La crisi dei partiti fra retrotopia e innovazione. Intervista a Piero Ignazi
- 20 Giugno 2022

La crisi dei partiti fra retrotopia e innovazione. Intervista a Piero Ignazi

Scritto da Eleonora Desiata

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I cambiamenti tecnologici e sociali pongono crescenti sfide di governo dei processi. Tali tendenze coincidono, tuttavia, con una profonda crisi delle organizzazioni politiche e dei soggetti democratici tradizionali. In questa intervista con il politologo Piero Ignazi approfondiamo la crisi dei partiti politici e il prisma di sfide che questi ultimi affrontano, fra trasformazioni elettorali e organizzative, aspettative pubbliche, innovazioni tecnologiche e modalità di selezione della classe dirigente. Piero Ignazi è professore Alma Mater dell’Università di Bologna e fra i massimi esperti europei e italiani di partiti politici. Tra le sue opere recenti ricordiamo: Partito e Democrazia (il Mulino 2019), I partiti italiani dal 1945 al 2018 (il Mulino 2018) e Party and Democracy. The uneven road to party legitimacy (Oxford University Press 2017).


Provando a tracciare una panoramica, qual è oggi lo stato di salute dei partiti in Occidente – e in particolare in Europa e delle famiglie politiche a cui fanno riferimento? Quali sono le esperienze di maggior successo e quali invece le difficoltà più forti che emergono nell’azione dei partiti contemporanei?

