L’asso nella Manica. Joe Biden e i rapporti Regno Unito-UE
- 02 Gennaio 2021

L’asso nella Manica. Joe Biden e i rapporti Regno Unito-UE

Scritto da Carlo Mongini

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Una nuova corrente attraversa l’Atlantico, diversa da quella degli ultimi quattro anni. E smuove le acque della Manica, che separano – collegano? – Londra e Bruxelles. Per comprendere che rapporto sarà quello tra il Regno Unito e l’Unione Europea dopo Brexit, non si può dimenticare il ruolo giocato da Washington. Sia la Gran Bretagna che l’UE devono ricostruire i rapporti con gli Stati Uniti dopo i quattro anni di amministrazione Trump. Per farlo, potrebbero avere bisogno reciprocamente di riavvicinarsi.

La Gran Bretagna ha sempre pensato di avere una special relationship – un rapporto speciale – con Washington: di essere il suo partner più vicino, il suo braccio destro al di là dell’Atlantico. In certi casi, come tra il Presidente Ronald Reagan e il Primo ministro Margaret Thatcher, o Bill Clinton e Tony Blair, ci sono stati picchi di “passione”, ma non sono stati una costante. Tra il Presidente Trump e il Primo ministro Johnson non è né è mai stata una special relationship. Nonostante l’inquilino di Downing Street sia stato chiamato “Donald Trump britannico” dall’ex leader laburista Jeremy Corbyn e addirittura dal Presidente americano stesso, ci troviamo di fronte a due personalità e due progetti politici differenti. Soprattutto, ad aspettative molto diverse da quelle coltivate dal rispettivo partner.

È vero, Trump era entusiasta di Brexit perché in linea con il suo pensiero sovranista, ed è anche vero che apprezzava Johnson molto più di quanto gradisse il suo predecessore alla guida del partito conservatore e del governo, Theresa May. Tuttavia, dal Regno Unito l’amministrazione americana voleva che seguisse perfettamente gli obiettivi di Washington. Boris Johnson, al contrario, aveva bisogno di alleati commerciali a livello internazionale per non soccombere alle conseguenze di una hard Brexit. Negli Stati Uniti ha cercato un partner commerciale affidabile per lo scenario post-Brexit, ma in questo ambito Trump è tutto fuorché affidabile per via della sua politica dell’America First. Lo scorso luglio, i negoziati per trovare un accordo su dazi e tariffe tra Londra e Washington si erano arenati a causa della tassa britannica sui servizi digitali, che colpisce le multinazionali della Silicon Valley: per Mike Pompeo, Segretario di Stato USA, un punto fondamentale dell’accordo doveva essere la sua cancellazione. Anche l’iniziale avvicinamento nel 2019 del premier britannico alla Repubblica Popolare Cinese ha contribuito alle tensioni con l’amministrazione americana, insieme all’opposizione del governo Johnson all’inclusione della Russia nel G7 statunitense. Non c’è mai stato, quindi, completo allineamento tra i due leader.

Tra Stati Uniti e Unione Europea non c’è stata solo incomprensione ma quasi ostilità. Dopo gli iniziali tentativi di cooperazione con il partner atlantico, Bruxelles ha adottato un approccio più autonomo su spinta principalmente del Presidente francese Emmanuel Macron. Ai dazi imposti da Washington ha risposto con tariffe di ritorsione, all’uscita degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran ha replicato con un approccio conciliante, alla guerra commerciale americana con Pechino ha reagito promuovendo una propria agenda indipendente nei confronti del dragone asiatico. Il Presidente Trump non ha mai amato l’UE e ha cercato di indebolirla con il sostegno ai leader politici sovranisti, che a Bruxelles non sono mai piaciuti. Il risultato è stato l’allontanamento tra le due capitali e la crescente diffidenza dei cittadini europei nei confronti degli americani.

L’elezione di Joe Biden ha infuso speranza su entrambe le sponde della Manica. Boris Johnson trova un Presidente diffidente verso una hard Brexit, ma non verso il Regno Unito. Il Primo ministro ha ora l’occasione di portare avanti le trattative commerciali che con Trump sono state impossibili. Biden non avrà Johnson in cima ai propri pensieri: anzi, è stato critico della sua gestione di Brexit. Tuttavia, non ostacolerà i negoziati commerciali se il governo britannico rivedrà la propria agenda. Da Downing Street hanno già iniziato a lanciare segnali di buona volontà, rifiutando di introdurre dazi di ritorsione agli Stati Uniti dopo che l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) ha dato il via liberi ai Paesi dell’UE in seguito alle tariffe che Trump ha imposto in questi anni. Hanno delineato una proposta di ridurre le emissioni del 68% entro il 2030 (più del 55% che vuole raggiungere l’UE) per stabilire una leadership britannica nella lotta al cambiamento climatico – ma il cui risvolto pratico in termini di politiche e misure economiche deve ancora essere delineato. Soprattutto, visto che le critiche di Trump alla NATO non verranno dimenticate dalla nuova presidenza, Johnson ha voluto mostrare l’intenzione di rimanere il secondo contributore dell’alleanza con un aumento storico (£16,5 miliardi nei prossimi quattro anni) della spesa militare.

