Scritto da Giulio Pignatti
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In L’opinione dei moderni. Scienza sociale, critica e politica in Durkheim, Giulio Pignatti offre una lettura volta a sottrarre il padre della sociologia francese, Émile Durkheim, da una canonizzazione che ne irretisce il pensiero, mostrando anzi come nei suoi testi si delinei il compito critico della scienza sociale. Di seguito pubblichiamo, per gentile concessione di Castelvecchi Editore / Lit Edizioni, un estratto del libro, la sua Introduzione, in cui l’autore presenta i due gesti di cui si compone la critica sociologica intesa come “scienza dell’opinione”. Si tratta di una definizione apparentemente ossimorica che Durkheim impiega nella sua ultima grande opera e che accosta la pretesa di scientificità della sociologia e le forme con cui le società moderne prendono coscienza di sé, delle proprie aspirazioni e dei propri valori.
C’è un mistero nella nostra vita politica e sociale, così visibile da apparire occultato. Molti dei principi – se non tutti – che intessono la nostra rappresentazione della vita in comune, animano le nostre costituzioni e danno forma alle istituzioni rivelano una dissonanza rispetto al modo in cui concretamente le pratiche istituzionali e sociali si svolgono. Concepiamo ad esempio l’attività legislativa del Parlamento come portatrice dell’interesse generale, ma generalmente l’opinione pubblica non si riconosce negli atti dei propri rappresentanti. Il parlamento, pensato comunemente come il luogo di incontro e di mediazione tra esigenze particolari o posizioni parziali, non svolge questa funzione perché i membri dell’assemblea si ritrovano scissi tra la vocazione a rappresentare le istanze dei territori di provenienza e il principio costituzionale dell’assenza di vincolo di mandato, per cui ogni parlamentare dovrebbe rappresentare l’intera nazione. L’interesse collettivo, poi, sempre più viene espresso da istituzioni particolari, come l’esecutivo (ad esempio attraverso la decretazione d’urgenza) o addirittura l’organo giudiziario, che si ritrova in maniera crescente a intervenire al posto del Parlamento in merito all’indirizzo da adottare su temi che risultano conflittuali in sede sociale. La società civile, si dice, si può organizzare per fare da controcanto al potere politico e presentare le proprie istanze nella sfera pubblica, ma costituzionalmente si fatica a trovare un canale attraverso cui l’opinione possa esercitare una pressione effettiva sull’organo di governo.
Ad un livello più profondo, poi, la concezione stessa che risiede alla base dei sistemi politici moderni occidentali, quella per cui gli individui nascono liberi (cioè autonomi) e tra loro uguali – concezione sulla quale è modellato il mercato come libero scambio tra soggetti immaginati sullo stesso piano –, è smentita dalla quotidianità più ordinaria. La realtà non mostra individui “monadici”, autonomi nel perseguire il proprio interesse e solo accidentalmente costretti all’incontro con altri soggetti simili, bensì un tessuto inestricabile di relazioni, che porta alla costituzione di gruppi, di interessi particolari, di linguaggi e norme comuni, rispetto ai quali la devianza è riprovata socialmente o sanzionata giuridicamente. Un tessuto formato anche da rapporti di dominio – quelli che costringono, ad esempio, una persona ad accettare un contratto di lavoro per necessità e solo formalmente in maniera libera –, o plasmato dallo sguardo sociale, quello della moda e dell’opinione collettiva maggioritaria, che modella le identità anche quando esse si vorrebbero singolari e auto-normate.
Questo generico affresco non è altro che una raccolta di esempi sparsi di quelli che il senso comune pensa di volta in volta come problemi contingenti, urgenti perché considerati indice di una mancanza soggettiva e accidentale. Come quella dei parlamentari nello svolgere il proprio compito adeguatamente, oppure quella del mercato nel non produrre l’equilibrio promesso. Nell’opinione pubblica e nell’azione di governo, insomma, non si vede lo sfasamento tra principi e realtà se non sotto l’ottica “emergenziale” della crisi attuale, della corruzione di questo ceto politico, dell’incapacità di questi partiti a svolgere un ruolo di mediazione, dell’egoismo degli Stati nazionali europei in questa congiuntura del progetto comunitario, di viziosità esterne che influenzano il mercato e la “libera” concorrenza, e così via. A rischio di operare una generalizzazione semplicistica, si può affermare che anche una parte consistente dei saperi politici non sembra discostarsi decisivamente dalla rappresentazione del senso comune e da un assetto categoriale di cui si dà per scontata l’universalità[1]. I fenomeni politici e sociali che via via si danno nell’esperienza collettiva vengono studiati attraverso il metodo delle scienze empiriche e considerati così come naturali; essi si danno, appunto come dati da descrivere, o al limite da spiegare attraverso un’interconnessione superficiale, che segue per lo più le rappresentazioni degli attori. Tutt’al più, per il fatto che tali fenomeni sono considerati allo stesso tempo come contingenti – dal momento che il problema della loro genesi e struttura rimane obliterato –, i saperi politici si propongono come “terapeutici”, funzionali all’azione di governo, relativamente ad una situazione patologica momentanea, necessitante di essere riportata nell’alveo della normalità.
