La Russia di Putin. Intervista a Mara Morini
- 08 Maggio 2022

La Russia di Putin. Intervista a Mara Morini

Scritto da Chiara Lovotti

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Per comprendere l’evoluzione della Federazione Russa nell’ultimo ventennio non si può prescindere dalla figura di Vladimir Putin. Il suo lungo predominio ha profondamente influenzato le strutture del potere russo, la dimensione valoriale e la proiezione della Federazione sullo scenario internazionale. Questi aspetti vengono analizzati in questa intervista a Mara Morini, Professoressa associata di Politics of Eastern Europe all’Università di Genova e autrice di La Russia di Putin edito da il Mulino.


Nel suo ultimo lavoro, La Russia di Putin, lei tratta molteplici aspetti politici, di politica interna, istituzionale, partitica, ma anche aspetti culturali, aspetti economici e internazionali. Partendo dalle questioni più interne, con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, e in particolare con il successivo avvento di Putin negli anni Duemila, quale modello politico emerge, come si delinea la Russia post-sovietica? 

Mara Morini: È opportuno fare una distinzione fra la Russia degli anni Novanta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e la Russia “putiniana”. Innanzitutto perché la Russia degli anni Novanta, durante la presidenza di Boris El’cin, è una Russia politicamente, ma soprattutto economicamente e socialmente molto debole, che ha bisogno di sovvenzioni economiche dal Fondo Monetario Internazionale e dal governo americano – una situazione che, potremmo dire, ha segnato anche psicologicamente i russi, e questo ricordo mantiene una certa presa nell’opinione pubblica contemporanea. Si tratta di uno dei fattori, ad esempio, che spiegano il consenso di cui tuttora gode Vladimir Putin, che ha sempre tenuto a sottolineare che la sua Russia non sarebbe mai tornata indietro al periodo degli anni Novanta, perché sa quanto ha scioccato l’opinione pubblica. Non a caso, la questione dello sviluppo socio-economico è stata fra gli argomenti prioritari dell’agenda politica russa da quando Putin è arrivato al potere. Tornando a Boris El’cin, si può dire che la sua presidenza sia stata debole, da un lato per i noti problemi di salute di cui El’cin soffriva – legati non soltanto all’alcol, ma anche a seri problemi di cuore –, al punto che sono stati diversi i periodi durante i quali si è allontanato dalla presidenza e ha delegato informalmente la gestione alla sua famiglia, in particolare alla figlia e al genero. Durante la presidenza di El’cin troviamo già diversi elementi che poi caratterizzeranno la Russia di Putin, a cominciare dall’ascesa degli oligarchi. È infatti il periodo in cui dopo il crollo dell’Unione Sovietica le privatizzazioni e il passaggio ad un’economia capitalista favoriscono la presenza crescente degli oligarchi, alcuni dei quali in un certo senso si improvvisano imprenditori, ma che detengono delle quote economiche rispetto al PIL molto significative, e che contribuiscono a rendere povera la Russia degli anni Novanta. Politicamente, è appunto una fase debole: le elezioni presidenziali del 1996 mostrano come Boris El’cin fosse in difficoltà e quanto concreto fosse il pericolo di una elezione di Gennadij Zjuganov, leader del partito comunista della Federazione Russa, una circostanza che aveva allertato anche l’amministrazione americana. Il pericolo, si disse allora, era di un reflusso autoritario e di un ritorno al passato. Quella del 1996 è anche la prima elezione che introduce le nuove tecniche di marketing elettorali, proprio attraverso il supporto americano per sostenere la vittoria di El’cin. Dunque, quando Vladimir Putin giunge al potere, è ben a conoscenza, per averli osservati attentamente, dei punti di debolezza e di forza emersi durante la presidenza di El’cin. Sin dai primi anni, Putin cerca di intervenire proprio con alcune riforme di politica interna: la legge sui partiti politici, la questione della politica economica, il rapporto centro-periferia – centralizza quindi il potere al Cremlino e toglie quell’autonomia che El’cin aveva dato ai governatori. Soprattutto sa quanto sia importante avere un partito all’interno del parlamento che abbia una maggioranza assoluta, in modo da evitare quegli episodi che avevano caratterizzato la presidenza di El’cin, dai tentativi di impeachment all’impossibilità per il parlamento di approvare determinate leggi. Questo, in sintesi, è il quadro che Vladimir Putin trova e cerca subito di risolvere, per dar vita a questa verticale del potere, di cui parlo nel libro, richiamando non solo la figura monolitica di Vladimir Putin – c’è sicuramente una tradizione di potere monocratico in Russia –, ma i diversi orientamenti politici o fazioni all’interno del Cremlino che cercano di influenzare le decisioni. Parlando dell’attualità, sicuramente due fazioni come l’apparato militare e quello di sicurezza hanno inciso molto nella decisione della Russia di invadere l’Ucraina. Questo spiega quanto il sistema istituzionale sia in realtà molto più articolato di quanto non si immagini. 

