La crisi della solidarietà: un estratto dal libro di Nicola Dimitri
- 04 Aprile 2025

La crisi della solidarietà: un estratto dal libro di Nicola Dimitri

Scritto da Nicola Dimitri

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«Quello della solidarietà è un concetto refrattario a definizioni univoche e, per certi versi, ambivalente. Unisce e insieme divide, esclude lì dove include. L’Unione Europea, che informa i suoi valori e obiettivi, tra gli altri, al principio di solidarietà, non si sottrae a tale dinamica».

In La crisi della solidarietà. Condizioni del legame sociale e paradossi europei (Castelvecchi Editore), Nicola Dimitri ricostruisce le principali tappe della riflessione filosofico-giuridica e sociologica maturata attorno al concetto della solidarietà e ne esplora i “paradossi” nel contesto dell’Unione Europea. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, un estratto del libro.


Il debito come dispositivo di governo dell’UE? 

La solidarietà designa (tra le altre cose) la capacità dei membri di un certo gruppo di agire come un soggetto unitario. In questo solco i sistemi di solidarietà implicano tanto la consapevolezza – da parte di tutti i membri del gruppo – che il benessere di cui ognuno gode è il frutto dell’interdipendenza, quanto la disponibilità a fornire supporto a ogni membro in difficoltà, nella convinzione che l’aumento di benessere di uno comporterà l’aumento di benessere di tutti[1]. Ciò implica che la solidarietà tende a «rendere uguale per tutti l’appartenenza ad una determinata collettività (gruppo, classe, comunità ecc.)» e non, invece, a promuovere o «rendere massima la distinzione di un attore dall’altro»[2].

E invero, alla luce di quanto sinora messo in evidenza, non sembrerebbe che i rapporti tra Stati membri dell’UE si muovano lungo autentici versanti solidaristici. Al contrario, per un verso, la solidarietà europea sembra caratterizzata da un irenismo astratto e universalizzante, “a costo zero” e poco efficace, per un altro, la concreta dimensione solidaristica, quella cioè legata alle politiche atte a implementare interventi di supporto tra Stati in caso di difficoltà, è “piegata” a esercizi di “ragioneria” e contabilità. In questi termini, diluita la “natura politica” dell’essere associati entro la dimensione economicistica, la griglia normativa ed etica che consente agli Stati di promuovere misure solidaristiche si rivela subordinata alla prioritaria tutela degli interessi finanziari[3]. Interessi, tra l’altro, spesso riconducili a soggetti privati o comunque non autenticamente “comunitari”. Puntualmente Tesauro ha sottolineato che ad esempio: «non è l’Unione quella che ha trattato con la Grecia, bensì i grandi creditori della Grecia e protagonisti della vita di relazioni finanziarie internazionali: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea, la Germania e la Francia singolarmente considerati. Basta il ricordo del passaggio finale della vicenda greca, per cogliere al giusto la connotazione non comunitaria del contesto. Dopo qualche ora di riunione dell’Eurogruppo, si sono isolati i grandi creditori sopra citati, che all’esito hanno ricevuto l’applauso liberatorio degli altri, tra cui l’Italia, sciorinando la lista degli impegni onerosissimi per il popolo greco. E l’Unione Europea, l’Europa comunitaria dei De Gasperi, Schumann, Adenauer e Monnet? Assente»[4].

E in effetti, dalla crisi dei “debiti sovrani” in poi è emersa una nuova fase politica dell’Europa – che non fa il paio con il concetto di “unità politica” dell’UE.

La fase dell’austerità, dei sacrifici a tutti i costi, della promozione di “riforme” in deficit, dei governi tecnici, della ristrutturazione del mercato del lavoro, accompagnata dalla riduzione dei salari e tagli alle spese sociali, non rappresenta un brutto momento da superare in vista di una nuova crescita ma l’inaugurazione di un nuovo dispositivo di governo delle soggettività collettive e individuali, che risponde alle esigenze del mercato e della finanza. In effetti, tra il 2007 e il 2008, la macchina capitalistica è entrata in un’impasse storica: essa, non potendo più contare «sulla promessa di una futura ricchezza per tutti come negli anni Ottanta»[5], per continuare a “sopravvivere” ha iniziato ad aver bisogno di trasfusioni sempre maggiori di denaro pubblico.

