Scritto da Daniele Molteni
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Il progresso tecnologico sta continuando a trasformare i processi di governance insieme alla nostra idea di umanità, stimolando domande dirimenti sul controllo della conoscenza, sulla libertà e sulle sorti delle democrazie. In questa intervista, Maurizio Ferraris riflette sulle caratteristiche dell’intelligenza naturale e le sue differenze con quella artificiale, da lui definita “il grande archivio dell’umanità”. La sua prospettiva, che evidenzia il crescente valore politico ed economico dei dati prodotti dall’umanità nell’epoca della mobilitazione totale, invita a superare tanto il catastrofismo tecnologico quanto l’ottimismo ingenuo e a promuovere un nuovo welfare digitale, che permetta di redistribuire equamente e democraticamente il valore prodotto dai dati.
L’intervista è stata svolta in occasione dell’incontro “La democrazia aumentata – Il digitale cambia la democrazia?”, che si è tenuto a Roma il 14 novembre nell’ambito dell’International Forum for Digital and Democracy, organizzato dall’associazione Copernicani.
Maurizio Ferraris è professore di filosofia teoretica all’Università di Torino e già direttore del Laboratorio di Ontologia (Labont) presso il medesimo ateneo. Tra le sue numerose pubblicazioni: Imparare a vivere (Laterza 2024), Documanità (Laterza 2021), Postverità e altri enigmi (il Mulino 2017), Mobilitazione totale (Laterza 2016), e Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (Laterza, 2009). È direttore della «Rivista di Estetica», editorialista di «La Repubblica», Fellow della Italian Academy for Advanced Studies in America e della Alexander von Humboldt Stiftung Foundation. È inoltre visiting professor all’ École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi.
Lei sostiene che la tecnologia, più che alienante, sia una rivelazione dell’umano. Che tipo di rivelazione portano le intelligenze artificiali e cosa ci dicono delle intelligenze naturali, cioè biologiche?
Maurizio Ferraris: Sin dall’antichità i filosofi definiscono il naturale attraverso l’artificiale, analizzando le caratteristiche della mente nel rapporto dell’essere umano con la tecnica. Platone e Aristotele parlano di tavolette di cera e, in particolare, Platone è preoccupato della scrittura perché la considera un’imitazione troppo potente di quella “scrittura interna” che sarebbe il nostro pensiero. Locke propone riflessioni simili parlando del foglio di carta, di nuovo un altro tipo di tecnologia; ma pensiamo anche a tutte le sofisticatezze tecnologiche che dispiega Kant per mostrarci come funziona la ragion pura, in cui lo schematismo viene definito uno strumento tecnico. Nel caso delle intelligenze artificiali, vediamo una somiglianza con il modo in cui noi apprendiamo determinate abilità, perché alcune modalità del nostro sapere si formano così come si istruirebbe una macchina complessa: parlare, scrivere, camminare, sono tutti comportamenti che noi esseri umani non possediamo in maniera innata, ma sviluppiamo attraverso processi di apprendimento iterativi e adattivi. Il concetto di intelligenza artificiale è qualcosa di mutevole e vago, che cambia ogni giorno in base a quello che consideriamo quando ne parliamo. Se dovessi darne una definizione, direi che è “il grande archivio dell’umanità”, perché ciò che ha reso possibile l’intelligenza artificiale è la disponibilità massiva di dati, generati quotidianamente da tutti noi. È possibile pensarla come una sorta di bibliotecario velocissimo che attinge a questi dati offrendoci informazioni, talvolta vere e talvolta false, che è poi quello che avviene nelle biblioteche normali.
Quali sono le differenze principali tra l’intelligenza artificiale, la nostra intelligenza e quella degli animali non umani?