Piero Ignazi: La domanda è complessa e articolata. Comincerei dallo stato di salute: è un eufemismo dire che sia cagionevole, direi che è la situazione dei partiti politici è ormai quasi da terapia intensiva. Nelle democrazie occidentali avanzate, a parte alcune virtuose eccezioni, vi è una considerazione molto negativa dei partiti da parte dei cittadini. Ci sono eccezioni: ultimamente, Norvegia, Olanda e Svizzera hanno partiti che ricevono delle valutazioni che si bilanciano tra il negativo e il positivo. Le grandi democrazie – Germania, Francia, Italia, Spagna, e Gran Bretagna in buona parte – hanno valutazioni estremamente negative. Da che cosa dipenda questo stato di salute penso sia un problema fondamentale, soprattutto per capire se c’è una possibilità di recupero. Non è sempre stato così: è una linea di tendenza che si è accentuata soprattutto a partire dalla fine degli anni Ottanta – questo in tutta Europa, l’Italia si inserisce con alcune specificità all’interno di una linea di tendenza generale. Vi è dunque un momento chiave nella politica europea rappresentato dagli anni Ottanta, un momento di svolta nella storia politica occidentale. Fino ad allora, certamente fino a tutti gli anni Settanta, i partiti politici hanno goduto di molta considerazione e stima. L’apice lo raggiungono negli anni Cinquanta: è un momento d’oro per i partiti, sia dal punto di vista organizzativo – perché hanno capacità di reclutamento di milioni di persone, hanno rapporti stretti con tante organizzazioni e associazioni della società civile (dai sindacati ai movimenti e alle associazioni di vario tipo) e network ampi – e soprattutto riescono a inquadrare all’interno delle loro strutture molte persone disponibili a partecipare, interessate, coinvolte. C’è una sorta di momento di liberazione rispetto a quello che è successo negli anni Quaranta, ossia la guerra, la diffusione del totalitarismo in tutta Europa (ci sono solo cinque Paesi in Europa nel 1942 che non hanno il giogo nazifascista, ossia l’Islanda, l’Irlanda, la Svizzera, la Svezia e la Gran Bretagna). I partiti europei hanno dunque vissuto non solo tutti i problemi della guerra, ma anche quelli di un regime impositivo totalitario, brutale, oppressivo, negatore di ogni diritto e libertà. Nel momento in cui tutto questo finalmente termina, esplode il desiderio di potersi di nuovo riunire, di poter discutere, con la fine della guerra vi è una riscoperta della vita, anche sociale. Senza volerlo mitizzare, sono molte le testimonianze di quel clima innegabilmente particolare, di cui beneficiano anche i partiti politici. Tutto questo, tuttavia, deperisce da un certo punto in poi. Perché i partiti hanno incominciato a deperire? Non si tratta tanto del perdere iscritti, questo è un passaggio lento: le organizzazioni sono vischiose, generalmente non ci sono terremoti clamorosi, salvo in casi come il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica in Francia – ma si tratta di un cambio di regime – o quanto avvenuto in Italia nel 1994, un cambio di paradigma. Anche i Paesi scandinavi, all’inizio degli anni Settanta, hanno conosciuto un grande cambiamento, raddoppiando i partiti in un’elezione, sia in Danimarca che in Norvegia. Ci sono dunque momenti di cambiamento repentino, certo, ma il cambiamento di clima, di atteggiamento avviene un po’ dovunque negli anni Ottanta. Da un lato, secondo alcune interpretazioni, influiscono i movimenti collettivi della fine degli anni Sessanta – sia sul piano della vita culturale (quindi la controcultura giovanile, i beatnik americani…), sia nel grande impatto sulle masse cattoliche del Concilio Vaticano II (il ritorno ad una forma di spiritualità). Come sempre, non c’è né un rapporto di causa ed effetto, né un rapporto immediato tra cambiamenti di carattere culturale e cambiamenti di carattere politico. C’è a volte una lettura superficiale ancora oggi, come se alcuni avvenimenti provocassero immediatamente cambiamenti nel comportamento di voto. Quest’ultimo in realtà è estremamente conservatore, rimane fisso per molto tempo, e questo è stato valido fino a pochissimo tempo fa – negli ultimi quindici anni siamo entrati effettivamente in una fase liquida, molto è cambiato. Fino all’alba degli anni Duemila i comportamenti politici sono vischiosi, cambiano con difficoltà. Come dicevo, però, negli anni Ottanta c’è un cambiamento decisivo, perché nascono nuovi partiti e nuove famiglie politiche dovunque in Europa. Le grandi famiglie politiche precedenti, che irreggimentavano il consenso e irreggimentavano in organizzazioni politiche i cittadini, si trovano di fronte a nuove sfide. Sono le sfide dei Verdi, da un lato, e dell’estrema destra non fascista dall’altro – che più tardi abbiamo chiamato populista –; entrambi nascono a metà degli anni Ottanta. Di fronte a questo cambiamento di panorama, i partiti tradizionali si arroccano, questo è il punto. Ci sono cambiamenti culturali, come si ricordava, e cambiamenti nell’arena politica che producono una sorta di arroccamento dei partiti. E qui sta, nella mia interpretazione, l’origine della decadenza e della crisi.

 

In alcuni dei suoi più recenti lavori accademici lei spiega l’insoddisfazione e la sfiducia verso i partiti con una mancata corrispondenza fra le aspettative pubbliche e le performance dei partiti. Questo non solo rispetto agli effettivi fallimenti dei partiti in termini di rappresentanza o di rispetto delle promesse di policy; lei parla di una vera e propria “retrotopia” citando Zygmunt Bauman –, una nostalgia per cui l’opinione pubblica spesso si aspetta che i partiti contemporanei si comportino come i partiti di massa – a prescindere dalle trasformazioni che le società democratiche hanno conosciuto negli scorsi decenni, e spesso a prescindere dal giudizio di valore attribuito allo specifico partito. Come questo fenomeno si inserisce del dibattito sulle forme organizzative dei partiti, e nelle evoluzioni che anche attraverso il digitale abbiamo visto compiersi in questi ultimi anni?