In questo modo, i rimedi proposti per uscire dalle diverse e ricorsive crisi che hanno attraversato l’Europa, e con essa i singoli Stati membri (cronicizzandosi in particolare nelle aree meno competitive), non sono stati immaginati per alleggerire dette crisi, quanto per aggravarle e reiterarle. Gli interventi “solidaristici” di volta in volta garantiti agli Stati in difficoltà, ma anche le politiche introdotte per favorire alcune aree territoriali, di fatto promuovono l’approfondimento del debito pubblico. Tuttavia, questa circostanza, al contrario di come intuitivamente si sarebbe portati a ritenere, non è affatto un ostacolo per la “crescita”. Il meccanismo dell’indebitamento è infatti “il cuore strategico” delle politiche neoliberiste contemporanee: smantellati i sistemi di Welfare State nazionali, promossa un’integrazione economica e poi un’unificazione monetaria che non si cura delle istanze sociali e delle differenze territoriali, “fabbricare” debito permette di promuovere una traiettoria di crescita unidirezionale che non implica una redistribuzione trasversale della ricchezza eventualmente raggiunta, ma – seguendo la formula binaria del debito-credito – contempla la spartizione della stessa a favore dei creditori.

Come ha osservato Lazzarato, il debito non è solo un dispositivo economico. La relazione creditore-debitore, piuttosto, individua una specifica tecnologia di governo che consente di disattivare i conflitti sociali e promuovere, secondo il binomio autenticamente politico dell’amico-nemico, spartizioni e cesure entro la società. I cittadini assumono la veste di consumatori o di imprenditori, di occupati o disoccupati, di adempienti o insolventi, mentre gli Stati sono divisi tra peccatori e virtuosi, cicale e formiche, indebitati e creditori. L’economia del debito, dunque, interferisce indistintamente tanto sui rapporti sociali che strutturano la nostra società[6], quanto sulle relazioni istituzionali e politiche tra gli Stati che la regolamentano. Come accaduto in Grecia ed anche in Italia, ad esempio, il debito diventa lo strumento di pressione con cui sottrarre potere agli Stati al fine di indurli ad attuare le riforme di volta in volta ritenute “necessarie”, nonché lo strumento di potere con cui persuadere gli individui a “impegnarsi” di più, e quindi accettare il rinvio dell’età pensionabile, l’abbassamento dei salari e lo smantellamento dei servizi di protezione sociale[7].

Il paradigma del debito racchiude dunque un processo di soggettivazione che segna allo stesso tempo il corpo e lo spirito degli individui e la sfera pubblica in cui questi sono immessi[8]. L’ “esserci del debito” implica una convocazione dell’individuo, della società e delle Istituzioni, entro le stanze della colpa: in una continua negoziazione, anzitutto verso sé stessi, ogni attore è scisso tra la spinta a produrre di più per adempiere più velocemente il debito contratto, e soddisfare le pretese del suo creditore, e il risentimento nei confronti di quest’ultimo. Più in particolare, il debito agisce come una macchina di predazione e di prelievo sulla società nel suo insieme, come strumento normativo e tecnologia securitaria volta a ridurre l’incertezza dei comportamenti dei “governati” e rimandare il soddisfacimento delle istanze sociali[9]. Ad esempio, mantenere gli Stati in condizione di fallimento permette, austerità dopo austerità, di recintare lo spazio di azione politica entro la dimensione del peccato e della colpa, e giustificare ai Paesi in deficit l’imposizione di politiche sociali sempre meno “vantaggiose”[10]. È in questo senso che si coglie come l’economia del debito, lungi dall’essere neutrale, ha obiettivi fortemente politici: essa corrobora il processo di neutralizzazione del conflitto sociale e dei comportamenti collettivi, l’eliminazione delle garanzie sociali, l’assorbimento del paradigma della solidarietà entro la logica della razionalità economica.

In buona sostanza, il neoliberismo, nell’ambito del contesto eurounitario, ha spinto all’integrazione del sistema monetario, bancario e finanziario attraverso tecniche che rivelano la volontà di fare della relazione creditore-debitore una fondamentale posta in gioco politica, volta a sovvertire i regimi di priorità: il debito esercita un diritto di prelazione sulle esigenze della società nonché sulle risposte normative che, in prima istanza, sarebbero chiamate ad occuparsene.