Nell’ultima grande opera pubblicata da Émile Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, apparsa nel 1912, la sociologia viene caratterizzata, con una formula paradossale, apparentemente ossimorica, come «scienza dell’opinione»[2]. Si tratta del punto d’approdo di un percorso attraverso il quale Durkheim determina la nascente scienza sociale – di cui vuole essere il padre fondatore dal punto di vista tanto epistemologico quanto accademico e istituzionale – come una scienza che ha le rappresentazioni collettive come proprio oggetto peculiare, irriducibile a quello della filosofia o delle altre scienze. Le rappresentazioni collettive sono le forme in cui i gruppi sociali pensano le proprie pratiche e istituzioni, il risultato di quel processo di simbolizzazione attraverso cui si può dare una produzione e riproduzione del legame sociale. Ma per quale motivo è il carattere di autorità morale del fatto sociale – la dinamica, cioè, per cui esso agisce sulle coscienze degli individui e dei gruppi quasi con la stessa cogenza che le leggi naturali hanno sugli oggetti – a diventare sempre più il centro della tematizzazione della sociologia durkheimiana?
Questa sovrapposizione di scienza sociale e scienza morale, che, lungi dal rappresentare una rottura che dividerebbe un “primo” da un “secondo” Durkheim, testimonia piuttosto un’evoluzione del pensiero di cui si trovano i prodromi già nei primissimi testi del sociologo, è giustificata da un’esigenza critica di cui la sociologia si fa carico in quanto scienza eminentemente moderna. È solo nella modernità occidentale, caratterizzata dallo “spazio vuoto” prodotto dalla secolarizzazione e dalla parallela emancipazione del giudizio degli individui e dei gruppi sociali, che si può produrre un ordine di discorso riflessivo della società su se stessa, che pone continuamente in questione le proprie norme comuni[3]. La modernità politica europea, che trova il suo fulcro nella Rivoluzione Francese e nel processo di formazione degli Stati-nazione contemporanei che vi segue, testimonia per Durkheim uno scarto dovuto, da una parte, a un aumento vertiginoso della divisione del lavoro sociale, allo svincolamento dal tipo sociale segmentario, all’espansione della sfera economica; dall’altra parte, a un sistema morale e giuridico parziale e incapace di fornire degli ideali e delle regole adeguati alle nuove attese sociali. Le istituzioni positive, essenzialmente quelle liberali, fissate con la Terza Repubblica francese e frutto dell’aspirazione moderna all’autonomia individuale, non erano sufficienti per rispondere all’altro grande fenomeno caratteristico delle società a solidarietà organica, oscurato anzi sia epistemicamente sia politicamente dal liberalismo, cioè l’aumento dell’interdipendenza sociale, della differenziazione dei ruoli sociali, della mobilità e della concentrazione urbana. In una parola: la solidarietà, il corrispondente sociologico di quella fraternité rivoluzionaria che, a differenza degli altri due termini del celebre motto rivoluzionario, la liberté e l’egalité, non aveva trovato uno spazio costituzionale nell’assetto post-rivoluzionario.
Le aspirazioni, i bisogni e gli ideali immanenti alle pratiche dei gruppi sociali, nella loro eterogeneità e conflittualità, possono insomma essere in contrasto con le strutture morali e giuridiche in cui si articola la società – con la sua costituzione. È da questo scarto che nascono le patologie della modernità che Durkheim analizza principalmente nella Divisione del lavoro sociale (1893) e nel Suicidio (1897): innanzitutto l’anomia, ma anche la divisione coercitiva del lavoro e la burocrazia. Nonostante le differenze tra questi concetti, il comune denominatore risiede nell’impossibilità sociale e politica di articolare esigenze e ideali – rappresentazioni che, lungi dall’essere un prodotto meramente teorico, nascono e si sviluppano in intimo legame con le pratiche e coi momenti di effervescenza collettiva –, che rimangono così soffocati. Per Durkheim, che vive in un tempo di crisi del sistema parlamentare liberale e di grande sviluppo dei movimenti dei lavoratori, si tratta innanzitutto delle richieste di giustizia sociale, di regolazione della sfera economica, di equità delle condizioni in cui avvengono scambi e contratti, ma anche dei sentimenti diffusi di solidarietà e di carità.
