Scritto da Daniele Molteni
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Un tempo considerata come un modello di democrazia nel Nord Africa, la Tunisia vede oggi una gestione sempre più autoritaria del potere da parte del presidente Kaïs Saïed, che ha messo in atto una strategia politica di repressione delle opposizioni e della società civile, mentre è alle prese con una grave crisi sociale ed economica che influenza le prospettive future dei giovani di tutte le classi sociali. Nel contesto di questa crisi, il Paese è diventato uno dei principali luoghi di partenza di persone che ricercano una vita migliore altrove, soprattutto in Europa. A partire sono sia tunisini che cittadini subsahariani, con questi ultimi che sul fronte interno sono i più discriminati dalle autorità che agitano il timore complottista della “sostituzione etnica”. Sul fronte internazionale, inoltre, la Tunisia rientra sempre più nella strategia europea di esternalizzazione delle frontiere che prevede la cooperazione tra l’Unione Europea e i Paesi vicini, tra cui quelli della sponda Sud del Mediterraneo, volta a fermare i flussi migratori diretti verso il Vecchio continente.
La società civile tunisina è quindi alle prese con sfide complesse e drammatiche, dove si mescolano storie di disperazione, di speranza e di tenace ricerca di un futuro migliore. In questa intervista a Sara Giudice – a partire dal suo ultimo libro Polveriera Tunisia. Cronache di un Paese al collasso (Rizzoli 2024) – analizziamo i molteplici aspetti di una crisi che ha trasformato la Tunisia, oggi segnata dalla disillusione post-rivoluzionaria, fino a renderla prossima, appunto, al collasso. Attraverso il lavoro sul campo e un’analisi che racconta le cause profonde di una situazione dove le promesse della Rivoluzione dei Gelsomini si sono infrante contro la dura realtà di un’economia stagnante e di un sistema politico che scivola verso l’autocrazia, Giudice dà voce alle persone mettendo in luce non solo le condizioni che spingono tanti a fuggire, ma anche le difficoltà che affrontano coloro che decidono di restare.
Nel suo libro definisce la Tunisia come un «Paese dove i buoni e i cattivi si mescolano nelle sfumature più imprevedibili», e proprio queste sfumature emergono nelle tante storie che ha raccolto. Da cosa è nata questa esigenza di raccontarle e come ha scelto le persone a cui dare voce?
Sara Giudice: Nella primavera del 2023 durante l’ennesima crisi migratoria sono ricominciati gli sbarchi e Lampedusa si è ritrovata, come spesso accade in questo periodo dell’anno, in condizioni di emergenza. La Tunisia, in quel momento, aveva assunto un maggiore ruolo come hub di partenze sia di tunisini che di migranti subsahariani e da questa congiuntura è nata la mia esigenza, la volontà e la curiosità di andare a ritroso nel tempo per cercare di comprendere le cause di questa crisi. Da quel momento in poi sono stata in Tunisia più volte e per periodi prolungati per raccogliere, nelle diverse partenze e ritorni, le storie delle persone che racconto nel libro. Questa curiosità è emersa da numerose domande fondamentali che mi sono posta: «Da dove partono le persone che migrano? Perché partono? Qual è oggi lo stato di salute della democrazia africana più compiuta che conosciamo? Come stanno le persone che ci vivono?». Per rispondere a queste domande ho preso come riferimento storico la Rivoluzione dei Gelsomini, cercando di capire cosa ne è stato e perché oggi tante persone fuggono dal Paese. Come dicevo, la Tunisia è diventata sia un hub internazionale per la partenza di moltissimi migranti subsahariani – complice l’assenza di controllo statale in alcune zone del Paese, che ha favorito l’ascesa di trafficanti che organizzano le partenze, specie dopo la chiusura delle rotte libiche negli anni precedenti – sia un luogo di fuga per gli stessi tunisini. Così, si sono sovrapposte le esigenze migratorie di queste due popolazioni e si è andata a creare una situazione paradossale con partenze di “prima classe” per i tunisini e di “terza classe” per i subsahariani. Il mio interesse giornalistico è stato quello di indagare lo stato di salute di un popolo che possiamo scorgere, in una giornata di sole, da Pantelleria o da Lampedusa. Un popolo vicino a noi che sta vivendo una delle crisi economiche più profonde e disperate dalla Rivoluzione dei Gelsomini, una crisi che sicuramente ci riguarda. La ricerca delle risposte mi ha portato poi alla scrittura delle diverse storie attraverso il reportage, lo stile che più mi rappresenta, perché amo il lavoro sul campo. In questo senso, l’obiettivo è stato quello di raccontare la Tunisia attraverso la voce e gli occhi dei tunisini provenienti dalle regioni più diverse del Paese, dal Nord al Sud, dall’entroterra alle coste.
