Recensione a: Emanuele Monaco, L’Europa di Jean Monnet. Una biografia transatlantica, Viella, Roma 2024, pp. 312, 28 euro (scheda libro)
Scritto da Marco Arvati
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Nel dibattito odierno, se ci imbattiamo nella parola “atlantismo” ci riferiamo quasi sicuramente a politiche europee di vicinanza agli Stati Uniti d’America; spesso il termine è utilizzato in senso dispregiativo, a rimarcare una sudditanza nei fatti di chi adotta queste politiche verso Washington. Non è il caso della nuova biografia di Jean Monnet, L’Europa di Jean Monnet. Una biografia transatlantica, scritta da Emanuele Monaco, dottore in Studi storici, e edita dai tipi di Viella (accessibile in open access a questo link). Fin dalle prime battute del testo, e dal tipo di archivi consultati, tra cui spiccano un gran numero di istituzioni statunitensi, si nota la volontà dell’autore di costruire un lavoro che tenga insieme in un volume unitario l’afflato europeista di Monnet e i suoi rapporti privilegiati con le più importanti figure della società politica americana degli anni Quaranta e Cinquanta. Nel testo sono poi presenti carte inedite scoperte in alcuni grandi archivi, come i Parliamentary Archives o la Bodleian Library.
La figura di Jean Monnet che ci consegna il volume è assolutamente tridimensionale e sempre ben calata nel tempo storico di riferimento: non sono presenti quei passaggi che spesso ricorrono nelle biografie, in cui si fa leva su alcuni momenti destoricizzati della vita di un personaggio per raccontare avvenimenti fondanti, in cui il protagonista prende coscienza del proprio posto nel mondo e fa del suo lascito principale la sua missione di vita. A dirla tutta, leggendo le quasi trecento pagine del saggio, non siamo sicuri del momento esatto in cui Monnet, da facilitatore di commesse belliche o inviato di Roosevelt ad Algeri, imbracci l’idea della costruzione di un’unione tra i Paesi dell’Europa occidentale. Non ne siamo sicuri proprio perché le conoscenze e le relazioni che Monnet intrattiene in più di trent’anni lo portano gradualmente a maturare l’idea che un’interdipendenza tra Francia e Germania potesse essere il modo per preservare la pace in Europa, a conti fatti il suo obiettivo.
Il libro è diviso strutturalmente in tre parti distinte della vita di Monnet: una prima parte che analizza il ruolo nella Prima guerra mondiale e nella successiva neonata Società delle Nazioni, una seconda strutturata sulle azioni compiute durante la Seconda guerra mondiale, per conto dei governi britannico e americano, e una terza sulla costruzione della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio), il Monnet europeista che siamo abituati a conoscere.
Fin dall’inizio Monaco ci fa comprendere la peculiarità della figura del francese rispetto ad altri europeisti dello stesso periodo: Monnet non è un federalista per convinzione culturale, e non ha nemmeno frequentato le principali università d’elite che hanno costituito la base per la nascita dei think-tank interdipendenti che ragionavano di politica estera, come la Chatham House, tra le due sponde dell’Atlantico. Per tutta la gioventù Monnet è stato un venditore di cognac, e proprio tramite questo lavoro si è reso conto dell’importanza delle strutture sovranazionali e dell’interdipendenza tra gli Stati per avere un commercio proficuo. Quando gli Stati Uniti, che rappresentavano una gran parte del commercio estero del liquore prodotto dalla famiglia Monnet, inaugurarono la stagione del proibizionismo, il francese risana l’azienda diversificando completamente le esportazioni e puntando sul mercato canadese, un luogo dove francesi e inglesi – comunità incompatibili in Europa – si trovavano a collaborare sul piano politico ed economico per necessità. Anni prima, nel corso della Grande Guerra, riuscì a costituire un’istituzione comune a Italia, Francia e Inghilterra per l’approvvigionamento e la distribuzione del grano. Non quindi richiami all’antichità del continente europeo, o al Sacro Romano Impero di Carlo Magno, o alla pace perpetua kantiana: l’interdipendenza tra Stati per Monnet non nasce da una volontà culturale, ma dall’idea che solo la necessità può spingere enti nazionali a cedere parte della propria sovranità in virtù di un progetto comunitario.
