Scritto da Francesco Salesio Schiavi
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L’Egitto, per la sua posizione geografica e per il ruolo storicamente giocato nei rapporti arabo-israeliani e nella questione palestinese, è uno dei Paesi maggiormente coinvolti nella guerra di Gaza. Quali conseguenze sta avendo la guerra tra Israele e Hamas sull’Egitto? Come si sta muovendo il presidente Abdel Fattah al-Sisi? La crisi in corso come sta influendo sui tanti fronti aperti su cui si decide il futuro dell’Egitto, dai conflitti interni in corso in Sudan e in Libia al controllo del Mar Rosso?
A partire da questi interrogativi abbiamo intervistato Giuseppe Dentice, analista e responsabile del Desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali.
Come i recenti avvenimenti hanno dimostrato, l’Egitto è sicuramente uno dei Paesi arabi mediorientali maggiormente coinvolti e impattati dalla guerra in corso tra Israele e Hamas. Quali sono state, sinora, le principali conseguenze dall’attuale crisi di Gaza sul Paese arabo? Come si posiziona il Cairo verso il conflitto?
Giuseppe Dentice: Il ruolo dell’Egitto è estrinsecamente collegato alle dinamiche in corso tra Israele e Hamas a Gaza. Un posizionamento che si arricchisce ovviamente di una storia che ha visto il Paese direttamente coinvolto contro Israele (almeno fino agli accordi di Camp David del 1978 e del trattato di pace del 1979) e nelle questioni inerenti alle rivendicazioni statuali dei palestinesi. In altre parole, non è possibile pensare di poter affrontare i fatti odierni senza considerare peso, ruolo e storia di un attore come l’Egitto. Fatta questa debita premessa è evidente che la crisi odierna in corso a Gaza avviene in un momento di grande debolezza del Paese nordafricano, alle prese con la più grave crisi socioeconomica della sua storia. Di fatto, il Cairo si trova a dover gestire due crisi, una domestica e l’altra lungo le sue frontiere (infatti non vanno dimenticate Libia e Sudan e per estensione il Mar Rosso come fattori complementari di tensione), che si alimentano vicendevolmente e lasciano il Paese in una condizione di fragilità estrema. La guerra a Gaza è una sorta di Giano bifronte che riguarda il passato, il presente e anche il futuro stesso dell’Egitto. Le minacce di sicurezza, umanitarie e politiche derivanti dal conflitto nella Striscia di Gaza rischiano di essere una sorta di acceleratore per il già infuocato contesto domestico che, se non ben controllato, potrebbe favorire nuove tensioni ad ampio spettro in grado di impattare l’intero Medio Oriente, a cominciare dall’afflusso incontrollato di palestinesi respinti da Gaza e pronti a trovare rifugio nel Sinai. Ciò sarebbe un onere enorme (anche economico) a carico dell’Egitto, che si troverebbe a dover gestire una situazione problematica da un punto di vista politico e securitario, oltre che a dover giustificare internamente alla propria opinione pubblica un’imposizione giunta dall’esterno. Non a caso, il Cairo ha rafforzato la frontiera con Gaza, chiuso il valico di Rafah e ha avvertito Israele che qualsiasi azione unilaterale in tal senso metterebbe a repentaglio non solo le relazioni bilaterali, ma i presupposti di pace e stabilità garantiti nella regione dal trattato di pace tra i due Paesi firmato nel 1979. Anche se è probabile che Egitto e Israele mantengano l’attuale “pace fredda”, una frattura è ancora possibile, con tutte le ripercussioni sul piano relazionale e politico regionale. Infatti, la guerra ha provocato non solo una vasta crisi umanitaria, ma ha rappresentato anche una minaccia esistenziale per il Paese, nonché la potenziale distruzione dell’ordine regionale di cui l’Egitto ha beneficiato politicamente ed economicamente dalla firma degli accordi di Camp David con Israele nel 1978. Non a caso, il Cairo vede nell’intensa attività diplomatica l’unica soluzione ragionevole al conflitto. Ecco spiegato, quindi, il ruolo e l’impegno multidimensionale egiziano verso il conflitto e le ripercussioni che potrebbero minacciarne l’integrità e la stabilità.