Per quanto il contesto storico-sociale sia profondamente mutato, anche le discrasie con cui abbiamo aperto questa introduzione possono testimoniare una simile situazione di crisi del sistema democratico liberale (e dell’assetto economico neoliberale), che, terminata la spinta dei movimenti sociali, dei partiti e delle ideologie, mostra l’incapacità strutturale di governare le crisi del presente. In particolar modo, un’analisi durkheimiana del presente permetterebbe di mettere in luce la problematica dell’assenza di canali di comunicazione tra i gruppi sociali e il governo – quella che viene chiamata disintermediazione e che può mostrare, sociologicamente, sia l’incapacità della società di organizzarsi intorno a credenze ed esigenze comuni sia la mancanza di una cinghia di trasmissione rispetto all’organo governativo – e le patologie in termini di mancanza di regolazione che questo implica[4].
In questo lavoro ci limiteremo ad attraversare le opere durkheimiane, tenendo presente che il lavoro del sociologo di Épinal si svolse in una fase in cui dalla crisi del sistema parlamentare liberale riemergeva in maniera non solo riflessivo-teorica ma anche direttamente politica la questione dell’opinione sociale e della sua forza effervescente. L’opinione si mostra come il perno che garantisce l’ordine della società ma che ne permette anche una trasformazione. Così, è a partire dallo scarto che abbiamo menzionato che si apre, per Durkheim, tanto il problema politico, legato alla possibilità di governare la pluralità di istanze che emergevano da gruppi sociali sempre più eterogenei – legato alla possibilità, dunque, di un governo dell’opinione –, quanto quello epistemologico relativo alla scienza sociale come scienza dell’opinione.
Non va da sé sostenere che la sociologia si costituisca, nel suo atto fondativo, come scienza dell’opinione. È, questo, un Durkheim molto diverso da quello di cui si legge normalmente sui manuali. Come succede spesso ai classici, la ricezione di Durkheim e la canonizzazione tra i padri della disciplina sociologica – a cui tributare l’onore dello “scopritore” ma poco più – ha irretito il suo pensiero in una serie di etichette semplicistiche, se non direttamente erronee. Positivismo, funzionalismo, talvolta materialismo, conservatorismo politico sono gli attributi con cui viene tinteggiata la sociologia durkheimiana e che tuttavia ne neutralizzano la complessità, la pluralità concettuale e, non da ultima, la carica politica. I motivi di una ricezione così stereotipata – che si rispecchia in una presentazione che privilegia solo pochi e obsoleti concetti – non possono essere rintracciati qui, ma hanno senz’altro a che fare con la riproposizione “parziale” dell’opera durkheimiana da parte di Talcott Parsons negli Stati Uniti, nonché, in Francia, con la disgregazione della scuola durkheimiana dopo la morte del maestro.
Nonostante non sia facile stabilire una filiazione “diretta” del durkheimismo, nondimeno in Francia il pensiero di Émile Durkheim è rimasto – oltre che l’espressione di un certo “stile” francese in scienze sociali – un pilastro rispetto al quale posizionarsi, esplicitamente o meno. Ne sono un esempio i grandi scienziati sociali del Novecento francese: tra gli altri, Marcel Mauss, Claude Lévi-Strauss, Pierre Bourdieu. La ricezione di Durkheim ha poi subito ulteriore impulso in seguito alla pubblicazione di importanti opere postume come le Lezioni di sociologia, apparse nel 1950, o i Textes raccolti da Victor Karady nel 1975. A partire almeno dagli anni Settanta, poi, in Gran Bretagna si è assistito ad una riscoperta di una versione meno stereotipata del pensiero di Durkheim. Si è sviluppata così, in contrapposizione frontale con Parsons, una maggiore attenzione al “secondo Durkheim”, con un accento sulla dimensione culturale della vita sociale. Questa svolta ha prodotto i suoi rispettivi eccessi, ad esempio con la lettura di Jeffrey C. Alexander, allievo eretico di Parsons.