Ma come può esserci riconoscimento sociale delle Istituzioni da parte dei cittadini quanto le differenze tra un Paese e l’altro, pur tutti utilizzatori della stessa moneta, si accrescono? Come si possono affermare pratiche solidaristiche se i rapporti tra gli Stati sono subordinati al dominio della finanza, che ha raggiunto una dimensione tale da permeare tutti gli altri aspetti del “vivere comunitario”?

In un’Unione europea che dimostra di porsi tutta dalla parte delle libertà degli scambi, del mercato e della decisione economica, il “super capitalismo”[11] ha trovato terreno facile per subordinare la dimensione politica a quella economica e allargare sempre di più la forbice tra Stati e tra popolazioni. Come ha avuto modo di sottolineare Barcellona «La globalizzazione economico-finanziaria, affermatasi a cominciare dagli anni ’90 del secolo scorso ed irrobustitasi nel nostro attuale secolo, ha fondato sul “Mercato” il nuovo principio costitutivo ed organizzativo dell’agire umano, polverizzando “il Politico”»[12].

Occorre specificare che non si vuole in alcun modo promuovere una lettura a tutti i costi antagonista nei confronti della integrazione economica e monetaria, né si vuole ridurre l’UE solo a questa dimensione, posto che l’Unione è anche, e non in misura irrilevante, una Rechtsgemeinschaft, una “comunità di diritto”[13]. Tuttavia, come ha segnalato, tra gli altri, Ferrajoli, mentre gli Stati membri dell’Unione si sono via via privati di una parte sempre più rilevante della loro sovranità (persino indebitandosi con una moneta di cui non hanno il governo e con i condizionamenti economici imposti dalle politiche di spesa dagli organi dell’Unione), «al venir meno delle sovranità nazionali non ha corrisposto né l’affermazione di una sovranità politica dell’Unione, né l’istituzione di un governo politico europeo in grado di supplire all’indebolimento dei governi nazionali»[14]. In questo senso, quello che si sostiene è che l’integrazione economica e la unificazione monetaria non possono essere “liberate” (come in via di fatto sono) da ogni vincolo, da ogni forma di controllo giuridico autenticamente democratico. Non ci può essere mercato senza partecipazione, senza divisione dei poteri, senza che gli esiti da questo prodotti abbiano una funzione sociale, senza rule of law. Del resto, la nota tesi Milton Friedman ad avviso del quale quanto più liberi sono i mercati tanto più libere e democratiche sono le società è stata più volte messa in discussione dagli accadimenti storici, in considerazione del fatto che la liberalizzazione dei mercati, in particolare nell’UE, ha trascinato in una crisi sempre più grave le strutture democratiche delle nazioni europee e il benessere degli stessi cittadini europei[15].

Il percorso d’integrazione europea ha finito per far coincidere l’Europa con lo spazio mercantile, liquidando ogni forma politica, giuridica, sociale e persino culturale che non sia in qualche misura connessa alla dimensione economica[16]. Entro questo scenario, nella misura in cui gli Stati hanno agito e continuano ad agire esclusivamente seguendo i precetti di razionalità economica, nessuna solidarietà di tipo “europeistico” può autenticamente sorgere: anzi, come ha sottolineato Carrino, negli ultimi anni i “dissapori” tra Stati legati alle questioni che involgono la solidarietà hanno mostrato come nell’UE si sia andata aggravando la perdita di una visione politica comune[17], con effetti anche su quelle politiche sociali e redistributive che fino agli anni Settanta restavano legate alla scelta democratica e dunque alle preferenze politiche dei loro cittadini[18].


[1] C. Offe, L’Europa in trappola, op. cit., p. 43.

[2] A. Pizzorno, Introduzione allo studio della partecipazione politica (1966), in «Quaderni di Sociologia», 79, 2019, 17-60.