L’elezione di Joe Biden per Bruxelles è stata interpretata da molti – erroneamente – come se la “parentesi” Trump avesse fallito e potesse essere dimenticata. Non sarà così. Certamente Biden riporterà nelle relazioni internazionali la centralità dei valori liberali e democratici, che occupano un posto di primo piano nell’agenda europea. Per questo motivo, l’UE spera di ricostruire con la futura amministrazione americana un sodalizio democratico e democratizzante che espanda l’influenza occidentale nel mondo e dimostri la propria superiorità su modelli politici alternativi, quali quello cinese, per esempio. Ma Trump non è stato una parentesi. America First varrà anche per il nuovo presidente, perché, prima di intervenire sui fronti internazionali, gli americani dovranno risolvere i problemi interni, quelli creati dalla pandemia di Covid-19 e quelli latenti nella società statunitense in quanto tale. Come detto, rimarranno le criticità della NATO, rese esplicite da Donald Trump ma a lui preesistenti. L’appassimento dell’asse atlantico è dovuto anche allo spostamento dell’epicentro della politica estera americana nell’Oceano Pacifico sotto la presidenza Obama. Le relazioni transatlantiche dovranno essere rifondate per ravvivare il multilateralismo e un ordine mondiale basato sulle regole, pilastri del mondo occidentale in cui l’amministrazione Trump non ha mai creduto. Per questo motivo, Bruxelles non può illudersi che con Biden i rapporti tornino lineari come agli inizi del secolo fino a Barack Obama. Dovranno essere sciolti nodi irrisolti e riproposte prese di posizione multilaterali e condivise sui grandi rivali, Cina e Russia in primis.

Per questo, paradossalmente, nel tentativo di delineare il proprio rapporto con gli Stati Uniti, sia la Gran Bretagna che l’Unione Europea avevano bisogno di risolvere i problemi che le separavano. Boris Johnson ha cercato fino all’ultimo un accordo sui rapporti con Bruxelles dopo Brexit, dato che ne dipendono la sua affidabilità e la sua forza ai tavoli negoziali con Washington. Londra ha deciso di non imporre dazi sugli Stati Uniti dopo il via libera dell’OMC non solo per mostrarsi aperta al dialogo, ma anche perché poteva imporli solo fino al 31 dicembre 2020: la concessione dell’OMC, infatti, riguarda l’UE in quanto tale, in cui il Regno Unito viene per ora contato. Dal 1° gennaio 2021 non avrebbe alcun diritto come singolo Paese in questo senso. Se dagli Stati Uniti hanno apprezzato comunque il gesto, riconoscono anche che Downing Street non avesse grandi alternative. Per rinforzare la propria posizione negoziale, quindi, Londra ha dovuto evitare una hard Brexit. A questo si aggiunge, ovviamente, che dal punto di vista economico l’assenza di un accordo avrebbe avuto un impatto sul Regno Unito peggiore del Covid-19, secondo quanto detto dal governatore della Bank of England Andrew Bailey. Per riavvicinare l’altra sponda della Manica Johnson ha adottato strategie contrastanti. Da una parte, ha assunto l’atteggiamento dello “spaccone” per nulla intimorito dalla prospettiva di una hard Brexit, come quando ha minacciato di dispiegare la flotta della Royal Navy nella Manica nel caso fosse mancato un accordo. Dall’altra, ha fatto passi indietro su alcune prese di posizione assunte in precedenza, come quella dell’Internal Market Bill che violava l’Accordo di Recesso siglato da lui stesso con l’UE o la concessione sui diritti di pesca delle imbarcazioni europee in acque britanniche. La credibilità della minaccia di una hard Brexit ha spinto ad accelerare i negoziati e trovare un compromesso che il Primo ministro può presentare come una vittoria in patria: non saranno imposti dazi nel commercio con l’UE e l’accordo non sarà sottoposto alla sorveglianza della Corte di Giustizia europea, permettendo così a Johnson di sostenere di aver “liberato” la Gran Bretagna dal controllo giuridico di una potenza estera. Rimangono ancora punti irrisolti, come il commercio nel settore dei servizi, ma l’ebbrezza del recente successo ha posticipato questa preoccupazione agli inizi del 2021.