Se i classici rinascono in nuove forme a ogni tempo storico che li interpella, il “nuovo Durkheim”, detradizionalizzato, è oggi al centro di un’ulteriore fase di rinascita che ne sottolinea la rilevanza per affrontare le sfide politiche, sociali ed economiche del nostro tempo e che valorizza non un “primo” Durkheim materialista e funzionalista o un “secondo” Durkheim idealista e culturalista, bensì la continuità di un pensiero complesso e sempre in evoluzione, in cui l’elemento politico-morale è centrale[5]. Tra tutti, è in tal senso da ricordare il lavoro del Laboratoire interdisciplinaire d’études sur les réflexivités – Fonds Yan Thomas (LIER-FYT) dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales, i cui risultati sono ampiamente utilizzati e discussi in questo libro.
Sulla scorta di recenti contributi che hanno solcato questo sentiero anche in ambito italiano, tradizionalmente più refrattario ai “nuovi Durkheim” – tanto più sui temi della sociologia politica –, questo libro si propone allora di prendere sul serio la sociologia durkheimiana come sociologia critica[6], e in particolare critica relativamente a quell’oggetto determinato che è l’opinione dei moderni. Abbiamo brevemente tratteggiato quest’ultima come frutto del processo di differenziazione sociale, di astrazione della morale collettiva, meno compatta nei contenuti e nella forza integrativa, caratterizzata dall’elevazione del “culto dell’individuo” a valore assoluto – tutti elementi che trovano nella Rivoluzione Francese un punto nodale. Di fronte a questa religione moderna, sostanziata da un insieme peculiare di istituzioni, culti e riti – si pensi alla cerimoniosità con cui si svolge il giorno delle elezioni –, si muove la scienza sociale. In quali modalità? Nella maniera paradossale contenuta nella formula stessa di “scienza dell’opinione”: la scienza sociale non procede né a una rottura assoluta con un’opinione intesa come mera apparenza o illusione abilmente manovrata, né, d’altra parte, ad un’accettazione, più o meno consapevole, del senso comune, dell’autocomprensione di cui si dotano, sempre con un fine pratico, i gruppi sociali. La scienza sociale non può rompere con l’opinione in senso assoluto perché questa costituisce il suo oggetto, o quantomeno una parte rilevante di esso. Se per il fisico l’opinione comune di come si svolga l’interazione tra le particelle elementari è irrilevante – e anzi può causare un impedimento all’incedere stesso della pratica scientifica –, per il sociologo il modo in cui gli attori sociali rappresentano e giustificano il proprio agire e le strutture sociali in cui sono immersi è un indizio fondamentale, non solo perché può fornire una stampella alla comprensione scientifica, ma più essenzialmente perché la riflessività trasforma da dentro le istituzioni. Il modo in cui viene percepita una norma positiva, anche se non coincide con l’oggettività formale di tale norma, trasforma quest’ultima: trasfigura gli usi a cui essa dà luogo, altera il rapporto che la cosiddetta opinione pubblica ha nei suoi confronti, talvolta giunge anche a rivoluzionarla positivamente. Questo proprio per il fatto che la norma è il precipitato di un processo di simbolizzazione e di valorizzazione collettiva, che nella modernità si fa sempre più differenziato, conflittuale e mediato.
Prendiamo un esempio con cui abbiamo aperto questa introduzione e su cui torneremo nel terzo capitolo: l’istituzione delle elezioni politiche, concepita costituzionalmente come il processo di autorizzazione, da parte del popolo, di un rappresentante che, in seno all’organo legislativo, parlerà sempre a nome dell’intera nazione (libero mandato). Il fatto che però l’elezione venga percepita – in realtà sempre meno, proprio perché le trasformazioni sono costantemente in atto – come il luogo in cui scegliere colui che rappresenterà un determinato territorio, delle determinate esigenze, un determinato gruppo sociale e ne porterà le istanze in parlamento, per il sociologo – a differenza, ad esempio, del giurista – non consiste in un mero “errore”. Si tratta bensì di un indizio del fatto che, almeno per Durkheim, la vita democratica spinge verso una maggiore comunicazione riflessiva tra governati e governanti. Questa spinta trasforma da dentro le istituzioni, ne rende alcune delle semplici sopravvivenze, più o meno funzionali a determinate strutture sociali e di potere, fornisce nuova linfa e significato ad altre.
Allo stesso tempo, però, Durkheim dedica le Regole del metodo sociologico (1895), opera tuttora considerata un manifesto fondativo della sociologia – ma che andrebbe letta in pendant con altri scritti metodologici, come quelli contenuti nella raccolta Sociologia e filosofia –, proprio a rivendicare la rottura della sociologia con le praenotiones e gli idola, in un’analogia col metodo baconiano e quindi con le scienze cosiddette “naturali”. È quello che Durkheim compie concretamente, nella propria pratica di sociologo, preponendo alla trattazione di molti concetti fondamentali una critica delle definizioni preliminari del proprio oggetto di indagine. Discutendo della proprietà, ad esempio, Durkheim prende le mosse da un attraversamento della nozione di proprietà-lavoro caratteristica del liberalismo (da Locke a Mill), quindi della teoria kantiana dell’appropriazione originaria, infine della nozione di “bisogno normale” in Rousseau.