Piero Ignazi: Si tratta, a mio avviso, di due piani in un certo senso distinti. La retrotopia, come la chiamava Bauman, mi sembra una delle difficoltà maggiori dei partiti politici. L’immagine che i cittadini hanno del partito politico è il partito dei tempi d’oro, il partito di massa degli anni Cinquanta e Sessanta. Per loro è quello il partito, non c’è altra forma che quello. Ma quel partito rifletteva quella società, non può esserci e non c’è più in questa società. Dunque si crea questa dissonanza tra ciò che i cittadini vorrebbero, quel tipo di partito, e l’impossibilità da parte dei partiti di essere come li si vorrebbe. Indipendentemente dalla buona o cattiva volontà, non ci sono più le condizioni per avere quel partito. Possiamo dire poi che ci sono delle difficoltà, emerse negli ultimi decenni, a immaginare delle società nuove, organizzate in maniera difforme da quanto esiste – e certamente questa è una molla che si schiaccia, non c’è più la spinta che c’era in molti per disegnare una comunità politica diversa, istituzioni diverse, modalità di relazione diverse. Questo deprime un po’ l’elemento più propositivo, di maggiore coinvolgimento. Allora per molti la politica è diventata una pratica, non tanto un mezzo per un obiettivo, ma un fine in sé. E ciò ha alimentato un circuito di personale politico attirato da questo, che considera oggi – e devo dire in modo crescente dalla fine degli anni Novanta in poi – l’impegno politico come una sorta di professione, non come la professione del politico di un tempo, ma per ottenere qualche benefit da questo. Non c’è più una partecipazione espressiva, in cui si aveva il piacere di partecipare insieme ad altri per un obiettivo, ma sempre di più una partecipazione strumentale. Per usare un’espressione molto meno accademica e più corrente, molti cercano nell’attività politica la realizzazione personale, del proprio “interesse” personale. Tutto questo si percepisce e proietta un’immagine estremamente critica. L’idea che c’era, con tutti i suoi aspetti romantici – e anche qui mitizzati – dell’impegno politico negli anni precedenti agli anni Ottanta e Novanta era quella di un impegno prevalentemente disinteressato, per fini collettivi e simbolici. Ci si impegnava per qualcosa che potesse andare a beneficio di tutti o di una grande parte, e quindi con la soddisfazione di poter raggiungere un obiettivo che gratificava una collettività. A questo si è sostituita un’attività che predilige invece un incentivo selettivo, e un incentivo individuale. In Italia ovviamente il punto di passaggio è quello degli anni Sessanta e Settanta, con il grande partito centrale del nostro sistema partitico, la Democrazia Cristiana, che incomincia a indirizzarsi sempre più su questo binario, lasciando come elemento residuale tutta l’altra componente spirituale, legata al mondo cattolico. In Italia questo si può vedere in vitro molto bene, già a partire dal 1954, quando Fanfani diventa segretario e ci si pone l’obiettivo di avere un partito autonomo dalla Chiesa, dotato di risorse proprie e che può fare delle politiche senza dipendere totalmente dalla Chiesa, come era il caso allora, in maniera straordinariamente pervasiva ed estesa. Nel tentativo, faticoso e lento, di liberarsi da questa influenza, non solo viene organizzata una struttura autonoma – viene rafforzata e si fa la DC a immagine e somiglianza del PCI –, ma si trova anche una chiave importante nell’amministrazione pubblica e nella nascente industria di Stato, che dev’essere