamente l’ascesa di un oscuro colonnello che aveva compreso l’importanza della demagogia, Juan Domingo Péron.
Eliminato Yrigoyen, le masse persero la rappresentanza, perché non si palesava un leader in grado di esprimere le necessità della “gente comune”. Il partito socialista, ben radicato a Buenos Aires, faceva fatica a espandere la propria area di influenza. Guidato da una classe dirigente illuminista e razionale, non sembrava in grado di parlare ai lavoratori che si prefiggeva di rappresentare.
La sinistra argentina si dimostrava incapace di apprendere le lezioni intrinseche all’ascesa del fascismo e del nazismo. In particolare, i dirigenti socialisti dimostravano una fiducia infinita nelle possibilità del popolo di comprendere le intenzioni delle élite. Rifiutandosi di interpretare le masse, dimenticavano come proprio il popolo tedesco, uno dei più “razionali” al mondo, avesse generato il mostro hitleriano.
Al contrario, durante il suo soggiorno italiano, Péron aveva appreso queste dinamiche fino a sfruttarle a suo favore. Secondo Sábato, Péron è stato un demagogo che ha ipnotizzato le masse facendo leva sul risentimento popolare. Usando il termine ipnosi, l’autore rievoca un libro che, pur non citando mai, contribuisce a completarne le argomentazioni, ovvero Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Qui Sigmund Freud analizza, tra l’alto, il sentimento di unione che lega i soldati di fronte al generale. Freud ritiene che i componenti della massa si identificano gli uni con gli altri grazie all’ammirazione che provano verso il capo. Nessuno di loro può agognare a diventare il preferito del capo, né può sostituirsi a esso, di conseguenza non si creano sentimenti di gelosia, ma forti pulsioni che portano la massa a seguire cecamente gli ordini del generale.
Se Péron sfruttava il risentimento per applicare le teorie freudiane, l’opposizione si adoperava per giustificare tali pulsioni. L’autore interpreta i dirigenti socialisti come i medici che si arrabbiano con quei pazienti il cui corpo non risponde alle cure. Le élite hanno apostrofato i sostenitori di Péron con i peggiori epiteti, che poi il demagogo ha machiavellicamente utilizzato con affetto. Il più celebre è certamente descamisados. Gli oppositori non comprendevano come quel movimento non fosse espressione solo dell’avidità umana, ma anche di sentimenti nobili, come l’ansia di giustizia sociale. In generale, non riconoscevano la natura duale dell’uomo, in grado di bassezze e grandezze, contemporaneamente angelo e bestia, Eros e Thanatos.
Le basi per una conciliazione nazionale
Nei capitoli finali, l’autore prova a stilare una serie di basi per una conciliazione nazionale. Sábato non può che mettere al primo posto la comprensione del popolo, puntualizzando come il regime peronista non abbia rappresentato solo demagogia e tirannia, ma anche il parziale avvento dei diseredati nella vita politica. Il secondo punto è il significato della parola libertà, che ben prima dell’avvento di Péron disorientava una popolazione operaia incarcerata a ogni tentativo di sciopero, mentre le forze politiche si riempivano la bocca di concetti nobili come libertà e giustizia. Inoltre, l’autore specifica che nella nuova argentina i sindacati dovranno essere indipendenti e non dovranno essere realizzate vendette o persecuzioni nei confronti dei peronisti.
L’autore mette anche il lettore in guardia dal non cadere nell’estremo opposto. Rimarca quindi come non sia possibile mettere sullo stesso piano peronisti e antiperonisti. In particolare, tutti gli antiperonisti dovrebbero essere trattati con rispetto, sentimento spesso assente negli articoli di settimanali nazionalisti come Azul y blanco. Sulle colonne del settimanale, gli avversari del nazionalismo sono automaticamente trattati come traditori che non credono nella nazione. Inoltre, Azul y blanco afferma di rivolgersi al “paese reale”, scadendo nello stesso dogma peronista, per cui solo il popolo è essenziale ed è impersonificato da una massa di diseredati.
Sábato ritiene queste affermazioni meschine, demagogiche e pericolose, oltre che false. L’Argentina era ed è composta anche da milioni di persone di classe media e alta, di intellettuali e artisti che sono anch’essi parte del popolo, e talvolta ne rappresentano gli spiriti migliori. Ricorda che la borghesia ha espresso personaggi che hanno lottato per una giustizia sociale di cui non avevano bisogno e soprattutto è riuscita a pensare la sua stessa fine con gli insegnamenti di Karl Marx.
Le lezioni per il presente
Con questo volume, la collana Inciampi approfondisce uno storico divorzio tra élite e popolo che risulta decisamente attuale. La lucidità con cui Ernesto Sábato descrive l’Argentina della prima metà del Novecento appare come specchio della nostra Europa contemporanea. La borghesia esterofila di Buenos Aires è sostituita dai burocrati di Bruxelles, mentre i partiti osservano le masse con spirito razionale, senza neanche provare a ripetere quelle operazioni pedagogiche che caratterizzarono l’opera della sinistra nel primo dopoguerra. Inoltre, non indagano sulle ragioni per cui sono emersi i vari populismi, trattati come fenomeni folkloristici che attraggono il sottoproletariato.
Lo scollamento tra élite e popolo sembrerebbe portare a una direzione simile al disastro argentino. Al tempo stesso, le istituzioni e i partiti borghesi non devono essere disprezzati in nome del popolo, che non è una semplice massa di ignoranti. Quando si criticano giustamente quei partiti che non escono dalle ZTL, si dovrebbe ricordare che un voto in periferia non vale di più di un voto in centro. La media borghesia che popola le grandi città non deve essere considerata avulsa dal popolo, soprattutto quando dimostra lungimiranza rivendicando la bontà di una tassazione sui grandi patrimoni o di altri interventi redistribuitivi, anche a costo di andare contro i propri interessi.