La sociologia rompe con quei saperi che, attraverso una pretesa di scientificità, occupano il suo spazio epistemico e ne occultano l’oggetto sui generis, cioè il sociale inteso come entità irriducibile alla somma degli individui. Questo complesso di saperi è quello che è stato chiamato, nell’ambito della ricezione italiana, e in particolare padovana, della Begriffsgeschichte tedesca di Reinhart Koselleck e Otto Brunner, “concettualità politica moderna”[7], e nel quale per Durkheim rientrano tutti gli approcci fondati sull’individualismo metodologico (come la filosofia morale, il contrattualismo, l’economia politica e alcune correnti della psicologia).
Ciò che ci interessa mostrare qui è che la cosiddetta “scienza politica moderna”[8] – che si rivelerà essere tutt’altro che scienza – non occulta solamente l’oggetto sui generis che è la società (attraverso, ad esempio, il concetto di società civile), ma anche lo spazio stesso dell’opinione come spazio riflessivo in cui, nella modernità, si gioca la produzione e riproduzione dell’ordine sociale. O meglio: da una parte ne coglie con una certa radicalità la funzione, dall’altra, epistemicamente, ne ostacola la comprensione, innanzitutto attraverso una nozione ideologica come quella di opinione pubblica. Questa ambivalenza emerge significativamente nell’indecisione, da parte di Durkheim, sul collocamento del pensiero di Rousseau. Da una parte egli vi vede un contrattualista, che pensa il rapporto sociale nella modalità di una radicale depoliticizzazione delle determinatezze concrete di cui esso si compone. Perché il contratto sociale sia possibile, occorre che:
«Ogni coscienza particolare si ponga il problema politico in tutta la sua generalità. Ma a questo scopo ogni individuo dovrebbe uscire dal suo campo specifico […] Se l’adesione è unanime, il contenuto di tutte le coscienze è identico e quindi, nella misura in cui la solidarietà sociale proviene da una causa di questo genere, non ha nessun rapporto con la divisione del lavoro[9]».
Insomma, nella filosofia politica moderna di ascendenza giusnaturalista, l’individuo è politico solo nella misura in cui egli, in quanto citoyen, fa astrazione dal proprio essere immerso in un tessuto sociale fatto di interessi comuni e condizioni materiali. La politica si costituisce nella modernità come comando autorizzato che deve astrarre proprio da ogni parzialità sociale, vista come tirannica. L’altra faccia della medaglia è dunque una società civile in cui si coltivano opinioni e credenze in maniera del tutto privata, interiore, e lo scambio con gli altri individui avviene solo in maniera contingente e con fini economici e strumentali[10]. Come sostenevano illuministi e ispiratori della Rivoluzione Francese, l’unica opinione politicamente “vera” è qui quella che astrae e sradica l’opinione sociale, tramandata dalla tradizione e frutto delle appartenenze ai gruppi intermedi, dei rapporti di dominio o addirittura dei differenti climi, come sostiene Montesquieu[11].
Ma, dall’altra parte, Rousseau – per questo considerato da Durkheim “precursore della sociologia”, così come Montesquieu – coglie che al cuore della modernità politica deve risiedere necessariamente un dispositivo di disciplinamento che faccia pensare ai soggetti di essere innanzitutto degli individui, e quindi dei soggetti di diritto, dall’autonomia inviolabile. Questa autorappresentazione emerge dalle tendenze sociali che caratterizzano il passaggio da società segmentarie a società a solidarietà organica, ma va continuamente prodotta e riprodotta. Tale dispositivo è colto perfettamente nel Contratto sociale, in particolare nella figura del Legislatore. Il ruolo svolto da tale figura presentata come sovrumana è, nel suo livello più profondo, proprio quello di «cambiare, per così dire, la natura umana»[12] e di renderla adatta alla libertà su cui necessariamente si fonda il patto sociale. Quella del Legislatore è un’«opera di rischiaramento della collettività»[13], necessaria a farle vedere l’interesse generale al di là delle influenze di opinioni distorte e bisogni particolari. Per questo Rousseau segnala che la pietra angolare della società politica, la legge più importante, è quella «che non si incide né nel marmo, né nel bronzo, bensì nel cuore dei cittadini»[14], e cioè i costumi, le consuetudini e soprattutto l’opinione. Il Legislatore, che rappresenta più che altro una funzione (la stessa incarnata anche dalla religione civile del penultimo capitolo dell’opera), deve compiere un continuo lavoro sull’opinione dei moderni per produrre l’autorappresentazione di sé della società che, seppur in rottura con l’esperienza quotidiana, è necessaria alla riproduzione del sistema politico liberale. Ecco che, dunque, l’opinione è stata recentemente studiata proprio in quanto «segreto della politica moderna»[15]. È solo se rappresentazioni politiche moderne quali lo Stato, l’individuo, il contratto, la rappresentanza e l’opinione pubblica vengono concepite come appartenenti alla sfera dell’opinione che si riesce a concepire il funzionamento della società politica giusnaturalistica, e, in termini traslati, l’effettività concreta di tale concettualità. Quest’ultima è operante, capace di aprire un campo di visibilità, perché diventa opinione comune, idea in base alla quale pensarsi e dunque plasmare pratiche quotidiane e istituzioni. Di questa realizzazione la Rivoluzione Francese costituisce l’atto centrale[16].