 

Ha parlato di potere domestico verticale. Pensa che questa verticalità si declini anche nel rapporto centro-periferia all’esterno della Russia, ossia fra Mosca come centro del potere e la nuova periferia post-sovietica? Più in generale, come si configura questo rapporto? 

Mara Morini: Si tratta del cosiddetto “estero vicino”, i rapporti con le ex repubbliche socialiste sovietiche, sia quelle dell’Asia centrale sia quelle dell’Europa orientale. Da questo punto di vista, abbiamo letto tutti in questi mesi quanto Vladimir Putin avesse ritenuto il crollo dell’Unione Sovietica una catastrofe geopolitica, dunque potremmo dire che la sua visione della politica – interna, ma anche declinata all’esterno – è volta non tanto a una ripresa anche territoriale, ma soprattutto a mantenere un’influenza politica su questi Paesi, onde evitare che si avvicinino e siano contaminati dai valori occidentali. Per fare questo, occorre una situazione politicamente ed economicamente stabile all’interno del Paese, altrimenti viene a mancare la forza per interagire, anche nel rapporto con gli altri presidenti – si pensi ad esempio al rapporto fra il presidente bielorusso Lukašėnka e Putin. Lukašėnka ha capito che per rimanere al potere dopo tutto quello che è successo ha bisogno del sostegno politico, ma soprattutto economico della Russia di Putin; si è creata questa forte unione che potrebbe anche tradursi in una unione di Stati, il che dà l’idea di come le riforme economiche di Vladimir Putin avessero anche un obiettivo al di là della Russia, in ambito internazionale.

 

Ha parlato anche di valori, un tema a cui ha dedicato particolare attenzione nel libro. C’è senz’altro un mito intorno alla difesa dei valori russi potenzialmente contaminati dall’occidente. Potrebbe elaborare su questo punto? Quali sono questi valori, che ruolo ha questa dimensione nella politica interna di Putin e che ruolo ha giocato il partito Russia Unita? La strategia ha attecchito?

Mara Morini: Anche fra le persone più vicine a Vladimir Putin c’è una narrazione secondo cui Putin è la Russia e rappresenta il russo, l’anima russa. Credo che la questione dei valori in chiave politica sia stata però utilizzata proprio per rafforzare la verticale del potere e la stabilità politica. I valori che Putin sin dal suo primo mandato ha cercato di diffondere e far penetrare nell’opinione pubblica russa, attraverso la propaganda e l’uso dei mass media soprattutto statali e televisivi, riguardano in modo particolare la questione dell’ordine, della stabilità, dell’aspetto anche religioso. Se ne è parlato molto in questi mesi, ma chi studia la Russia o l’Unione Sovietica sa benissimo quale sia e sia stato il ruolo della religione nel Paese, e soprattutto il ruolo della figura del patriarca Cirillo nel creare una vera e propria unione di intenti e obiettivi con Vladimir Putin. L’aspetto culturale, l’aspetto dell’eredità delle tradizioni del passato, l’aspetto psicologico secondo me dovrebbero essere molto più studiati e approfonditi – non tanto per rispondere alla domanda, che si pone spesso in questo periodo, se Vladimir Putin sia o meno pazzo, ma per capire con quali schemi cognitivi ragionano i russi. Se continuiamo a interpretare le decisioni politiche della Russia di Putin utilizzando le nostre categorie occidentali rischiamo di non capirne nulla. Un segnale sicuramente dei valori tradizionali e della loro importanza lo si è visto con la riforma della costituzione nel luglio del 2020. Vladimir Putin ha voluto proprio disciplinare il ruolo della famiglia tradizionale, sancendo costituzionalmente che questa dovrebbe essere composta solamente da un uomo e da una donna. Quindi, anche il discorso della repressione dei diritti delle minoranze e in particolare della comunità LGBT trova anche una sua spiegazione nella questione religiosa e in come la Chiesa ortodossa – nella persona del patriarca Cirillo, (è bene sottolinearlo e non confondere la Chiesa ortodossa con alcuni dei suoi rappresentanti) abbia inciso e incida su questo tipo di decisioni. I valori sono elementi importanti per la politica di Putin, per la sua stabilità al potere, e sono molto importanti per l’opinione pubblica russa. L’opinione pubblica, se è chiamata a riflettere sulla difesa ad esempio di questi valori tradizionali, è con il suo presidente.

