Scritto da Daniele Molteni
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Il 24 e 25 ottobre 2024 si è tenuta a Bologna la Biennale dell’Economia Cooperativa, dal titolo “Futuro Plurale”. L’evento ha riunito voci autorevoli del mondo della cooperazione, delle istituzioni, della politica e dei sindacati per due giorni di dibattito e riflessione con lo scopo di affrontare le grandi sfide globali attraverso il prisma della cooperazione, dell’inclusione, della solidarietà e dell’innovazione sociale.
Per approfondire i temi trattati abbiamo intervistato Francesco Vella – Professore ordinario di Diritto commerciale presso l’Università di Bologna dove insegna anche Diritto ed economia della cooperazione – intervenuto nella presentazione del libro Quarantacinque. Il dibattito sulla Cooperazione alla Costituente di Mattia Granata (Rubbettino Editore).
Quali sono le principali differenze tra il modello cooperativo e le società di capitali tradizionali? Quale ruolo possono assumere le cooperative in un contesto economico dominato da imprese multinazionali e grandi attori finanziari?
Francesco Vella: Proprio nell’ambito della Biennale dell’Economia Cooperativa abbiamo discusso di un volume, peraltro realizzato con grande cura, di Mattia Granata, dedicato al dibattito svoltosi in seno all’Assemblea costituente sull’elaborazione delle norme costituzionali relative alla cooperazione. Questa discussione è stata particolarmente interessante poiché ha messo in luce aspetti poco noti che evidenziano l’attenzione dei costituenti nel distinguere le cooperative dalle altre imprese. Tale distinzione si fondava sostanzialmente sulla mutualità: le cooperative, per loro natura storica, nascono per offrire un servizio a favore dei soci, caratteristica che rappresentava il loro tratto distintivo. Al tempo stesso, i costituenti sottolineavano la rilevanza che le cooperative potevano avere per l’intera comunità, riconoscendo loro una funzione sociale di ampia portata. Di conseguenza fu prevista una disciplina specifica per questo modello di impresa, che, adottando una terminologia contemporanea, potremmo definire come una “mutualità di comunità”, ossia una visione che va oltre il semplice servizio ai soci. La ricostruzione di quel dibattito, approfondito e organico, che includeva posizioni diverse, dimostra come le norme sulla cooperazione siano state oggetto di riflessioni meditate e articolate. Guardando al futuro, la cooperativa si presenta come un’impresa capace di differenziare la propria posizione grazie alla sua naturale coerenza con le logiche di sostenibilità, un tema oggi molto dibattuto, talvolta anche con intenti meramente promozionali. Il concetto di sostenibilità, tuttavia, richiede un’attenta analisi giuridica per comprendere come venga concretamente attuato, in conformità con le norme comunitarie e nazionali che disciplinano la coerenza delle imprese. Ripercorrendo la storia e proiettandosi nel futuro, dunque, la cooperazione può rivestire un ruolo di primo piano, rappresentando un modello di impresa in sintonia con le esigenze di sostenibilità sociale ed economica del nostro tempo.
In che modo il principio di mutualità, centrale nelle cooperative, può contribuire alla riduzione delle disuguaglianze economiche mantenendosi all’interno di una dinamica di competitività? Come si inseriscono occasioni come la Biennale dell’Economia Cooperativa in questa prospettiva?