Grazie agli stretti legami con Israele, Stati Uniti, altri Paesi arabi e alcuni leader di Hamas, l’Egitto è un interlocutore regionale chiave nel multiforme sforzo per mitigare (o, eventualmente, porre fine) la guerra in corso tra Israele e Hamas. Come si è evoluta finora l’azione diplomatica del Cairo nei confronti dell’attuale crisi di Gaza, considerando anche il ruolo storico dell’Egitto nella Striscia e negli affari palestinesi in generale? Quale sono le priorità del governo egiziano su questo fronte?
Giuseppe Dentice: Come spiegato pocanzi, il Cairo punta a stabilizzare il piano esterno in funzione domestica. Allo stesso tempo, persegue un’azione combinata sia verso il palcoscenico palestinese, cercando di mediare soprattutto tra Hamas e Fatah, sia nei confronti di una de-escalation a Gaza attraverso un profuso impegno diplomatico che porti Israele e Hamas a trovare una sorta di compromesso. Tuttavia, l’operato israeliano nella Striscia (a cui presto potrebbe aggiungersi l’offensiva terrestre a Rafah) ha irrigidito la posizione dell’Egitto, che ha preteso un’azione coordinata e più forte insieme ai partner arabi da manifestare nei confronti di Tel Aviv. La percezione in Egitto (e in molti Paesi arabi) è che Israele voglia liberarsi delle sue responsabilità a Gaza per poi scaricarle ad altri, in particolare in capo al Cairo e ad Amman. Da parte sua, lo Stato nordafricano ha respinto questa posizione, insistendo sul fatto che il dossier palestinese non possa essere scisso tra Gaza e Cisgiordania, ma debba essere affrontato nella sua unicità.
Di fronte al progressivo spostamento delle operazioni militari verso la frontiera con l’Egitto, cosa sta facendo il Cairo per impedire che la pressione israeliana sulla città più a sud della Striscia, Rafah, sfoci in esodo forzoso della popolazione gazawi verso il territorio del Sinai? Un afflusso incontrollato di palestinesi quali implicazioni avrebbe sulla sfera domestica egiziana? E in che modo una simile crisi umanitaria impatterebbe sulle relazioni bilaterali con Israele?
Giuseppe Dentice: Il compito egiziano è di contenere, anche fisicamente, il possibile esodo forzoso di palestinesi dalla Striscia di Gaza verso il Sinai. Questo non significa impedirne l’afflusso, ma di certo il Paese non può farsi carico in toto dell’accoglienza di 1,4 milioni di gazawi in fuga dalla guerra. Non a caso, come rilevato nei giorni scorsi anche dal Wall Street Journal, il governo cairota ha deciso di costruire un’enorme zona cuscinetto larga diversi chilometri e un muro di contenimento per almeno 100.000 persone lungo il confine con il sud di Gaza. Oltre ad una questione di carattere umanitario, l’Egitto è preoccupato che all’esodo dei palestinesi possa accompagnarsi anche un’infiltrazione di uomini di Hamas e/o di soggetti estremisti legati ai gruppi terroristi vicini allo Stato Islamico del Sinai (Wilayat Sinai), operativi nell’area dal 2013-2014. Sebbene pubblicamente l’Egitto abbia rifiutato qualsiasi impegno stringente di accoglienza nei confronti dei palestinesi scappati dalla Striscia, il governo sta tuttavia preparando piani di emergenza per non farsi cogliere impreparato da possibili deterioramenti nello scenario umanitario e di sicurezza. Allo stesso tempo ribadisco un punto cruciale: per l’Egitto un’evacuazione forzata di palestinesi da Gaza è un tema non contrattabile e inaccettabile. Anche per questo ha aumentato il suo tasso polemico e retorico contro Israele nel tentativo di far emergere in maniera inequivocabile il malumore diffuso a livello di establishment verso una condizione ritenuta irricevibile. Ancor più se Tel Aviv decidesse di invadere Rafah e controllare direttamente e in maniera unilaterale il valico di frontiera. Tale situazione andrebbe contro le disposizioni del diritto internazionale e degli accordi di Camp David, aprendo, potenzialmente, ad un incidente diplomatico grave tra i due Paesi.