 

L’aspetto valoriale, e più in generale i tratti culturali, “identitari”, che hanno caratterizzato il governo di Putin negli ultimi decenni, sono spesso poco trattati rispetto ad altri temi; eppure anche questi elementi spiegano anche il consenso di cui gode Vladimir Putin, perché è anche attraverso queste lenti che Putin parla alla nazione. È d’accordo?

Mara Morini: Senz’altro. Se guardiamo a quei vent’anni complessivamente, la Russia si è sviluppata sotto diversi profili. Naturalmente ci sono ancora problemi di modernizzazione e di ripartenza socio-economica, non è sparito il divario tra poveri e ricchi – l’indice di Gini, che misura la disuguaglianza sociale, è ancora elevato –, ma sicuramente c’è stato uno sviluppo socio-economico – e lo dimostrano i dati che presento nel libro, ma lo dimostra anche chi come me da vent’anni frequenta quel Paese e ha potuto osservare questa trasformazione. Questo non soltanto nelle infrastrutture, dalla pavimentazione stradale ai nuovi treni fino all’alta velocità che collega Mosca e San Pietroburgo, ma anche nello stile di vita dei russi – ossia si è formato quello che noi chiameremmo un ceto medio, che si può permettere di viaggiare, di venire in Europa, di coltivare hobby, interessi e vizi, cosa che era impensabile negli anni Novanta e porta con sé anche un certo livello di gratitudine da parte della popolazione russa nei confronti di Vladimir Putin. È chiaro che molti analisti, anche tra quelli anglosassoni più noti, rilevano che la società russa ha scelto la prospettiva del benessere economico a scapito di quella della maggiore libertà, dei diritti civili e politici. La questione economica assume quindi un ruolo molto rilevante per capire fino a che punto Vladimir Putin riuscirà, soprattutto in questa fase di crisi, a garantire un certo livello economico alla popolazione, perché quando ci sono allarmi di questo tipo il consenso può venire meno. Lo si è visto ad esempio con la riforma delle pensioni, il consenso era sceso intorno al 60-63%. Ora, lo scorso dicembre era al 69%, e nella seconda metà di aprile era all’83% – questo vale sia per gli istituti più filo-governativi, sia per ad esempio il Levada Center che è il più indipendente. Tutto ciò deve essere dunque inserito all’interno del contesto valoriale che richiamavo in precedenza, nel contesto politico e nel ruolo dei mass media e della propaganda, essenziale e molto efficace.

 

Per concludere la panoramica sulla politica interna aprendo allo scenario internazionale, come cambia il concetto di sicurezza nazionale negli anni di Putin? Da che cosa si sente minacciata la Federazione Russa e quali sono gli interessi da promuovere all’esterno?