Francesco Vella: Partendo dall’analisi storica e proiettandoci verso l’attualità e il futuro, possiamo affermare che la cooperazione nasce proprio per proteggere e favorire le classi meno agiate. Nel libro di Mattia Granata emerge un interessante episodio del dibattito costituzionale, in cui Luigi Einaudi, inizialmente non favorevole alla promozione della cooperazione, riconosce l’esistenza di figure, caratterizzate “dal senso di apostolato e eroismo” all’interno del movimento cooperativo. Questo riconoscimento lo porta a giustificare il suo sostegno alla cooperazione, nonostante la diversità dei suoi noti orientamenti. Tale episodio sottolinea come anche chi ha posizioni divergenti possa apprezzare la valenza sociale intrinseca delle cooperative. In un contesto come quello attuale, di costante incremento delle disuguaglianze, la cooperazione può rappresentare effettivamente una leva rilevante, pur dovendo operare in un mercato competitivo e alla ricerca di un equilibrio tra sostenibilità economica e missione sociale. Questo equilibrio, a mio avviso, si può raggiungere garantendo al proprio interno una forte partecipazione dei soci, nonché un’attenzione ai bisogni delle comunità. Su questo aspetto, tuttavia, le cooperative hanno ancora margini di miglioramento. La recente normativa comunitaria applicabile alle grandi cooperative di consumo rappresenta un passo avanti: essa richiede agli amministratori di rendicontare non solo la realizzazione dello scopo mutualistico, ma anche l’impatto sulle comunità in cui le cooperative sono attive. Questo evidenzia il loro potenziale ruolo di promotrici di coesione sociale e sviluppo locale. Va tuttavia ricordato che il mondo cooperativo è estremamente diversificato: esistono grandi cooperative di consumo, cooperative di produzione e lavoro, piccole cooperative e un vasto insieme di cooperative sociali che operano nel terzo settore. Ognuna di queste realtà presenta funzioni, modalità operative e problematiche specifiche, che richiedono approcci differenziati.
In base a quanto studiato dall’economia comportamentale, quali sono le sfide principali, soprattutto a livello di governance, interne alle cooperative rispetto a quelle tipiche delle società di capitali?
Francesco Vella: Nelle mie lezioni di diritto commerciale, per spiegare agli studenti del secondo anno la differenza tra cooperative e imprese lucrative utilizzo sempre un esempio pratico: le tessere fedeltà. Nei supermercati non cooperativi, la tessera consente di accumulare punti per ottenere regali, mentre nelle cooperative il socio spende per ottenere un ristorno, ossia un risparmio diretto. Quando una persona acquista con la tessera della cooperativa non è solo un consumatore ma anche un socio, e come socio è portatore di quei valori di democrazia cooperativa che si fondano sul principio “una testa, un voto”, poiché ogni socio partecipa e contribuisce. La vera sfida per le cooperative è integrare questo valore, che è fondante e richiamato dai principi costituzionali, nel governo societario garantendo un equilibrio tra efficienza e partecipazione. Sebbene le cooperative debbano seguire molte norme valide per le società per azioni, la loro peculiarità sta nella presenza attiva dei soci nella gestione. Tuttavia, questa partecipazione non è sempre facile da valorizzare e realizzare, e spesso il rischio è quello di una governance autoreferenziale, che non si basa, cioè, su reali ed efficaci meccanismi di partecipazione dei soci. Come dicevo, dobbiamo tenere conto del fatto che il panorama cooperativo è ampio e variegato: piccole cooperative sociali e grandi cooperative di consumo affrontano problematiche diverse legate a dimensioni, obiettivi e mercati. Tuttavia, un elemento comune è l’attenzione agli stakeholder, che, a differenza di quanto accade nelle società per azoni, nelle cooperative coincidono spesso con i soci. A titolo di esempio, in una zona rurale o disagiata per carenza di servizi una cooperativa che gestisce un negozio non si basa solo sullo scambio mutualistico con i soci consumatori, ma di fatto offre un servizio alla comunità intera, con una forma di tutela per tutti gli abitanti di quel territorio. Nel caso delle cooperative gli stakeholder sono attenti ai luoghi che possono essere di scambio, di ritrovo. Questa coincidenza tra stakeholder, consumatore e socio, viene valorizzata molto nelle cooperative di lavoro e in quelle sociali, attraverso principi di inclusione che prevedono, mi riferisco in particolare alle cooperative sociali, la rappresentanza degli stakeholder negli organi di governo.