occupata in maniera monopolistica dalla DC per costruire un grande serbatoio di consenso e di membership. Il problema è che così facendo la membership è ovviamente strumentale, non è una membership ideale, non è simile alla membership dell’Azione cattolica, delle ACLI, degli altri movimenti cattolici, dove si partecipa per una ragione ideale, per difendere una visione cristiana della società. Se teniamo presente questo caso di specie come cartina di tornasole di quello che succede poi, in maniera diversa, in tante altre realtà, noi vediamo in nuce che l’acquisizione di risorse pubbliche è il male che incomincia a rodere dall’interno tutti i partiti europei. Il caso democristiano è peculiare e riguarda anche la questione della liberazione del partito dalla tutela della Chiesa, ma l’acquisizione delle risorse – che nel caso democristiano avviene attraverso l’occupazione dello Stato (al punto che Gianni Agnelli usava dire: “La Democrazia Cristiana con il 40% dei voti ha l’80% del potere”) – avviene anche attraverso altri canali, meno grigi. Avviene in tutti i Paesi europei, in periodi successivi (in particolare dalla fine degli anni Settanta e durante gli anni Ottanta), con, da un lato, l’introduzione di forme di finanziamento pubblico ai partiti, e dall’altro lato con l’estensione del clientelismo e del patronage. Clientelismo inteso come retribuzione dei clientes a livello locale, patronage come immissione negli alti livelli dell’amministrazione e della burocrazia di persone fedeli ai partiti. Questi due elementi messi insieme fanno deperire l’afflato politico-ideale dei partiti, li mostrano come delle macchine, o, come dice la politologa Ingrid van Biezen, delle public utilities, ossia strumenti che servono a gestire il consenso e organizzare le elezioni, e poco più. Il momento elettorale diventa l’unico momento che conta nella politica, quindi anche l’enfasi viene posta sugli eletti (e non più sui dirigenti di partito). Un tempo, secondo un’antica tradizione socialista, nella maggior parte dei Paesi europei vi era una distinzione molto netta fra i dirigenti di partito e i membri del gruppo parlamentare, e i membri del gruppo parlamentare non erano che i latori delle decisioni dei dirigenti di partito. Questo consentiva, fra l’altro, di separare le responsabilità. Tornando sul punto delle risorse, che è quello cruciale, un’altra serie di risorse di cui si sono appropriati i partiti sono quelle all’interno delle varie istituzioni rappresentative. Queste ultime sono diventate, a immagine e somiglianza del Senato e del Congresso americani, delle officine politiche di grandissime dimensioni, dove quindi ci sono funzionari che lavorano per i gruppi parlamentari in grande numero, ci sono risorse che le istituzioni danno ai gruppi parlamentari (in termini di personale, strutture, sedi, altri benefit). Il quadro che ho disegnato dunque mostra che i partiti oggi sono radicalmente diversi dai partiti di un tempo, in primo luogo strutturalmente – e quella differenza strutturale e organizzativa li ha allontanati dall’immagine di un tempo, di persone dedite ventiquattro ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni l’anno alla politica per un bene collettivo. Li ha fatti diventare più che altro delle strutture in cui si lavora un po’ per il proprio bene e un po’ quello di piccoli gruppi. La proiezione generale, erga omnes, si è stemperata, mentre risultano più evidenti tutti gli altri aspetti di carattere più acquisitivo da parte dei partiti.