Mara Morini: C’è un punto di svolta: l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre. In quell’occasione, Vladimir Putin è il primo presidente a chiamare George Bush, per sollecitare una collaborazione nel contrasto al terrorismo internazionale – peraltro da un Paese in cui la questione del terrorismo è collegata, ad esempio, alle guerre cecene. Si tratta di un argomento molto sentito dalla Russia di Putin, e lo si vede anche nell’idea di difesa e di politica estera che si introduce e che viene a caratterizzare il concetto di sicurezza nazionale, come molto legata proprio al terrorismo. Progressivamente, negli anni, emergono alcuni degli snodi di cui si parla maggiormente in questi mesi – avvenimenti come le rivoluzioni colorate, l’allargamento dell’Unione Europea e l’espansione della NATO ad est –, che sicuramente provocano una reazione nella visione strategica dell’ordine internazionale secondo Vladimir Putin, che lo fa presente nel noto discorso tenuto alla Conferenza di sicurezza Monaco del 2007, dove critica l’unilateralismo e l’egemonia americani, e sollecita a lavorare insieme anche in termini di difesa collettiva. Dal 2008, nei concetti di politica estera della Russia scompare il richiamo alla cooperazione con l’occidente e con l’Unione Europea. Credo che gli eventi che citavo abbiano creato una vera e propria ridefinizione degli obiettivi di Vladimir Putin, che riprende la dottrina Primakov – da Evgenij Primakov, ministro degli esteri e capo del governo sotto la presidenza El’cin –, che ha sempre sostenuto che la Russia dovesse guardare a oriente e non a occidente. Viene istituita ad esempio l’Unione economica eurasiatica, si rafforzano i trattati di cooperazione alla difesa fra Russia e Asia centrale, c’è insomma un inizio di transazioni economiche che spiegano in parte anche perché Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina, nel senso che sente probabilmente di avere le spalle sufficientemente coperte sul piano del commercio e dell’economia guardando all’India, al Pakistan e a quei nuovi mercati che ritiene molto più remunerativi. Tutto ciò contribuisce a cambiare il concetto di sicurezza; rimangono a mio avviso come eredità sovietica la sindrome dell’accerchiamento e un forte anti-americanismo – non tanto un anti-occidentalismo. Lo si vede anche dai sondaggi dell’opinione pubblica russa: la Russia si sente minacciata sempre dagli Stati Uniti, in particolare nei suoi valori, e percepisce le rivoluzioni colorate come delle interferenze esterne degli Stati Uniti nella politica domestica di quei Paesi, non tanto per democratizzarli quanto per sottrarli alla sfera di influenza russa. Da qui nasce poi la narrazione secondo cui l’occidente contribuisce a diffondere la russofobia, nascono ad esempio Russia Today e Sputnik, sono reazioni e convinzioni che cambiano l’idea di sicurezza; dalla dottrina di cybersecurity ai concetti di politica di difesa, si menziona sempre la questione della sicurezza nazionale. In questo quadro di idea di difesa del Paese, anche l’utilizzo di armi sofisticate o addirittura di armi nucleari è concepibile, qualora le armi convenzionali non riuscissero a difendere la Russia dagli attacchi esterni. Infine, c’è a mio avviso anche una questione di rivalsa, che riguarda la delusione di Vladimir Putin per non essere stato accettato dall’occidente e per il fatto che non sia stato riconosciuto il ruolo di grande potenza della Russia, ritenuta invece – come la definì Barack Obama – una mera potenza regionale.

 

Fra i momenti di svolta, si potrebbe richiamare anche l’invasione dell’Iraq del 2003. È corretto dire che Vladimir Putin contesti all’occidente, e in particolare agli Stati Uniti, un eccessivo interventismo in Paesi terzi? Rivediamo oggi alcune delle dinamiche di competizione, tipiche del periodo della Guerra Fredda, fra campi contrapposti nel cosiddetto “sud globale”?

Mara Morini: È assolutamente corretto. La Russia è ancora convinta che si possa utilizzare il termine “imperialismo”, e non solo interventismo, americano. Vladimir Putin ha sempre attaccato l’idea della promozione della democrazia americana all’estero, non era per nulla favorevole all’invasione in Iraq – molti dicono che abbia il timore di fare la stessa fine –, dunque diversi nodi riguardano proprio la concezione dell’imperialismo americano, un tratto che caratterizza ancora fortemente il dibattito politico e governativo russo. È anche vero che la Russia è intervenuta negli spazi vuoti lasciati dagli Stati Uniti, si è visto in Siria e in Medio Oriente, e ha seguito la lungimiranza cinese nella penetrazione, ad esempio, nel continente africano. Tutto questo si è riflesso di recente nelle votazioni interne alle Nazioni Unite, ma ci sono più in generale eredità storiche di rapporti con certe aree del mondo che derivano da lontano. Vi sono prodromi storici che Vladimir Putin ritiene, in chiave di ridefinizione dell’ordine internazionale, importante portare avanti: dunque essere presenti, strategicamente, in alcune aree. Questo può avere comportato, ad esempio, contrasti con la Turchia di Erdoğan, quando gli obiettivi non erano allineati, proprio perché in ballo c’erano interessi in queste specifiche zone.