Maurizio Ferraris: Le differenze tra l’intelligenza naturale e quella artificiale sono molteplici. Intanto l’intelligenza naturale è incarnata in un corpo: i desideri, i sentimenti, i timori, sono tutti elementi che hanno gli umani in quanto viventi, come ogni altro organismo, e che le macchine non possono avere. Nasciamo dotati della volontà, siamo dominati dalla nostra oppure ci riscopriamo paralizzati da quella altrui, e il fatto che per noi sia così importante ci dice che l’intelligenza naturale è una mente finalizzata e con degli obiettivi che ricerchiamo in prima persona. La macchina, al contrario, non ha volontà e finalità: quando vince a scacchi, è perché qualcuno l’ha programmata per vincere, altrimenti non avrebbe mai nemmeno iniziato la partita. Una seconda differenza è che tutti gli organismi muoiono e hanno un metabolismo che cerca di differire il più possibile questo momento della morte. Questo tentativo di differimento condiziona potentemente la vita della mente degli esseri umani nella ricerca di quegli obiettivi di cui sopra, mentre non può fare altrettanto con una “mente artificiale”, posto che si possa parlare della mente di un telefonino o di un computer. Quella umana è una mente attrezzata che fa un uso sistematico di attrezzi. Fra questi attrezzi, insieme agli occhiali, ai tavoli, alle penne e ai fogli di carta, c’è l’intelligenza artificiale. Questo ci differenzia non rispetto alle macchine, ma rispetto agli animali non umani, che certo fanno un uso occasionale di attrezzi ma non sono un’intera forma di vita governata dal rapporto con la tecnologia. Tramite questo rapporto, la nostra mente è capitalizzata proprio perché produciamo memorie sia interne che esterne, attraverso cui riusciamo a capitalizzare il sapere e a trasmetterlo alle generazioni successive. Anche questa è una caratteristica che non ha nessun tipo di animale non umano, una pedagogia consapevole che ci accompagna per tutta la vita. È un capitale di sapere e di verità che appartiene all’umano, senza il quale non ha alcun significato. Non si tratta di essere iper-antropocentrici ma di situare la nostra posizione: siamo quel pezzetto dell’universo che presenta questo tipo di forma di vita e dentro a quella forma di vita c’è il sapere. Tante altre forme di vita non hanno il sapere come loro caratteristica, ma non dobbiamo descrivere tutto questo sempre in termini di vantaggi evolutivi. C’è, anzi, rispetto all’umano l’idea che abbia un forte svantaggio evolutivo perché non ha un suo mondo proprio e ne abita sempre di diversi: questo fa sì che sia sempre esposto, angosciato, con tendenze a capitalizzare, perché non sa che cosa gli succederà l’indomani. Se ci pensiamo, un gatto a quattro mesi è già autonomo, mentre un umano non lo è neanche a quaranta o a ottant’anni.
Come ha sottolineato, la mente umana, incarnata, finalizzata e attrezzata, diventa capitalizzata attraverso il progresso della tecnica. Nel definire questo progresso lei parla di documentalità e documedialità: cosa si intende con questi due termini e cosa comporta questo passaggio? La mobilitazione digitale totale nella sua incessante richiesta di azioni a cui non possiamo sottrarci, che ha permesso l’avvento di quello che ha definito il “grande archivio dell’umanità”, implica per la libertà individuale? Il fatto di essere sempre connessi e sempre più legati a nuove “intelligenze” come ridisegna il nostro concetto di libertà?