Nonostante la lontananza dall’alta accademia negli anni tra le due guerre, dopo una parentesi alla Società delle Nazioni che lo lasciò deluso, riuscì a costruire una rete di relazioni con importanti esponenti della società politica americana attraverso il lavoro di broker finanziario. Vivendo a Washington, iniziò a frequentare assiduamente il giudice della Corte Suprema Felix Frankfurter, e quelli che sarebbero diventati due futuri segretari di Stato nel dopoguerra, Dean Acheson e John Foster Dulles. La vicinanza amicale con queste figure è sempre stata importante per Monnet, in quanto ha così potuto avvalersi di consigli di alto profilo politico dal lato opposto dell’Atlantico e coordinarsi con essi nella sua visione di Europa. I più critici potrebbero affermare che le mosse di Monnet dalla Seconda guerra mondiale in avanti fossero espressione delle volontà di Washington sull’Europa, ma non è così: Monnet ha utilizzato la sua vicinanza particolare e personale ai vari gabinetti americani spesso per portare avanti piani osteggiati dai suoi avversari in Europa, e ha perso gradualmente importanza quando quelle figure che gli hanno garantito un network e un accesso privilegiato hanno smesso di fare politica attiva.
Durante la Seconda guerra Mondiale Monnet si è ritrovato nella posizione paradossale di inviato di Churchill negli Stati Uniti per conto del governo britannico, e poi di inviato di Roosevelt ad Algeri per conto del governo americano, mentre la situazione francese era sempre più caotica. È in questo periodo che inizia a incrociare la strada con quello che sarà il suo più grande rivale nel dopoguerra, Charles De Gaulle, che rappresentava il governo francese in esilio a Londra e non vedeva di buon occhio Monnet. D’altronde, nonostante l’incarico del governo britannico, Monnet si muoveva nella cerchia di Washington, dove De Gaulle non era ben visto: bisogna tenere presente che se oggi è una narrazione affermata quella della continuità governativa della Francia tramite De Gaulle, all’epoca non tutti erano d’accordo. Gli americani, infatti, fino al 1942 hanno tenuto aperta l’ambasciata a Vichy, nello Stato Francese di Petain e Laval, collaborazionista con la Germania. Dopo l’ingresso degli Alleati in Nord Africa con l’Operazione Torch, Monnet fa in modo di essere inviato da Roosevelt ad Algeri per supportare Henri Giraud, scelto dagli americani come guida francese, e renderlo il principale riferimento alleato, mentre gli inglesi puntavano tutte le loro carte su De Gaulle. Giraud era stato prigioniero dei tedeschi, poi era scappato e tornato a Vichy, da dove aveva preso contatti con gli angloamericani che lo hanno portato ad Algeri; una figura molto più sfumata rispetto all’eroe De Gaulle, rifugiatosi a Londra contestando l’armistizio del 1940. Il ruolo di Monnet era quello di rendere Giraud un riformatore, un possibile capo di Stato, e gli chiese di espungere dal governo di Algeri tutte le leggi riconducibili al vichysmo, soprattutto di ripristinare il Decreto Cremieux che dava agli ebrei algerini la cittadinanza francese. A differenza di quanto richiesto da Roosevelt, Monnet non lavorò solo per Giraud, ma per costituire un Comitato francese di liberazione nazionale, lontano dagli interessi di Washington, che riunisse le due istituzioni francesi anti-Vichy: la Francia libera di De Gaulle e il Comando civile e militare d’Algeri di Giraud. Una mossa che lo smarcò da agente dei governi atlantici, e gli consentì di entrare nel “Pantheon” francese.