L’Egitto vede nella fine della guerra Israele-Hamas anche un mezzo per proteggere la sua economia, così come il suo territorio, dai connessi attacchi del movimento Houthi dello Yemen, le cui azioni di disturbo al traffico commerciale su nave nel Mar Rosso stanno drasticamente riducendo le entrate egiziane legate al transito nel Canale di Suez. Qual è stato, sino ad oggi, il costo dell’azione degli Houthi nel Mar Rosso sull’economia egiziana? Qual è stata la strategia egiziana per far fronte a questa minaccia? E come si posiziona il Cairo nei confronti delle azioni navali internazionali di contrasto agli Houthi?
Giuseppe Dentice: A rendere più complesso il quadro strategico egiziano ha contribuito nell’ultimo trimestre l’attivazione dello scenario di crisi del Mar Rosso, che è un teatro storicamente importante per il Paese e le sue ambizioni di profondità strategica. Sul piano diplomatico, il governo egiziano ha concentrato i propri sforzi sulla priorità di garantire la sicurezza e la protezione della navigazione. Monito, quest’ultimo, ribadito più volte dal presidente Abdel Fattah al-Sisi, il quale ha chiesto la fine di tutti gli attacchi contro le navi civili nel Mar Rosso al fine di mantenere il flusso regolare delle catene industriali e di approvvigionamento globali e dell’ordine commerciale internazionale. Al netto delle posizioni ufficiali, però, il Paese sta facendo poco per proteggere la navigazione marittima, sperando che una chiave diplomatica non assertiva possa esercitare pressioni maggiori e garantire più benefici nei confronti degli Houthi e, soprattutto, dei loro sponsor iraniani. Anche per questo il Paese non è all’interno della missione “Prosperity Guardian” a guida statunitense e continua a mantenere inalterato il dialogo con le autorità di Teheran per una normalizzazione dei rapporti bilaterali. Gli impatti più dirimenti, tuttavia, sono riconducibili essenzialmente al piano economico. Oltre alle interruzioni nel commercio e nel turismo dovute alla guerra tra Israele e Hamas, l’Egitto deve ora fare i conti con un crollo delle entrate provenienti dal Canale di Suez, una fonte fondamentale di valuta estera per le casse del governo. Una situazione che è divenuta anche peggiore a causa del calo dei ricavi: infatti nel solo mese di gennaio 2024, le royalties dei pedaggi da Suez sono calate del 50% passando dagli 804 milioni di dollari di 12 mesi fa agli attuali 428 milioni di dollari. Nel tentativo di contenere le perdite, l’Autorità del Canale di Suez ha agito sulle tasse di transito, aumentandole fino al 15%. Tuttavia, il declino del trasporto marittimo continuerà per mesi e rappresenterà un ennesimo duro colpo alla martoriata economia egiziana, visto che gli introiti da Suez pesano per poco meno di dieci miliardi di dollari l’anno sul PIL nazionale.
I violenti conflitti interni in corso in Sudan e in Libia si aggiungono al portafoglio di minacce alla sicurezza dell’Egitto. Entrambe le guerre civili, in particolare quella in Sudan, hanno infatti fatto assorbire al Paese arabo ampi afflussi di rifugiati in fuga dai combattimenti. In che modo si è evoluta la strategia del Cairo per contenere (se non risolvere) gli effetti di entrambi i teatri di guerra?
Giuseppe Dentice: Analogamente al conflitto di Gaza, le tensioni lungo tutti i confini rappresentano il grande motivo di preoccupazione per il Cairo. Anche in questo caso, il timore maggiore, soprattutto guardando al caso sudanese, riguarda il tema umanitario e l’afflusso di milioni di cittadini africani entro i suoi confini, che andrebbero quindi ad aggravare una condizione domestica di accoglienza di non facile soluzione. Al contempo, mantenere la presa sul Sudan serve sia alla prospettiva strategica africana dell’Egitto sia per esercitare una qualche forma di leva nei confronti dell’Etiopia in merito alla questione della “Grande Diga del Millennio”. Paradossalmente, la questione libica, seppur rilevante – e più volte ribadita come una questione esistenziale per il Paese nordafricano – è oggi quella più sotto controllo, o quanto meno non così pressante anche per effetto di alcuni cambi relazionali avvenuti con attori di rilievo (Turchia su tutti).