Maurizio Ferraris: Per decenni ci sono stati tentativi di creare un’intelligenza artificiale che funzionasse, poi a un certo punto una serie di aziende, neanche ad altissimo contenuto tecnologico, hanno raggiunto l’obiettivo. Questo perché è cresciuto l’archivio dell’umanità, reso possibile dall’immensa capacità di memorizzazione e analisi delle tecnologie moderne nell’ambito della documentalità – la tendenza a registrare ogni evento o dato – che è strettamente legata alla documedialità, ossia alla capacità di condividere e accedere a queste informazioni in tempo reale. Si è avuta così la saldatura tra un archivio ampio e un sistema statistico che in termini probabilistici identifica quale parola viene più normalmente dopo un’altra. È il principio per cui funziona la messaggistica dei nostri smartphone, che si addestra rapidamente perché può fare riferimento a un corpus molto specifico, cioè i messaggi che noi mandiamo, mentre nel caso dell’intelligenza artificiale generativa il corpus è potenzialmente illimitato. Questo progresso ha trasformato profondamente il nostro rapporto con la memoria e l’informazione ma, in genere, siamo sempre stati dipendenti dagli apparati tecnici. Le dipendenze peggiori nella nostra vita, però, molto spesso non riguardano tanto le cose quanto le persone: sono delle figure della famiglia, dei partner o dei superiori gerarchici. Questa è una caratteristica tipica dell’umano, essere un animale dipendente. La transizione tecnologica odierna ha dunque conseguenze dirette sulla libertà individuale perché la connessione costante e la presenza di questi archivi digitali ci rendono dipendenti dalle piattaforme tecnologiche di aziende private che non solo organizzano la nostra memoria collettiva, ma la monetizzano a scopi commerciali. La differenza dalla dipendenza classica dalla tecnologia è che in questo caso i dati generano un valore che viene sfruttato commercialmente, tanto in Cina quanto negli Stati Uniti (molto meno in Europa) in modi differenti. L’intelligenza artificiale è un modo geniale per capitalizzare i dati in questo senso, e noi stiamo navighiamo dentro questa docusfera piena di dati, una Biblioteca di Babele senza fine. Potrebbero avere poco valore da soli, ma se un motore di ricerca che li utilizza permette di dare delle risposte e le persone lo sfruttano, quei dati hanno un valore. Sono ciò che era il petrolio prima che inventassero le automobili moderne, da risorsa inutilizzata si trasformano in uno strumento per la produzione di valore. Un patrimonio dell’umanità, in quanto suo prodotto, che però l’umanità stessa eroga gratuitamente, senza ottenere nulla in cambio. Questo crea situazioni paradossali, come nel caso dell’elettorato statunitense che si sente tagliato fuori dal progresso – tecnologico in particolare – e dagli utili che contribuisce a creare ma senza concettualizzare il fatto di essere produttore di dati. Questi cittadini si sentono poveri ed esclusi dai ricchi della East Coast o della Bay Area di San Francisco e così, come poi è andata nelle ultime elezioni, votano il candidato presidente che a parole è contrario a questa élite definita non meritevole e corrotta, ovvero Donald Trump. Questo è l’aspetto para-razionale di tutto il discorso, ma l’aspetto più paradossale è che il grande consigliere/burattinaio del vincitore è stato Elon Musk, che più di molti altri imprenditori e sicuramente più della maggioranza degli americani capitalizza sui dati delle persone.
Uno dei concetti chiave della sua lettura del rapporto tra umano e tecnologia nella contemporaneità è quello di webfare (welfare digitale), che comporta la redistribuzione della ricchezza derivante dai dati personali che, come accennato, sono ciò che produciamo come plusvalore nel nostro passaggio da homo faber a homo valens. Come agisce questa sua concezione sul rapporto tra lavoro e automazione? È auspicabile o immaginabile l’utopia di una vita liberata dal lavoro?