Terminato il conflitto, iniziò la fase più prolifica della carriera di Jean Monnet, quella che in ultima istanza lo porterà a essere il promotore della Dichiarazione Schuman del 1950 e poi presidente dell’Alta autorità della Ceca. Nuovamente, il ragionamento di Monnet partiva da un assunto di necessità: il suo obiettivo era evitare la quarta guerra tra Francia e Germania in settant’anni, tutte scoppiate per il possesso del principale bacino carbonifero d’Europa, le regioni della Ruhr e della Saar. Per il francese, risolvere i problemi in senso nazionalista, ottenendo le regioni per la Francia, o peggio ancora riducendo la Germania a una terra adibita a pascoli, come avrebbe voluto il segretario del Tesoro americano Henry Morgenthau, non avrebbe risolto alcun problema. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio metteva in comune le risorse di una regione e impediva che le parti dell’accordo, che ottenevano profitti attraverso un’autorità interdipendente, entrassero in guerra tra loro. Come scritto da Monaco, una risoluzione della cosiddetta questione renana non nuova, ma calata nel giusto contesto politico e al giusto momento. Una soluzione che garantiva una centralità francese nel progetto di integrazione europea, tenendo fuori il Regno Unito che non sarebbe potuto entrare nella Comunità economica fino al 1973, ma anche una possibilità di crescita, seppur controllata dalle altre potenze, della Germania Ovest, necessaria per gli Stati Uniti che avevano presto abbandonato l’idea che questa fosse il principale problema alla stabilità mondiale, essendosi già proiettati verso la Guerra Fredda con l’Unione Sovietica.
Alla grande vittoria della Ceca fa da contraltare la grande sconfitta della Comunità europea di difesa (Ced), in ultima istanza bocciata dallo stesso parlamento francese e su cui si espresse in maniera molto critica proprio Charles De Gaulle. Il Piano Pleven, che Monnet sponsorizza fino alle più alte sfere del governo americano, prevedeva la fusione materiale della difesa dei Paesi europei sotto un’unica autorità politica e militare, con un vero e proprio ministero della Difesa europeo. Un progetto che avrebbe rappresentato un cambio di passo nella costruzione di un federalismo europeo, che De Gaulle criticò come un moloch antifrancese, un frankenstein che avrebbe distrutto la sovranità nazionale. A nulla sono valsi i tentativi di Monnet di costruire un’alternativa a questa visione, anche perché non ne era fondamentalmente capace: come afferma Monaco, Monnet si trovava a suo agio nelle reti di relazione da lui costruite, portando avanti i suoi piani con diplomatici, politici, giudici e all’interno di luoghi ristretti. Non ha mai fatto politica attiva, non si è mai fatto eleggere, e non aveva capacità di contrastare con la popolazione francese la narrazione gollista. A conti fatti, Monnet non è stato all’altezza di vendere ai cittadini il progetto più ambizioso di integrazione europea: questo perché, mancandogli fin dall’inizio una visione filosofica sul federalismo europeo, e compensandola col suo approccio transazionale e funzionalista all’integrazione, non ha potuto costruire un’alternativa alla visione mondiale del gollismo.
Il Monnet broker, facilitatore di relazioni più che uomo di Stato, si ritira quando i legami che ha costruito iniziano a scomparire. Dopo la sua ultima fase di lavoro, alla guida del Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, un think-tank sostenuto da molte donazioni private di qua e di là dall’Atlantico, inizia a non avere più contatti di alto livello nelle amministrazioni. Rimase convinto, fino alla fine della sua vita, che europei e americani avrebbero dovuto continuare a mantenere le stesse relazioni proficue che lui aveva contribuito a costruire. D’altronde, l’obiettivo per cui si era prefissato di costituire organismi sovranazionali l’aveva raggiunto: dopo il 1945, Francia e Germania sono diventate troppo interdipendenti per potersi fare la guerra.