Tornando alla vocazione delle cooperative per i temi della responsabilità sociale, negli ultimi anni si parla spesso di questo tipo di responsabilità anche per le aziende non cooperative, come nel caso degli obiettivi ESG da raggiungere come richiesto dalle normative. Come vede questa maggiore attenzione, almeno sulla carta, verso le tematiche sociali e ambientali? Come ha reagito la cooperazione a queste nuove normative?
Francesco Vella: La maggior parte delle norme che stanno modificando lo scenario per le imprese è di derivazione comunitaria, poiché l’Unione Europea, da qualche anno, ha completamente ribaltato il suo approccio originario. In passato, si riteneva che tutti i profili di responsabilità sociale dovessero essere affrontati tramite forme di autoregolamentazione. Tuttavia, questo principio è stato considerato insufficiente, in quanto poco coerente con le strategie ambientali adottate. Di conseguenza, hanno iniziato a emergere, talvolta in maniera poco coordinata, una serie di norme comunitarie – come la recente direttiva sulla due diligence – che impongono alle imprese di rendicontare il proprio operato e i relativi effetti in termini di indicatori ESG (Environment, Social, Governance). Obblighi che investono anche i rapporti con tutta la filiera produttiva e che naturalmente vanno modulati con un criterio di proporzionalità che tenga conto della dimensione dell’impresa. Molte aziende stanno cercando di adeguarsi, anche perché il nostro ordinamento sta evolvendo verso una verifica più rigorosa della correttezza e dell’esattezza di tali rendicontazioni. Come tutte le imprese, anche le cooperative sono soggette a queste norme, ma, proprio per la loro vocazione, dovranno dimostrare la capacità di rispondere tempestivamente a queste richieste: per usare un’espressione a effetto, le cooperative dovrebbero essere la locomotiva che traina tutti i vagoni, non semplicemente un vagone come gli altri. Se guardiamo all’economia comportamentale, citata nella domanda precedente, emerge un aspetto spesso trascurato ma cruciale. Quando i giuristi affrontano il tema della governance societaria si concentrano su chi governa e decide, ossia sugli amministratori e sui controllori. Tuttavia, osservando un consiglio di amministrazione nella realtà, ci si trova di fronte a un gruppo di persone che lavorano insieme perseguendo determinati obiettivi. Pertanto, il giurista deve sì riferirsi alle norme, ma anche considerare che queste regolano l’interazione tra individui con comportamenti e dinamiche specifiche. Un esempio significativo è l’analisi della composizione dei gruppi: la presenza di un equilibrio di genere, età, competenze e provenienze può influenzare il modo in cui i membri interagiscono e contribuiscono alle finalità del consiglio. Questo approccio consente di comprendere meglio le diverse modalità e prospettive che emergono nelle interazioni. Infine, un altro aspetto è che nel nostro sistema, a differenza di quello tedesco, la struttura di governance non prevede la partecipazione dei dipendenti; ma nulla impedisce che questa possa essere introdotta attraverso l’autonomia statutaria. Come accennavo, in alcune cooperative, come quelle sociali, l’ordinamento prevede la partecipazione degli stakeholder ma spesso si riscontrano difficoltà pratiche: i dipendenti stessi possono non voler essere coinvolti, a dimostrazione del fatto che non si può considerare chi opera nei consigli di amministrazione come un soggetto astratto, guidato esclusivamente da interessi razionali e oggettivi. Sul piano comportamentale, la realtà è spesso molto più complessa.
Nel caso della partecipazione degli stakeholder entra in gioco anche una responsabilità che diventa diffusa. Gli onori e gli oneri della partecipazione non sempre sono abbracciati da molti soggetti, un po’ come accade nei processi democratici in generale. Rispetto alla mancanza di prontezza del mondo cooperativo a cui accennava, quanto crede che questo sia dovuto a una difficoltà di rispondere alla rapidità delle trasformazioni contemporanee? Quanto il mondo cooperativo, più in generale, è in grado oggi di rinnovarsi e di innovare?