Insomma, la concettualità politica moderna non permette di comprendere che cosa sia l’opinione sociale, oppure ci riesce solo in maniera “sintomatica”, attraverso il riemergere surrettizio di quegli elementi concreti, legati a costumi e bisogni, che il dispositivo formale del diritto moderno tende a obliterare[17]. Ciò che però la storia concettuale, in particolare nella declinazione che ha assunto all’interno del gruppo di ricerca sui concetti politici moderni a Padova – impostazione che pur questo lavoro ambisce ad assumere –, non permette di porre adeguatamente a tema a nostro avviso è l’intimo rapporto tra l’opinione “epistemica” costituita da tale concettualità – il fatto che essa rappresenta un ostacolo epistemico a un’adeguata comprensione del sociale – e l’opinione “sociale”. Non nel senso che la prima si riduca alla seconda, ma nel senso che la scienza politica moderna, per il tramite innanzitutto della Rivoluzione Francese, si è depositata nel senso comune, si è fatta ritualità, istituzione e culto. Da una parte si tratta di un insieme di teorie, costruite apparentemente in rottura con la realtà storica e costituzionale, dall’altra, a partire dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione, essa si è costituita come una vera e propria religione dei moderni. Vi sono insomma un’ideologia scientifica e un’ideologia pratica[18]: solo la sociologia, capace di comprendere tale ricaduta pratica, permette di coglierne il nesso – o almeno è quanto cercheremo di dimostrare in particolare nel primo capitolo.
Torniamo dunque alla scienza sociale e alla specificità del suo ruolo critico. Abbiamo mostrato un’oscillazione presente in Durkheim: da una parte, per la scienza sociale l’opinione (sociale) è un oggetto di primaria importanza; dall’altra, essa deve rompere, per costituirsi come scienza, con l’opinione (epistemica). Vi è dunque una singolarità della rottura della scienza sociale con l’opinione, come dimostreremo più approfonditamente. Essa rompe con le pretese scientifiche di quelle ideologie che occultano aspirazioni e credenze, ma non rompe con queste ultime come una scienza naturale.
Per mostrare tale singolarità, proponiamo di distinguere due gesti di cui si compone la critica sociologica, che non sempre vengono messi in pratica distintamente, ma che possono essere separati analiticamente, come del resto Durkheim sembra esplicitare in alcuni passi. Il primo gesto è quello che rompe con un approccio generalmente “filosofico” nei riguardi dell’opinione e del senso comune – della doxa. Ci potremmo rifare, per determinare questa forma di dermatologia sociologica, all’intento della sesta sezione del primo libro del Capitale marxiano, quello di condurre un’analisi della «superficie della società borghese»[19], programma che si esplica nello studio delle forme giuridiche del rapporto tra capitalista e operaio come espressioni fenomeniche e mistificanti che nondimeno hanno la forza di un’apparenza oggettiva. Una comprensione sociologica dell’opinione, nel nostro caso delle rappresentazioni politiche moderne, deve prendere in effetti in considerazione il loro statuto prima che il loro contenuto. In altri termini, per quanto concetti come quelli che compongono il plesso rappresentanza-sovranità possano risultare aporetici o, messi in relazione alla realtà che dovrebbero descrivere, addirittura falsi, essi sono nondimeno divenuti effettivi. Sono cioè effettivamente il modo in cui comunemente concepiamo la pratica e le istituzioni politiche e la logica che anima le nostre istituzioni, nella forma di quello che è stato chiamato «un istinto moderno»[20], cioè un’opinione immanente all’azione (e non una semplice opinione teorica). Durkheim si spinge a sostenere che «l’opinione è una forza morale il cui potere costringente non è minore di quello delle forze fisiche»[21] – e del resto morale vuol dire anche vincolo, contrainte: l’istinto moderno è diventato anche un insieme di regole sanzionate (come il diritto penale e la sua disciplina del furto o dell’omicidio) e l’oggetto di riti collettivi (ad esempio quelli che ruotano attorno al patriottismo e alla virtù civica). La sociologia permette allora di rendere conto di quello che risulta essere un fatto – l’effettività dei concetti politici moderni a fronte del loro carattere ideale e astratto –, e in questo modo di rispondere al problema dell’operatività sociale di tali rappresentazioni. In questo senso il pensiero durkheimiano si allontana certamente dal naturalismo, ma anche da una forma ingenua di costruttivismo sociale: le rappresentazioni collettive non sono meri “costrutti sociali” frutto dell’immaginazione collettiva o dell’imposizione di un determinato gruppo. Dal rapporto che esse hanno con la prassi e con la riflessività ad essa immanente acquisiscono un’oggettività del tutto peculiare, che non può essere semplicemente demistificata dal sociologo[22].