[3] Sul punto è interessante la posizione di Luigi Ferrajoli, ad avviso del quale «Ciò che tuttavia contrassegna questo strano ordinamento europeo è il fatto che esso è una federazione sul piano giuridico ma è ben lontana dall’esserlo sul piano politico, difettando, su questo piano, sia di unità sia di democrazia. È questo il vero, gravissimo problema, che rischia oggi di provocare il crollo dell’Unione: la mancanza di unità politica e di democrazia. Gli organi comunitari dell’Unione dotati di maggiori poteri di governo — la Commissione e il Consiglio europeo dei capi di Stato o di governo dei paesi membri dell’Unione — non sono stati né democratizzati politicamente, attraverso l’investitura popolare e rappresentativa, né esposti a forme di responsabilità politica, né sottoposti effettivamente a limiti e vincoli costituzionali a garanzia dell’uguaglianza e dei diritti fondamentali di tutti i cittadini europei, pur stabiliti nelle costituzioni nazionali e nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Al venir meno delle sovranità nazionali dei singoli Stati non hanno corrisposto né l’affermazione di una sovranità politica dell’Unione, né l’istituzione di un governo politico europeo in grado di supplire all’indebolimento dei governi nazionali» L. Ferrajoli, Il suicidio dell’Unione Europea, in «Teoria politica», Nuova serie, Annali VI 6, 2016, p. 173-192, p. 175.

[4] G. Tesauro, L’Unione Europea come Comunità di diritto, in «Lo Stato», vol. 3, fascicolo 5, 2015, pp. 123-148, p. 146-7.

[5] M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, op. cit., p. 20.

[6] M. Aglietta e A. Orléan, La Monnaie: entre violence et confiance, Odile Jacob, 2002, p. 248.

[7] Lo stesso può dirsi delle discusse lettere “segrete” inviate nel 2010 e 2011 dalla BCE a paesi in difficoltà finanziaria come Irlanda, Spagna e Italia, con indicazioni politiche specifiche in merito a obiettivi di riforma del diritto del lavoro e del sistema di relazioni industriali.

[8] M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, op. cit., p. 58.

[9] Ivi, p. 47, 61 e 127.

[10] Ivi, p. 36. «L’aumento del debito dello Stato è uno dei principali risultati delle politiche neoliberiste che, dalla metà degli anni Settanta, perseguono l’obiettivo di trasformare la struttura del finanziamento delle spese dello Stato sociale. Da questo punto di vista, la legge più importante adottata da tutti i governi e inscritta in diversi Trattati europei è il divieto di finanziare il debito sociale attraverso la Banca centrale. Gli enti locali per finanziare i servizi di welfare non possono essere più finanziati attraverso l’emissione della moneta da parte della BCE ma devono ricorrere ai mercati finanziari».

[11] L’espressione è riconducibile a Robert B. Reich, in particolare il riferimento è all’opera R.B. Reich, Supercapitalism: the transformation of business, democracy, and everyday life, 2007, trad. it. Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Fazi, 2008.

[12] M. Barcellona, B. Montanari, Potere e negoziazione, Castelvecchi, 2023, p. 66, cit.

[13] «Negli anni sessanta e soprattutto settanta, l’integrazione diventa anche “integrazione del diritto comunitario negli ordinamenti giuridici statali”: il concetto di integrazione si lega così strettamente a quello di prevalenza del diritto comunitario sul diritto nazionale. Le Comunità, si dice, devono essere concepite, oltre che come comunità economiche, come “comunità di diritto”: esse sono fondate sul diritto – i Trattati istitutivi – e agiscono attraverso il diritto, senza disporre direttamente della coazione». G. Itzcovich, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale, in «Diritto Pubblico», Fascicolo 3, 2005, pp. 749-786, p. 751.

[14] L. Ferrajoli, Il suicidio dell’Unione Europea, op. cit., p. 175.

[15] Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht i cittadini dei paesi aderenti diventano cittadini europei. L’art. 8 del Trattato attribuisce automaticamente la «cittadinanza dell’Unione» a «chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro». Sulle note critiche relative all’argomento si rinvia a G. Azzariti, Cittadinanza. Appartenenza, partecipazione, diritti delle persone, in «Diritto pubblico», II, 2011, pp. 425-450, p. 441.

[16] A. Andronico, Un «nuovo genere» di ordinamento. Riflessioni sul rapporto tra diritto comunitario e diritto interno, in «Jus. Rivista di Scienze giuridiche», 2001, 48, pp. 69; M. La Torre, Autunno della sovranità. Comunità europea e pluralismo giuridico, in «Ragion Pratica», n. 12, 1999, pp. 193-207.