 

Sono passati più di dieci anni dallo scoppio della Grande recessione, che ha dato il via ad una fase di dialettica politica dominata dalla figura dei tecnici molto connotata, in altre parole, dall’idea dei tecnici in politica e di fornire soluzioni tecniche alle mancanze della politica. Come si è evoluto il rapporto fra tecnica e politica in senso ampio e come possiamo interpretarlo oggi? Quali sono le sfide che lo caratterizzano e qual è, in questo, il ruolo dei partiti?

Piero Ignazi: Molti studiosi sono appassionati da questo dibattito, ma io non credo che il problema rilevante risieda nella tecnica. Credo che il punto vero siano piuttosto le tecnologie che possono essere utilizzate o meno in politica. La competenza si è sempre ammirata ed è sempre stata richiesta in politica – pensiamo al profilo della Commissione dei Settantacinque che preparò la Costituzione. Poi ci sono stati bravi politici che non avevano alcuna competenza tecnica, nel caso italiano penso ad esempio ad Umberto Bossi, ricco di qualità politiche, ma dal profilo intellettuale modesto. Viceversa, alti profili intellettuali non sempre corrispondono a bravi politici. Le due cose possono dunque andare insieme o essere slegate. Il punto della tecnologia riguarda invece come i partiti si sono adattati al mutamento del contesto, ai cambiamenti tecnologici. I cambiamenti tecnologici principali, in tempi recenti, sono stati due: la televisione e internet. La televisione ha avuto un impatto fondamentale, che è stato riconosciuto tale fin dagli anni Sessanta. Uno degli articoli più famosi della scienza politica contemporanea, quello di Otto Kirchheimer sulla nascita del partito pigliatutto, in realtà – al di là della catchword molto efficace – raccontava come i politici avessero la capacità di parlare direttamente a tutto l’elettorato, presentandosi in televisione. Questo aveva l’effetto di autonomizzarli rispetto al partito, alle decisioni collegiali del partito, e di renderli coloro che identificavano il partito. Ora, i grandi leader sono sempre stati coloro che hanno riassunto in loro stessi l’immagine del partito, non è assolutamente nuovo, questa dinamica è ben precedente alla televisione. L’idea della cosiddetta personalizzazione, di cui molto si è parlato negli ultimi anni, riflette in questo senso una mancanza di prospettiva storica. Il primo elemento tecnologico, la televisione, ha però avuto un impatto molto forte. Uno degli elementi su cui si sta lavorando, e alcuni colleghi ne stanno traendo analisi interessanti, è che la fedeltà al partito o al leader del partito non è più così automatica. I grandi leader della politica italiana precedenti agli anni Novanta identificavano chiaramente il partito. Ora, negli ultimi anni questo ha cominciato a disgiungersi. Cioè la scelta del leader non è automaticamente la scelta del partito, e viceversa. Il che dimostra che la personalizzazione, in questo caso in senso proprio, ha avuto un impatto. Con la televisione entrano altre considerazioni e altre figure politiche importanti, vale a dire che gli aspetti di comunicazione acquistano un ruolo molto importante. Se vogliamo un caso di specie, un turning point è certamente nelle elezioni presidenziali del 1981 in Francia. La campagna di François Mitterrand è impostata da un grande pubblicitario, Jacques Séguéla, che disegna un’immagine del presidente, che ha una lunga storia e si candida a governare con i comunisti nel periodo della Guerra fredda, inventando lo slogan “La forza tranquilla”, con l’immagine di Mitterrand e dietro un bucolico sfondo di paese. È un lavoro pubblicitario, non è emerso da una riflessione all’interno del comitato centrale, della direzione, del congresso. Ci sono entrate laterali che determinano questo cambiamento. Se pensiamo poi al New Labour di Tony Blair, il passaggio che i grandi esperti di comunicazione disegnano – in un vero e proprio crafting – è quello da un partito “vecchio”, dei sindacati, degli operai, dei pub, a un partito con un nuovo profilo, molto più smart, più cool, più fancy, che ottiene un successo incredibile e inaugura un’egemonia laburista che dura quindici anni. Quindi la tecnologia, la televisione, che porta dentro al partito anche altre competenze, certamente ha prodotto un elemento di enfatizzazione del leader e di modificazione dei contorni e del marchio del partito. È quello che non è riuscito a fare Matteo Renzi, che pensava di seguire un po’ il modello del New Labour, ma mancavano le risorse intellettuali, di tecnica, per fare un’operazione del genere. Arriviamo poi a internet. La rivoluzione in cui siamo immersi, che per ora ha prodotto soltanto il Movimento 5 Stelle da un lato e il partito di Macron dall’altro, che rimangono ancora dei coacervi a metà strada fra una razza e un’altra, che non si sa bene verso che evoluzione vadano, se verso una forma più simile ai partiti tradizionali o verso un mantenimento di quella specificità liquida, aleatoria, sulla rete. È un esperimento di grande interesse, ad esempio, quello dei 5 Stelle, proprio nel suo elemento strutturale; il fatto ad esempio che quando nasce il Movimento 5 Stelle non c’è una sede, ma la sede è un sito internet, è di per sé una rivoluzione copernicana. La struttura macroniana è ancora più complessa, ma sostanzialmente ricalca un po’ questo schema, anche se ora è arrivata ad istituzionalizzarsi di più, a mettere su delle sedi. È molto difficile dire che cosa ci sarà nel futuro, perché avrei immaginato che i partiti vivessero grandi trasformazioni utilizzando la rete, invece non mi sembra che siamo in una fase di grande trasformazione organizzativa dei partiti, non mi sembra che le logiche di funzionamento stiano modificandosi in maniera profonda. L’unico elemento che ravviso – anche se questo c’è da prima, già dall’epoca della televisione – è un’ubiquità dei politici. Una volta la politica aveva dei tempi, c’erano riunioni, incontri, le riunioni degli organismi collettivi duravano almeno due o tre giorni, bisognava parlare, discutere, stare lì. Oggi vediamo una comunicazione molto diversa, tempi compressi e un presentismo continuo. Il che non produce spesso buone politiche.