Per gli Europei, la presidenza Biden è una notizia positiva; tuttavia, l’agenda dell’UE sull’autonomia strategica europea non può essere messa da parte. Ma quanto è compatibile questa proposta con l’aumento dei contributi alla NATO, richiesto da Trump e non dimenticato da Biden? Il Presidente francese Emmanuel Macron è uno degli attori chiave in questa partita. È sempre stato molto netto sull’uscita della Gran Bretagna per motivi politici ed elettorali. Per quanto riguarda i primi, con l’uscita di Londra, il baricentro dell’UE si è spostato più a sud, verso l’Eliseo. Prima, Germania, Francia e Regno Unito erano i tre poli principali dell’Unione. Parigi spingeva per maggiore integrazione tra gli Stati membri, Londra si opponeva, e Berlino mediava. Senza la seconda, Parigi ha la possibilità di portare avanti il proprio progetto, e i risultati si sono visti: difficilmente il piano Next Generation EU sarebbe stato di questa portata – o, addirittura, difficilmente sarebbe stato creato – se a fare opposizione non ci fossero stati i Paesi Bassi ma il Regno Unito. I motivi elettorali invece riguardano i negoziati con Londra. Fare concessioni sui diritti di accesso alle acque britanniche da parte dei pescatori francesi sarebbe costato molto in vista delle elezioni presidenziali francesi del 2022. Tuttavia, una hard Brexit avrebbe proibito la pesca del tutto: per questo, Macron aveva bisogno di un accordo nonostante l’inflessibilità nelle dichiarazioni pubbliche.

Adesso, l’obiettivo del Presidente francese è l’autonomia strategica. Delineare una politica estera comune dell’UE è difficile, se non impossibile. Per questo motivo, potrebbe essere utile tenere la Gran Bretagna nell’orbita europea. La Germania, la Gran Bretagna e la Francia sono membri del cosiddetto gruppo E3, una piattaforma di cooperazione militare che negli anni è stata attiva, per esempio, nella gestione dei rapporti con l’Iran prima e dopo l’accordo sul nucleare, e che oggi promuove il coordinamento delle attività dei tre Paesi nell’Indo-Pacifico. Inoltre, proprio con il Regno Unito la Francia firmò gli accordi di Lancaster House nel 2010 per promuovere la collaborazione militare e nell’ambito della difesa. Londra è un partner importante, quindi, per l’agenda estera dell’Eliseo. Queste piattaforme di cooperazione regionale possono essere il primo passo verso l’autonomia strategica europea in assenza di una politica estera comune. Nell’accordo su Brexit della Vigilia di Natale, tuttavia, non è inclusa la politica estera perché il premier britannico vuole creare una global Britain indipendente: da qui l’aumento della spesa militare. Pur essendo questo un segnale verso gli Stati Uniti che il Regno Unito è pronto a riconfermarsi come secondo contribuente della NATO e a dare l’esempio agli altri Paesi europei, la mossa non gioca per forza a sfavore dei piani di Macron. Per portare avanti il progetto di autonomia strategica l’UE potrebbe aver bisogno della collaborazione della Gran Bretagna, anche se questa a parole vuole essere più indipendente.

Un simile discorso vale per la lotta al cambiamento climatico. Il prossimo anno si terrà a Glasgow la COP26, la ventiseiesima Conference of Parties dell’ONU sul cambiamento climatico. Il Regno Unito la presiederà insieme all’Italia. I Paesi partecipanti si presenteranno con i propri obiettivi nella transizione verde. L’annuncio di Johnson di un piano ambizioso (il taglio del 68% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030) ha attratto le critiche di scienziati che dubitano della sua realizzabilità. Tuttavia, lancia un messaggio chiaro ai partner internazionali sulla volontà di essere considerato un alleato affidabile in questa sfida. Bruxelles non può ignorarlo.

L’elezione di Joe Biden ha spinto sia la Gran Bretagna che l’Unione Europea a cercare di riallacciare i rapporti con gli Stati Uniti dopo quattro anni di amministrazione Trump. Una soluzione positiva dell’accordo sui rapporti post-Brexit è d’aiuto sia per Londra che per Bruxelles nel loro tentativo di riavvicinamento a Washington. Questo non significa che tra il Regno Unito e l’UE nasca improvvisamente l’amore. Londra ha anche con Bruxelles una special relationship: non perché particolarmente stretta, ma perché particolarmente distaccata. Tuttavia, per ristabilire il rapporto speciale con Washington, Johnson deve imporsi l’umiltà di fare passi avanti verso l’altra sponda della Manica. Da parte sua, l’UE è divisa tra il desiderio – pigra tentazione – di riallinearsi perfettamente con gli Stati Uniti, adagiandosi sulla vittoria dei valori democratici contro il populismo nazionalista, e la consapevolezza di dover maturare diventando più autonoma. Rimane il dubbio su come gli Stati Uniti possano interpretare questo atteggiamento, perché Washington spesso esige completo allineamento ai propri obiettivi da parte degli alleati. Per questo, il Regno Unito potrebbe essere un partner strategico fondamentale. Perché le coste dell’Atlantico tornino vicine, la Manica non deve allargarsi.

Scritto da
Carlo Mongini

Laureato in Filosofia all’Università Cattolica di Milano, ha conseguito un master alla Erasmus University di Rotterdam in Filosofia, Politica ed Economia e un master in Public Policy and Administration alla London School of Economics. Collabora con testate online su politica europea e italiana e con una società internazionale di geopolitica come advisor sulla politica italiana. Al momento è assistente di ricerca presso un istituto di studi di relazioni internazionali italiano. I suoi interessi principali sono Brexit, l’Europa occidentale e l’economia europea. Le opinioni espresse in questo e altri articoli sono personali.

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