Il gesto critico della sociologia – il secondo gesto – consiste piuttosto in una trasfigurazione: certamente esso “buca” la superficie della società borghese, ma solo dopo essersi adeguatamente soffermato sulla consistenza oggettiva di quella che qui chiamiamo “religione moderna”. In un passaggio delle Regole del metodo sociologico, Durkheim sembra sostenere che il sostare sull’apparenza sociale e morale costituisca l’esercizio specifico per spogliarsi di un approccio ideologico-filosofico e dunque la porta d’accesso a quello sociologico[23]. Solo riconoscendo alle rappresentazioni collettive (ivi comprese le rappresentazioni politiche della modernità) lo spessore che loro conviene, il fatto che esse non sono mero accidente o “ideologia” nel senso più deteriore del termine – prodotto illusorio o strumentalmente agitato dalla classe dominante –, solo così, insomma, la critica risulterà scientifica. In alternativa, la scienza «non potrebbe procedere oltre; non potrebbe scendere più in fondo nella realtà, perché non ci sarebbe nessun rapporto tra la superficie e il fondo»[24]. La critica sociologica non si svolgerà allora come quella che Durkheim chiama analisi “dialettica”, rivolta alle sole idee e operante attraverso un criterio di coerenza interna o adeguata rispondenza alla realtà, ma consisterà nel mettere in relazione le rappresentazioni con il sostrato sociale, e dunque con le aspirazioni, i bisogni e le tendenze immanenti alla differenziazione sociale. Sarà così possibile determinare ciò che di patologico risiede nelle rappresentazioni politiche moderne e la necessità di un rinnovato sistema giuridico-morale all’altezza delle esigenze di giustizia sociale espresse dalla modernità post-rivoluzionaria e capitalistica. Questo versante critico della sociologia durkheimiana può essere visto all’opera, più che in ogni altro testo, nelle Lezioni di sociologia, che è stato adeguatamente descritto come «il programma di una sociologia pienamente cosciente di sé»[25].
[1] Cfr. P. Cesaroni, Il concetto politico fra storia concettuale e storia delle scienze, «Filosofia politica», n. 3 (2017), pp. 513-530, pp. 515-516.
[2] É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie [1912]; ed. it. a cura di M. Rosati, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia, Mimesis, Milano 2013, p. 504.
[3] Cfr. B. Karsenti, D’une philosophie à l’autre. Les sciences sociales et la politique des modernes [2013]; ed. it. a cura di S. Ferrando, Da una filosofia all’altra. Le scienze sociali e la politica dei moderni, Orthotes, Napoli-Salerno 2017, in particolare Introduzione. Il dialogo dei moderni, pp. 21-41.
[4] Per una recente attualizzazione dei concetti durkheimiani nella direzione di un pensiero del governo dell’Europa oltre il neoliberalismo, cfr. M. Pendenza, Il governo della società. Durkheim e la critica della società neoliberale, Castelvecchi, Roma 2024.