 

Veniamo ora all’Ucraina. In ragione del conflitto in corso, la situazione del Paese è sotto i riflettori da alcuni mesi, ma le tensioni in Ucraina hanno origini ben più longeve: è possibile tracciare un quadro storico di come si è arrivati allo scenario attuale?

Mara Morini: Credo che Vladimir Putin abbia deciso di chiudere una situazione che era rimasta in sospeso dal 2014, con l’annessione della Crimea – concepita dal Cremlino in realtà come una riunificazione della Crimea alla Federazione Russa. Su questa annessione si è detto e scritto molto, c’è chi utilizza il termine occupazione o invasione per la presenza di militari sul territorio, ma è anche vero che in Crimea c’è Sebastopoli, con la flotta russa del Mar Nero, c’era già un concordato decennale che legittimava in un certo senso la presenza di soldati russi in quel territorio. Quella situazione, nel mancato il riconoscimento internazionale, ha creato uno spartiacque fra l’occidente e una Russia che da allora ha accelerato il proprio avvicinamento verso l’oriente. In questi otto anni, il conflitto nel Donbass c’è stato ed è stato molto forte, producendo migliaia di morti. L’occidente e l’Unione Europea se ne sono occupati poco, interessandosene soprattutto inizialmente con i cosiddetti accordi di Minsk, che hanno visto anche un ruolo della Francia di Hollande e della Germania di Merkel per cercare di trovare un punto di contatto tra Ucraina e Russa. Tuttavia, rispetto agli accordi di Minsk – che fra l’altro prevedevano la neutralità dell’Ucraina, la promulgazione di un referendum nelle due repubbliche per eventualmente riconoscerne l’indipendenza ma rimanendo all’interno del territorio ucraino, amnistia per l’esercito ecc. – entrambe le parti hanno sostenuto che non siano mai stati applicati, attribuendosene reciprocamente la colpa. Per capire la situazione che si è venuta a determinare è necessario non soltanto guardare alle mosse di Putin, ma anche studiare bene la storia dell’Ucraina, perché il processo di democratizzazione di questo Paese è stato molto complesso e articolato. Da un lato l’Ucraina ha dimostrato alla Russia che l’alternanza al potere è possibile nell’estero vicino – e questo sicuramente ha generato un timore in Vladimir Putin, convincendolo della necessità di fermarla. Dall’altro, eventi come l’avvicendamento di presidenti filo-russi e filo-europei, e l’Unione Europea che tenta di avviare accordi di partenariato che porteranno poi alla “Rivoluzione della dignità” del 2013-2014 – conosciuta come Euromaidan – sono stati tutti interpretati dalla Russia come tentativi di interferire nel processo domestico dell’Ucraina con lo scopo di sottrarla all’influenza russa. La Russia parla infatti di colpo di stato per descrivere la destituzione di Janukovyč nel 2014 – in seguito è stato eletto Porošenko e poi, nel 2019, Zelens’kyj. Tuttavia, suggerisco di studiare la storia politica dell’Ucraina perché occorre comprendere quanto questa società sia culturalmente divisa, quale frattura anche geografica la caratterizzi – con una parte settentrionale che si vuole effettivamente ancorare ai valori occidentali e una parte orientale e meridionale più filo-russa –, con almeno una trentina di minoranze etniche e con una questione russofona che a mio avviso non è stata trattata politicamente in maniera adeguata, non solo da Zelens’kyj, ma anche dal