[17] Un’Unione Europea sempre meno politica e sempre più subordinata alla dimensione economica e alle esigenze della finanza, favorisce l’indebolimento della democrazia e la perdita di autorità da parte dei poteri pubblici. A tal riguardo, le istituzioni europee si presentano come un esempio tipico di enti pubblici del tutto privi di autorità in quanto strumentali ad obiettivi puramente economici, quali, tra tutti, la garanzia del libero mercato. A. Carrino, Il suicidio dell’Europa, op. cit. Inoltre, occorre rilevare che nell’UE il processo legislativo e decisionale è orientato dalla prospettiva neoliberale promossa dalle burocrazie tecnocratiche, dai governi nazionali ‘più forti’ (per via la centralità del metodo intergovernativo) e, in una certa misura, dal ‘giudice europeo’. Quanto a quest’ultima circostanza, in realtà risalente, è un fatto che le sentenze dei giudici dell’UE si pongono spesso al di sopra del diritto pattizio e primario, assurgendo a presupposto di funzionamento di molte normative europee. Sul piano normativo, infatti, le decisioni e le soluzioni interpretative della Corte, avviate nelle aule di Lussemburgo, hanno spesso trovato riscontro sui tavoli di Bruxelles, dunque negli atti normativi e nelle diverse procedure di revisione dei Trattati. Basti ricordare, tra le altre, la sentenza van Gend & Loss del 1963, la sentenza Costa contro Enel emessa dalla Corte nel 1964, e ancora la sentenza Simmenthal (causa 106/77) del 1978, la sentenza Cassis de Dijon del 1979, la sentenza Factortame del 1990 (causa C-213/89), fino alla sentenza Köbler del 2003 (causa C-224/01). Tutte pronunce esemplari, in quanto apripista per l’affermazione del diritto dell’Unione, determinanti ai fini della “strutturazione” dell’ordinamento comunitario e del percorso integrativo degli Stati membri. Allo stesso tempo, il ruolo preminente del giudiziario anche sulla produzione normativa rivela un deficit di legittimazione democratica delle istituzioni. P. De Pasquale, I formanti del processo di integrazione europea: il ruolo della Corte di giustizia, in «DPCE» online, 2021, p. 439 – 452, p. 440. L’“attivismo” della Corte ha spesso assunto «un ruolo che di sicuro trascende quello tradizionalmente proprio dei giudici ordinari, anche di ultima istanza, dei Paesi membri, specie di quelli dell’Europa continentale» Cfr. P. Mengozzi, La rule of law e il diritto comunitario di formazione giurisprudenziale, in «Jus. Rivista di scienze giuridiche», 1994, 3, 279. Si segnala anche P. Mengozzi, L’idea di solidarietà nel diritto dell’Unione Europea, Bologna University Press, 2022. Sul punto si rimanda inoltre a: F. Jacobs, La Corte di Giustizia quale Corte Suprema d’Europa?, in AA. VV., Liber Amicorum Antonio Tizzano. De la Cour CECA à la Cour de l’Union: le long parcours de la justice européenne, Giappichelli, 2018. Si rimanda per un approfondimento generale sul tema a G. Tesauro, Sovranità degli Stati e integrazione comunitaria, in «Il diritto dell’Unione Europea», vol. 11, fasc. 2, 2006, pp. 235-252. Quello che si sottolinea è che la funzione giurisdizionale delle Corti non può essere considerata come “puramente” giurisdizionale e che il giudice europeo in più occasioni ha assunto un ruolo chiave per sollecitare gli Stati membri ad aprirsi ai mercati. È necessario, tuttavia, non mancare di riconoscere che il giudice dell’Unione ha dimostrato che la sua attenzione non è esclusivamente rivolta a salvaguardare gli aspetti economici della costruzione europea. Basti prendere in considerazione la sentenza Internationale Handelsgesellschaft del 1970.

[18] C. Atzeni, Liberalismo autoritario, op. cit., p. 110 ss.

Scritto da
Nicola Dimitri

Assegnista di ricerca in Filosofia del diritto presso l’Università degli Studi di Messina. Dottore di ricerca in Filosofia del diritto e Storia della cultura giuridica presso l’Università di Genova, si è formato all’Università degli Studi di Roma Tre, all’Università di Verona e all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli. È autore di: “La crisi della solidarietà. Condizioni del legame sociale e paradossi europei” (Castelvecchi 2024).

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