Francesco Vella: Il tema della responsabilità della partecipazione coglie il cuore della questione. Un esempio significativo mi è stato raccontato da un responsabile di una cooperativa sociale, il quale riferiva di aver tentato di coinvolgere i dipendenti, ma che questi preferivano limitarsi a svolgere il proprio lavoro. Partecipare, infatti, significa entrare in un contesto decisionale che comporta anche l’assumersi delle responsabilità: questo, implica un cambiamento complesso, poiché i soggetti coinvolti devono adattarsi a un sistema diverso, ed è un punto cruciale su cui riflettere. In altre parole, quando si promuove la partecipazione dei lavoratori, è essenziale chiedersi se questi siano realmente disposti a partecipare. Ciò richiede un percorso di formazione e costruzione di competenze, spostandosi da una logica puramente tutelante verso una in cui si è chiamati a decidere insieme su strategie di ampio respiro. Un secondo aspetto fondamentale riguarda la necessità che il movimento cooperativo rafforzi ulteriormente la sua visibilità, distinguendosi su territori e mercati, come veicolo di promozione della sostenibilità di impresa, perché questa in fin dei conti rappresenta una vocazione che a differenza delle altre imprese, appartiene al DNA delle imprese mutualistiche. È, in sostanza, necessario agire affinché il movimento cooperativo riesca a rafforzare e valorizzare le sue peculiarità. Un altro aspetto penso sia meritevole di essere sottolineato: così come le società quotate hanno il loro codice di autodisciplina, con una regolamentazione specifica, anche il movimento cooperativo qualche anno fa ha elaborato delle linee guida che evidenziano aspetti qualificanti e tipici della governance cooperativa. È stato un passaggio significativo, ma la domanda fondamentale è: come sono state attuate queste forme di autodisciplina? Nelle società quotate, il codice di autodisciplina prevede un monitoraggio annuale da parte di un panel dedicato, che verifica il rispetto delle norme e invia delle comunicazioni per segnalare le criticità o evidenziare le best practice. Adattare un meccanismo simile al mondo cooperativo, pur tenendo conto della sua frammentazione e delle necessità di proporzionalità nell’applicazione delle norme, sarebbe un passo importante. Questo tipo di approccio non solo rafforzerebbe la governance cooperativa in linea con i criteri ESG, ma trasmetterebbe anche all’esterno un segnale di impegno verso una gestione e un governo più trasparenti e responsabili. È un tema particolarmente rilevante perché, storicamente, il mondo cooperativo non è stato immune da criticità, come la presenza di alcuni fenomeni di autoreferenzialità già citati. L’implementazione efficace delle regole che le cooperative stesse si sono date rappresenta, quindi, un’opportunità per consolidare la propria identità e favorire lo sviluppo e la diffusione del modello cooperativo.
Ritornando all’Articolo 45 della Costituzione, a suo parere oggi la Repubblica riconosce efficacemente la cooperazione e ne promuove adeguatamente l’incremento? Il settore pubblico dovrebbe supportare in modo più efficace i modelli di business più inclusivi e appunto orientati al benessere collettivo e alla preservazione e promozione dei beni comuni?
Francesco Vella: Io sono convinto che il settore pubblico debba in primo luogo rispettare l’autonomia delle imprese. Le cooperative hanno peraltro beneficiato in passato di sgravi fiscali che, però, si sono progressivamente ridotti nel tempo. Se dovessi individuare una funzione per il settore pubblico, sarebbe quella di delineare scenari di politica industriale e, usando un termine oggi forse poco in voga ma significativo, di programmazione economica. Questo renderebbe possibile il raggiungimento dell’obiettivo di indicare chiaramente le direzioni strategiche da seguire. Un ruolo di questo tipo sarebbe cruciale, ma va detto che, purtroppo, il settore pubblico è spesso carente in questo ambito. Considerando gli scenari geopolitici attuali in continua evoluzione, credo che tale intervento sarebbe non solo utile, ma necessario, soprattutto in un contesto unitario europeo.