suo predecessore. C’è infatti una forte componente nazionalista in Ucraina, che ha influenzato le politiche dei governi, oltre alla oggettiva presenza di componenti neonaziste come il Pravyj Sektor (il “settore di destra”) e il battaglione Azov, checché ne dica il suo rappresentante. Questi aspetti hanno rallentato il processo di democratizzazione dell’Ucraina, che è il Paese più corrotto in Europa dopo la Russia, il più povero adesso con il conflitto, ma prima se la giocava con la Moldova, e ha problemi di diritto e di rule of law, quindi non è pienamente consolidata dal punto di vista democratico. La scelta di Zelens’kyj di portare avanti il discorso del suo predecessore, cioè equiparare la lingua ucraina ad una lingua straniera nelle scuole, può aver provocato delle reazioni, in una popolazione da un certo punto di vista naturalmente bilingue. Credo che lì si sia assistito alla dimostrazione di quanto la classe politica fosse distante da quello che è il popolo – un aspetto che vale anche per la Russia. Anche rispetto al ruolo degli oligarchi, come rispetto alla corruzione, l’Ucraina è una “piccola Russia”. Al tempo stesso, si può certamente parlare di popoli fraterni fra popolo ucraino e popolo russo. La questione del Donbass è stata affrontata politicamente in maniera spavalda e inefficace. Volodymyr Zelens’kyj poteva essere, come d’altronde aveva scritto nel suo programma elettorale, un presidente capace di avvicinarsi e interagire con la Russia, pur senza fare diventare l’Ucraina un Paese filo-russo o succube; parlava il russo, ha condotto una campagna elettorale in russo, ha preso voti in tutto il Paese comprese le zone più filo-russe. È una situazione a mio avviso che ha delle componenti molto particolari, che dovrebbero essere approfondite, ma che ovviamente non giustificano in alcun modo l’invasione russa. Credo che Putin abbia visto una opportunità, ritenendo questo periodo storico – con la pandemia – particolarmente favorevole e l’occidente vulnerabile dal punto di vista sociale e politico, giudicando debole la politica del presidente americano Biden e divisa e poco coesa l’Unione Europa, e sapendo che nel vertice NATO di giugno si sarebbe dovuto parlare della ridefinizione del concetto strategico di difesa, processo nel quale la Russia voleva – e lo aveva esplicitato – essere attore coinvolto. Infine credo che abbiano pesato fortemente la questione dei valori e l’ambizione di Vladimir Putin di passare alla storia come colui che ha riportato la Russia allo status di grande potenza, nella convinzione – che si fonda su radici storiche e culturali molto profonde – che la Russia debba tornare ad essere l’impero russo, non avendo peraltro Putin condiviso gran parte delle questioni emerse durante l’Unione Sovietica. Se infatti c’è stato un certo revisionismo storico, questo è avvenuto soprattutto rispetto alla figura di Stalin, come leader che ha vinto la Seconda guerra mondiale e sconfitto il nazismo; da un lato dunque è letto come una catastrofe il crollo dell’Unione Sovietica, ma dall’altro lato si sono selezionati e riabilitati dell’Unione Sovietica solo quegli aspetti che a posteriori potevano fare presa sull’opinione pubblica russa, in particolare quella over-60. C’è in questo senso anche una forte frattura generazionale nella società russa, il che spiega molto del putinismo e dell’antiputinismo.