Maurizio Ferraris: La nostra vita, anche se non ce ne accorgiamo, in un certo senso è già stata liberata dal lavoro. Cinquant’anni fa Torino era una company town: se una persona alla mattina camminava per la città le strade erano deserte, perché tutti erano in fabbrica, chi a comandare, chi a obbedire, chi a distribuire. Ora non più, perché stiamo vivendo una riduzione dello spazio del lavoro nel senso tradizionale del termine. Quello che è però vero è che proporzionalmente assistiamo a una crescita della mobilitazione degli umani tramite la produzione dei dati sui nostri diversi dispositivi, che, come detto, possono avere valore. È dunque necessario che questi dati, in un’autentica democrazia vengano adoperati per sostenere e migliorare la società. Dico in un’autentica democrazia perché una redistribuzione di valore parzialmente avviene in Cina. Tuttavia, essendo le piattaforme di proprietà dello Stato, i cittadini cinesi sono sottoposti a un controllo enorme su ogni singolo elemento della loro vita. Nessuno di noi vorrebbe vivere con questo controllo, ma credo che tutti coloro che hanno votato Trump sarebbero contenti di scoprire che sono dei produttori di dati e che ci potrebbero essere delle azioni di welfare digitale, cioè appunto di webfare, che permetterebbero di ridurre il loro disagio, fra l’altro avvalendosi di un capitale che non esisteva prima. Sappiamo che il grande rimprovero che è stato mosso a Franklin Delano Roosevelt quando ha lanciato il New Deal è che prima gli Stati Uniti non erano un Paese indebitato, mentre successivamente sono diventato il Paese più indebitato al mondo. Questo perché Roosevelt basava il suo New Deal sul servizio di un valore già esistente, cioè sul prendere i capitali esistenti e tassarli per dare lavoro a tutti, ridurre il disagio sociale, eccetera. Questa azione è stata possibile precisamente perché non si aveva altra scelta e non si poteva attingere ad altre fonti, mentre nel caso del webfare si può attingere da altri dati, da altri valori, sostanzialmente da una gestione democratica della tecnica. Una risposta possibile alla redistribuzione di questo valore prodotto dall’umanità è dunque la socializzazione dei dati: un processo in cui la proprietà e i benefici vengono condivisi equamente tra tutti, invece di essere concentrati nelle mani di pochi attori.
Ritornando sul rapporto tra Elon Musk, che è anche possessore di X (ex Twitter), e Donald Trump, cosa implica per la democrazia questa saldatura del potere tecnologico con il potere politico, che emerge come vincitore anche con il contributo degli effetti della post verità e della disinformazione?
Maurizio Ferraris: Il rischio di questo rapporto sempre più stretto tra potere politico e potere tecnologico è che venga a crearsi la situazione presente in Cina e del resto l’intento sembra proprio quello. Il discorso che viene fatto quando si parla di sviluppo tecnologico è che l’Occidente deve diventare competitivo rispetto a Pechino e ciò che si dice conseguentemente, in modo più o meno esplicito, è che senza una specie di governo centralizzato che tenga insieme la politica e la tecnologia non sarà possibile competere con la Cina, che in effetti questa unione politico-tecnologica l’ha già realizzata. La differenza è che almeno il Partito Comunista Cinese gioca a carte scoperte in questo caso, perché emette delle direttive che vengono osservate da livelli sempre più ampi della popolazione con un controllo estremo. Da noi definire questo genere di azioni democrazia sarebbe problematico, nel senso che non ha nulla propriamente a che vedere con i valori democratici e illustra piuttosto il noto asserto di Platone secondo cui la democrazia è l’immediato antecedente della tirannide. Ovvero che la democrazia, a un certo punto, proprio per la sua forma disgregante che determina il dare voce a grandi quantità di persone, crea una situazione caotica nella quale si propiziano le condizioni per l’emersione del tiranno.
In questo contesto come si possono muovere la produzione di sapere e la filosofia? Esiste, secondo lei, più in generale il pericolo di un nuovo populismo digitale che rafforza comportamenti e pensieri superficiali? Occasioni come i dialoghi e il simposio promosso dai Copernicani possono essere un antidoto a questo tipo di derive?
Maurizio Ferraris: Sono un antidoto che però agisce soltanto su coloro che non sono già infettati dal virus. Perché, in fondo, sono delle iniziative di una élite illuminata che riflette sulla condizione in cui viviamo e che purtroppo ha un impatto limitato. A mio giudizio la vera azione per sostenere la democrazia sarebbe riuscire a socializzare i dati, con questo riducendo lo scontento, che è quello che poi spinge le persone a convincersi che la Terra è piatta o altre assurdità del genere, in una sorta di rivalsa nei confronti di tutto il mondo che afferma, scientificamente, il contrario, solo per far sentire la propria voce. Questa è la manifestazione di un disagio, di uno scontento, di una frustrazione. Bisogna evitare che l’umano si riduca a questa condizione e per farlo non si può fare nient’altro che ridare dignità all’umano attraverso la redistribuzione del valore prodotto dai dati.