 

Questa riflessione sui media si lega anche al grande tema della selezione della classe politica. Forse il compito primario, alcuni studiosi hanno scritto, rimasto almeno in parte in capo ai partiti. Cosa ne pensa? In particolare, che ruolo ha giocato e sta giocando la digitalizzazione nella selezione della classe politica si pensi ad esempio alle piattaforme deliberative di cui alcuni partiti si sono dotati, ma anche alla costruzione di consenso personale attraverso i media digitali, sempre più indipendente dalle organizzazioni partitiche? 

Piero Ignazi: Certamente, per definizione i partiti sono quelli che selezionano la classe politica. Alle elezioni sono i partiti a presentare una lista di possibili rappresentanti nelle istituzioni. Questo ruolo rimane loro, almeno finché non avremo altri metodi, come quello, di cui si parla, del sorteggio – che pure a mio avviso presenta delle criticità insormontabili –, o quello della modalità deliberativa attraverso assemblee o piattaforme, o altre modalità. In assenza di queste innovazioni, la selezione rimane inevitabilmente nelle mani dei partiti. Il problema decisivo è come i partiti la realizzano: mi verrebbe da dire che non c’è quasi più selezione. Per arrivare ad essere candidato a un ruolo di rappresentanza un tempo ci voleva un cursus honorum, composto di una lunga trafila di attività interne al partito, che premiava alcuni e ovviamente non premiava molti altri, ma questa era la normale modalità. Poi le entrate laterali – cioè i personaggi importanti che, per la loro rilevanza, vengono immessi nelle liste dei candidati dei partiti – è stata una tendenza che si è diffusa particolarmente in Italia, decisamente meno altrove, ed è stata secondo me una pessima idea. È importante, come si diceva prima, avere delle competenze, ma è importante sapere cos’è la politica; infatti tanti personaggi, celebri e capaci nelle proprie professioni, arrivati in Parlamento sono scomparsi perché non sapevano neanche da dove cominciare. La politica si impara facendo politica, trattando, sapendo quali sono le modalità di interazione fra le persone, non si impara altrove. È una nobile arte, quella del fare politica, che purtroppo però per tante ragioni oggi è disprezzata – e sarà sempre disprezzata finché non vedremo che i politici sono dediti, anima e corpo, a obiettivi collettivi e generali. Finché rimane la percezione – diffusissima – che c’è solo un interesse personale, settoriale o di piccolo gruppo, non si recupera quella stima nei confronti dei politici e della politica. Ci vorranno generazioni di nuovi politici capaci, disinteressati a se stessi e interessati al bene collettivo.

Scritto da
Eleonora Desiata

Assegnista di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Alumna dell’Università di Bologna e dell’Università Bocconi, ha conseguito il dottorato in Scienza politica e Sociologia alla Scuola Normale Superiore. Si occupa prevalentemente di attivismo e forme della partecipazione politica, città, welfare e azione sociale diretta.

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