 

Ha richiamato molti degli aspetti di complessità che denotano l’origine e il carattere regionale di questa guerra. Come guardare alla dimensione più ampia e internazionale del conflitto in atto?

Mara Morini: Questo conflitto ha assunto declinazioni molteplici: è una guerra regionale, una guerra che contrappone i valori russo-orientali ai valori occidentali, e una guerra per la ridefinizione dell’ordine internazionale. Come richiamato, è da quindici anni che Putin contesta l’egemonia americana e l’unilateralismo, sostenendo che la soluzione più auspicabile sarebbe il multilateralismo. Certo si potrebbe discutere più a lungo di quanto accaduto negli anni Novanta, di come si sarebbe potuta includere la Russia nell’occidente, della proposta della casa comune europea di Mikhail Gorbaciov, ci sono molti nodi che dovrebbero essere ripresi per comprendere meglio come si è arrivati a questo punto – sempre fermo restando che nessuno di questi nodi giustifica quanto sta avvenendo, lo preciso anche se non dovrebbe esserci bisogno di farlo. È chiaro che adesso, anche in virtù dell’invio delle armi a sostegno dell’Ucraina, nella percezione del Cremlino e soprattutto nel racconto mediatico della propaganda russa questa viene percepita come la guerra della NATO. La famosa “operazione militare speciale” viene presentata come la necessità per l’eroico esercito russo di salvare il popolo fraterno ucraino dall’ingerenza e dall’invasione degli Stati Uniti e della NATO. Si tratta di una narrazione particolarmente forte e pervasiva: i dati emersi dal Levada Center raccontano una convinzione diffusa fra i russi che anche i morti che ci sono stati in Ucraina siano attribuibili agli Stati Uniti e alla NATO, ma non assolutamente alla Russia. Nei talk show russi si parla addirittura del fatto che Vladimir Putin non potrà perdere e quindi arriverà anche ad utilizzare la bomba atomica, insomma la propaganda e i mass media russi sono davvero in guerra contro gli Stati Uniti e la NATO. In questi mesi, da parte nostra, ho visto solamente escalation nei toni e nelle azioni. In quella che è la logica del Cremlino, ossia quella dello stimolo-riposta, ogni azione, ogni tono produce una certa risposta, che può essere la chiusura – come lo stallo dei negoziati –, oppure il missile inviato a Kiev mentre era in corso l’incontro tra Guterres e Zelens’kyj, vicino all’ambasciata britannica, anche in risposta alle affermazioni di Boris Johnson e del suo ministro della difesa. Sono tutte questioni molto complesse, che ormai hanno indubbiamente internazionalizzato il conflitto, perché si tratta appunto di una guerra di valori, di una guerra per la ridefinizione dell’ordine internazionale e, potremmo dire, di una guerra fra regimi democratici e non democratici. Se guardiamo alla dimensione geografica o – termine che in Italia piace molto – alla “geopolitica”, siamo veramente in una fase bipolare, occidente vs oriente, e questo quadro rallenta ulteriormente il percorso di risoluzione del conflitto e di costruzione della pace, che forse non vuole essere davvero intrapreso e questo mi rammarica. Fra tutti gli attori coinvolti, credo che l’Unione Europea sia quello che potrebbe e dovrebbe spingere maggiormente per trovare una tregua e un accordo. D’altronde Putin lo ha fatto capire a Guterres: Donbass e Crimea; certo, si dice che difficilmente Putin si accontenterà di questo e vorrà proseguire, ma credo che occorrerà ragionare sul bloccare innanzitutto una situazione che genera morti, e in seguito capire politicamente come scongiurare ulteriori avanzate di Putin. Sarebbe auspicabile che gli Stati Uniti non puntassero ad indebolire la Russia e ad un cambiamento di regime nel Paese perché significherebbe protrarre nel tempo il conflitto; come europei dovremmo capire se è questo che vogliamo e quali sarebbero le conseguenze anche per noi. Si era previsto il default economico della Russia nel giro di due mesi e questo non è avvenuto, la Russia sta rispondendo alle sanzioni – anche se certamente avrà serie difficoltà –, non è avvenuto un colpo di stato, gli oligarchi non hanno reagito. Se si aspetta che Vladimir Putin, in ragione di una qualche malattia di cui si parla da almeno dieci anni, venga a mancare e sia sostituito da un successore, mi permetto di dire – studiando questo Paese da decenni – che non è detto che il successore sia più democratico dello stesso Putin, perché esiste una componente all’interno del Cremlino che adesso punta realmente a non fermarsi al Donbass e invece a riprendere quello che era l’obiettivo iniziale, ossia l’occupazione dell’Ucraina.

 

A proposito di multilateralismo, nella consapevolezza dell’estrema complessità del quadro che si è delineato, quale ruolo delle Nazioni Unite? C’erano azioni di cui le Nazioni Unite avrebbero potuto farsi promotrici a livello locale per scongiurare questa evoluzione? 