La guerra civile del Sudan ha anche complicato lo sforzo del presidente al-Sisi di lavorare con Karthoum per frenare il controllo unilaterale dell’Etiopia sui flussi d’acqua provenienti dal GERD (Grand Ethiopian Renaissance Dam). In che modo il Cairo intende affrontare il crescente pericolo di stress idrico a cui rischia di andare incontro il Paese, anche alla luce delle crescenti tensioni con Addis Abeba dopo che i negoziati hanno raggiunto un punto morto a dicembre e il recente accordo dell’Etiopia con il Somaliland?
Giuseppe Dentice: Il tema del GERD e del relativo stress idrico non è una novità ma è quello per il quale al Cairo sono più preoccupati, per assurdo anche più che su Gaza. Il motivo è strettamente connesso al grave deficit idrico di cui soffre l’Egitto e a cui nemmeno i numerosi progetti infrastrutturali sviluppati (in particolare in materia di desalinizzazione) riescono a garantire un certo sollievo. Secondo le Nazioni Unite, si prevede che entro il 2025 l’Egitto sarà classificato come Paese povero d’acqua. In questo discorso anche il GERD rappresenta una minaccia esistenziale per una realtà che fa del Nilo il suo tesoro: tra il 90-95% del suo fabbisogno idrico, economico e industriale dipende infatti dal grande fiume africano e dallo sfruttamento delle sue acque. A rendere ancora più complesso il tutto vi è anche il complicato rapporto costruito nell’ultimo decennio con Addis Abeba per via della reciproca diffidenza e indisponibilità a rivedere le relative quote di accesso all’acqua del Nilo, così come stabilito dai due trattati internazionali (1936 e 1959) che regolano le attività per tutti i Paesi del bacino rivierasco. I colloqui odierni non procedono verso alcunché e i due Paesi sono distanti su tutto. In questo senso, il quadro strategico regionale tra Africa Orientale e Mar Rosso rende tutto estremamente complicato, soprattutto per il Cairo.
Di recente, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il suo omologo egiziano Abdel Fattah al-Sisi si sono incontrati al Cairo in quella che è stata la prima visita di Erdoğan in Egitto dal 2012. In che modo l’incontro nella capitale egiziana si inserisce nel recente tentativo di riavvicinamento diplomatico tra Ankara e il Cairo? Quali obiettivi si sono prefissati i due leader per far fronte alla crescente complessità del quadro regionale?
Giuseppe Dentice: Al netto delle evoluzioni repentine e confuse sul piano regionale, il riavvicinamento tra Turchia ed Egitto è uno sviluppo importante e, potenzialmente, molto positivo anche per il quadrante tra Mediterraneo e Medio Oriente. Infatti, dopo quasi un decennio di forti attriti – anche personali a livello di leadership –, il presidente turco Erdoğan è volato al Cairo per incontrare al-Sisi. La visita inedita è stata la prima in dodici anni del leader turco nel Paese nordafricano ed era mirata a definire in maniera definitiva il processo di distensione tra i due Paesi. L’incontro nella capitale egiziana è significativo sul piano bilaterale per diverse ragioni di carattere regionale e globale. Entrambi gli stati mediterranei hanno un comune interesse nel coordinare le loro posizioni geopolitiche su numerosi dossier strategici: Gaza, Libia, Sudan, Nilo ed Etiopia, Mar Rosso, energia e Mediterraneo. Non a caso, nel bilaterale privato, i leader hanno discusso di rilancio delle relazioni politiche, di attivazione di meccanismi di cooperazione ad alto livello e di creazione di partenariati ad hoc, come nel settore della difesa e delle infrastrutture. Tuttavia, gran parte di questo nuovo reset dipenderà dalla volontà a livello di leadership di risolvere i punti critici: il dossier libico; i contenziosi su energia ed esplorazione nel Mediterraneo orientale; la questione dei Fratelli Musulmani. In particolare, vedo quest’ultima come la chiave concreta per sbloccare tutti gli altri dossier.