[5] Tra le ultime pubblicazioni internazionali che vanno in questa direzione, si veda G. Paoletti, M. Pendenza (a cura di), Émile Durkheim: Sociology as an Open Science, Brill, Leida 2022; G. Fitzi, N. Marcucci (a cura di), The Anthem Companion to Émile Durkheim, Anthem, Londra 2022. Si veda anche F. Callegaro, Attualità di Durkheim: sociologia, filosofia, politica. Intervista a Cyril Lemieux e Bruno Karsenti, «Società Mutamento Politica. Rivista italiana di sociologia», vol. 8, n. 16 (2017), pp. 301-323.
[6] Cfr. N. Marcucci, Il dominio dell’ideale. Durkheim e la critica sociologica, Meltemi, Milano 2023.
[7] Si vedano innanzitutto G. Duso, La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Laterza, Roma-Bari 1999; S. Chignola, G. Duso (a cura di), Storia dei concetti e filosofia politica, Franco Angeli, Milano 2008; G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 1999.
[8] Impieghiamo questo termine nel senso conferitogli in G. Duso, La logica del potere, cit. – essenzialmente come sinonimo, quindi, di filosofia politica moderna, nella sua forma predominante giusnaturalista e contrattualista.
[9] É. Durkheim, De la division du travail social [1893/1902]; trad. it. La divisione del lavoro sociale, introduzione di A. Pizzorno, Edizioni di Comunità, Milano 1962, p. 210.
[10] Cfr. S. Chignola, Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Editoriale Scientifica, Napoli 2004.
[11] Cfr. A. Biral, La società senza governo. Lezioni sulla rivoluzione francese. Vol. 2: 1985-86, Il Prato, Saonara (PD) 2009.
[12] J.-J. Rousseau, Du Contrat social, ou principes du droit politique [1762]; ed. it. a cura di R. Gatti, Il contratto sociale, BUR Rizzoli, Milano 2005, p. 92.
[13] Ivi, p. 91.
[14] Ivi, p. 108.
[15] L. Cobbe, L’arcano della società. L’opinione e il segreto della politica moderna, Mimesis, Milano 2020.
[16] Cfr. A. Biral, Rivoluzione e costituzione: la costituzione del 1791, in Storia e critica della filosofia politica moderna, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 207-225.
[17] Lo stesso si può verificare in Hobbes, ad esempio nei passaggi del Leviatano in cui viene attribuito al sovrano il diritto di censurare quelle dottrine e quegli insegnamenti che possono minare la stabilità dello Stato, in un’esplicita ottica di «governo delle opinioni» (Th. Hobbes, Leviathan [1651]; trad. it. di G. Micheli, Leviatano, introduzione di C. Galli, BUR Rizzoli, Milano 2018, cap. XVIII, p. 189). Al riguardo, cfr. M. Piccinini, Potere comune e rappresentanza in Thomas Hobbes, in G. Duso (a cura di), Il potere, cit., pp. 123-141; M. Farnesi Camellone, Indocili soggetti. La politica teologica di Thomas Hobbes, Quodlibet, Macerata 2013.
[18] Ci riferiamo, in maniera necessariamente cursoria, all’impostazione dell’epistemologia storica per come ripresa da Louis Althusser in Philosophie et philosophie spontanée des savants [1967]; ed. it. a cura di M. Turchetto, Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati. Corso di filosofia per operatori scientifici, Unicopli, Milano 2000. Per un’esplicitazione della cornice epistemologica, nonché di quella storico-concettuale, per molti versi fatte proprie da questo lavoro, rimandiamo alla prefazione di Pierpaolo Cesaroni.
[19] K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie. Erster Band [1867]; trad. it. di D. Cantimori, Il capitale. Libro primo, introduzione di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 585.
[20] B. Karsenti, Politique de Durkheim. Société, humanité, État, «Scienza & Politica», vol. XXVI, n. 51 (2014), pp. 41-62, p. 46.
[21] É. Durkheim, Éducation et sociologie [1922]; ed. it. La sociologia e l’educazione, Ledizioni, Milano 2021, p. 45.
[22] Cfr. M. de Fornel, C. Lemieux (a cura di), Naturalisme versus constructivisme ?, Éditions de l’EHESS, Parigi 2007.
[23] Cfr. É. Durkheim, Les règles de la méthode sociologique [1895]; trad. it. Le regole del metodo sociologico, in Le regole del metodo sociologico – Sociologia e filosofia, introduzione di C.A. Viano, Edizioni di Comunità, Milano 1963, pp. 1-133, pp. 54-55.
[24] Ivi, p. 55.
[25] F. Callegaro, L’État en pensée. Émile Durkheim et le gouvernement de la sociologie, in B. Karsenti, D. Linhardt (a cura di), État et société politique. Approches sociologiques et philosophiques, Éditions de l’EHESS, Parigi 2018, pp. 191-225, p. 195.