Mara Morini: Credo che quasi tutti noi analisti abbiamo rilevato che le Nazioni Unite sono arrivate tardi. Probabilmente questa situazione ha dimostrato come alcune organizzazioni internazionali non abbiano saputo adattarsi ai tempi, rinnovarsi; c’è un problema politico, un problema organizzativo – basti guardare all’Unione Europea, che la Russia sa bene essere un gigante economico ma un nano politico. Il che dovrebbe portarci a riflettere sul fatto che non possiamo attendere eventi tragici e bellici per ragionare su come riformare le nostre istituzioni. Questa una prima lezione da trarre. La seconda è che tutti i nodi vengono al pettine e che gli errori si pagano. A mio avviso sì, la situazione attuale si poteva prevenire e si poteva risolvere; proprio per questo il mio invito è a studiare la storia, mettendo da parte ciò che si dice in questo momento e a sforzarsi di selezionare – per quanto difficile – nell’eccesso di informazione a cui siamo esposti. Ci sono numerose risorse, libri e saggi in particolare, che spiegano in maniera obiettiva che cosa è successo, basandosi su documenti, su archivi, su fonti primarie. A mio avviso, come ricordato, il nazionalismo presente in Ucraina ha condizionato eccessivamente anche un outsider della politica come Volodymyr Zelens’kyj, che ha fortemente modificato la propria azione politica rispetto alla visione originaria che proponeva. Se analizzassimo il percorso di Volodymyr Zelens’kyj, lo definiremmo come il classico populista che arriva al potere, e che come tutti i populisti al potere si deve scontrare con vincoli di natura procedurale e burocratica, ma anche con forze di spessore quali il ruolo degli oligarchi e appunto quello dei nazionalisti. Credo che questi elementi lo abbiano bloccato significativamente nei tentativi di risolvere la situazione nel Donbass e di intavolare un dialogo con Vladimir Putin. Non attribuisco, sia chiaro, nessuna colpa a Volodymyr Zelens’kyj; dico semplicemente che ci sono componenti storiche e politiche all’interno dell’Ucraina che non hanno favorito il percorso di democratizzazione del Paese e hanno alimentato le fratture e le situazioni che si sono venute a creare. Capire chi sono, come si muovono e come esercitano la propria influenza alcuni attori, che oggi hanno condizionato Zelens’kyj e domani condizioneranno qualcun altro, è fondamentale per cercare di comprendere come risolvere i problemi dell’Ucraina e come aiutarla veramente, al di là delle mere sovvenzioni. Dunque, mi auguro che quando si giungerà ad una soluzione – che potrebbe essere peggiore rispetto agli accordi di Minsk – si possa ripartire da questo tipo di analisi, e che la politica tenga in considerazione la necessità della conoscenza e dello studio di questi Paesi.

 

Per concludere, a suo avviso che cosa dice del “putinismo” l’ondata di attivismo No War (“net voyne”) a cui si sta assistendo in Russia? La repressione di queste forme di dissenso denota un elemento di erosione o debolezza del “putinismo” stesso?

Mara Morini: Sarebbe chiaramente sbagliato ritenere che tutta la popolazione o l’opinione pubblica russa sia a favore di questo intervento. Dissidenti, oppositori, proteste ci sono sempre state nella Russia di Putin – a volte più a livello locale, in diverse parti della Federazione Russa, non soltanto in maniera circoscritta a Mosca e San Pietroburgo. Come accennavo, sicuramente la dimensione generazionale è forte: gli under-50 e soprattutto i giovani che sono nati con Putin e lo vedono ancora al potere desiderano un cambiamento, e qui ad esempio – ne parlo anche nel libro – il ruolo dei social media è stato molto importante per questa generazione per capire che esiste anche un mondo alternativo. È stato particolarmente rilevante anche rispetto ad attori come Aleksej Naval’nyj, che nasce come blogger, consentendo ad esempio di riunire migliaia di persone per protestare dopo le elezioni parlamentari del 2011. È chiaro che la repressione ha limitato il numero di coloro che manifestano il proprio dissenso, non solo scendendo per le strade a protestare, ma anche esprimendo la propria opinione ad esempio nei luoghi di lavoro: bisogna tenere in considerazione che vige una sorta di atmosfera del terrore, perché spesso si è segnalati da un proprio collega o da un amico. Si rischia grosso: se non il carcere – i numeri sono elevati, ma spesso si tratta di fermi amministrativi di ventiquattro o quarantotto ore se si ha la fedina penale pulita, anche se naturalmente si rientra in una lista in cui non è piacevole essere –, si rischia di essere licenziati, mobbizzati e così via. Questo spiega anche, a mio parere, quanto sia ambizioso e irrealistico pensare che ci possa essere una rivoluzione dal basso per favorire un cambiamento di regime.

Scritto da
Chiara Lovotti

Research fellow all’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) e coordinatrice scientifica della conferenza “Rome MED-Mediterranean Dialogues”. Ha conseguito un dottorato presso l’Università di Bologna. In precedenza è stata visiting fellow all’Università di Oxford e Scholar presso The Europaeum.

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