Una delle questioni più frequenti che emergono quando parliamo di tecnologia e in particolare di intelligenza artificiale è se sarà in grado di interagire con l’intelligenza naturale in modo autentico e autonomo, come una coscienza artificiale disincarnata; o se, al contrario, rimarrà sempre una simulazione. Lei sostiene che una coscienza situata nell’intelligenza artificiale non potrà mai esistere perché quest’ultima sarà sempre priva di vita e di bisogni, di emozioni, dunque di corporalità, a differenza dell’intelligenza biologica la cui coscienza deriva dalla sua organicità. Le ipotesi di un’intelligenza artificiale generale che arrivi a dominare l’umano sono quindi solo speculazioni irrazionali? Che differenza esiste tra la coscienza situata e l’automazione pura?
Maurizio Ferraris: Quello dell’intelligenza artificiale che dominerà l’umanità è un grido di terrore infondato, lanciato molto spesso da coloro che lavorano proprio nell’ambito dello sviluppo di queste tecnologie. È un “al lupo! al lupo!” che ci viene continuamente proposto e non a caso uno dei più pervicaci su questa strategia è proprio Elon Musk. Allora uno si chiede, perché fa questo? Beh, intanto perché la paura attira molto di più l’attenzione che non le cose simpatiche o rassicuranti. Questo è il primo punto, il secondo punto è che le persone preoccupate che ci sia un computer che governerà la propria vita preferiscono farsi governare da Musk e Trump. Forse io farei il contrario se fosse possibile, ma so che non è possibile perché i computer non possono governare la nostra vita.
A partire da questa consapevolezza, cosa servirebbe per pensare un nuovo umanesimo all’altezza delle sfide delle crisi che affrontiamo nella contemporaneità, come quella climatica ma anche la stessa crisi della democrazia? Ritornando sull’esperienza dei Copernicani, come si inseriscono in questo nuovo umanesimo le associazioni promotrici di una rinnovata concezione ottimistica della tecnologia, in questo caso anche con caratteristiche europeiste?
Maurizio Ferraris: Io penso che il punto fondamentale sia dare le condizioni a tutta l’umanità di non avere paura. L’economia della paura è molto forte in questo periodo, come accennavo poco fa, ma è necessario avere speranza. Per fare questo io credo che una politica umanistica e, se vogliamo, di sinistra, dovrebbe essere una politica legata al fornire delle possibilità sostanziali alle persone. Cioè, non semplicemente dare delle forme ai diritti, che è un’insistenza giusta ma che da sola rischia di dare sempre la vittoria a una destra reazionaria. Questa destra vince perché riesce a convincere che, mentre la sinistra offre soltanto i diritti, la destra è a sostegno della gente semplice che non chiede tanti diritti ma è più interessata a questioni materiali che toccano la vita quotidiana, che vengono indirizzate e affrontate. Servirebbe cancellare questa immagine facendo sì che anche la sinistra – e, secondo me, il webfare sarebbe un momento importante in questo cammino – sia capace di dare delle risposte anche più efficaci di quelle della destra. Ad esempio, sebbene siamo abituati a pensare che le guerre le faccia la sinistra, se andiamo a guardare chi sono coloro che sono implicati nelle guerre attuali cercando di situarli negli schieramenti politici, non li troveremmo precisamente a sinistra. In conclusione, il grande problema del rapporto distorto con la tecnologia è quello di togliere la speranza, che poi è lo stesso problema che si ha nella politica. Dal momento in cui non c’è più la speranza in politica si apre la via verso la tirannide. O, più semplicemente, verso un disinteressamento degli esseri umani alla politica che lascia grande spazio di manovra a coloro che hanno degli interessi in campo solidi e spesso antidemocratici.