A un certo punto racconta che la passione per il lavoro di reporter è iniziata durante la Rivoluzione dei Gelsomini, un periodo di grandi speranze per la Tunisia da cui, come accennato, ha deciso di partire per ricercare le cause della crisi attuale. Cosa è cambiato da allora e quali sono le ragioni principali – storiche, interne e internazionali – che hanno portato la Tunisia a trovarsi oggi in questa situazione senza che le persone scendano più in piazza? Quale ruolo ha avuto l’attuale presidente Kaïs Saïed nella fase politica post-rivoluzione?
Sara Giudice: Kaïs Saïed ha avuto senza dubbio un ruolo centrale nella politica tunisina presentandosi come un leader populista con una personalità forte e determinata – tanto da essere soprannominato “Robocop” per il suo modo di parlare freddo e pragmatico – e promettendo di portare la Tunisia fuori dalla crisi economica, preservando lo status democratico del Paese e la sua laicità, un valore caro ai tunisini soprattutto dopo la difficile fase di islamizzazione più radicale. Saïed è percepito come l’uomo forte al comando, colui che può prevenire una deriva islamista e un ulteriore aggravamento della crisi economica, e la persona che meglio riesce a dialogare con il Fondo Monetario Internazionale senza apparire succube, o almeno così è come si presenta ai tunisini. Attualmente è l’unico leader credibile agli occhi della popolazione – purtroppo, dal mio punto di vista – ma si tratta chiaramente di una vittoria di Pirro: è il solo leader tunisino che ha qualche speranza di vincere le elezioni soprattutto perché ha imprigionato numerosi esponenti delle opposizioni. Tra gli arrestati figurano giornalisti, giudici, avvocati e oppositori politici, inclusa una donna che era una delle poche leader con serie possibilità di competere contro di lui. In realtà, Saïed ha trascinato il Paese verso quella che ormai è a tutti gli effetti un’autocrazia. Dalla Rivoluzione dei Gelsomini molte cose sono cambiate e vediamo oggi una generazione che si sente tradita da quella rivoluzione mancata. Ho parlato con quarantenni che all’epoca lottavano nelle piazze per la libertà e che oggi rimpiangono di non aver lasciato il Paese, come invece stanno facendo molti ventenni. In quella rivoluzione la borghesia illuminata tunisina e il popolo si unirono per rivendicare gli stessi obiettivi: uscire dalla crisi economica e dalla corruzione che avevano soffocato il Paese sotto Ben Ali così da guardare verso la democrazia e la laicità, due aspetti presenti nell’anima dei tunisini sin dai tempi di Bourghiba. Quella rivoluzione è stata tradita prima di tutto dai governanti, ma anche, ad esempio, dalla polizia e dalla stessa corruzione della borghesia, una classe sociale che come spesso accade abbandona il popolo dopo aver soddisfatto i propri interessi, lasciandolo nella miseria più assoluta per la mancanza di volontà e di capacità di risollevarlo dalla povertà e dalla crisi. Non avendo trovato un equilibrio nei diversi governi instabili succedutisi prima di Saïed, i giovani tunisini oggi non vedono più la rivoluzione come una possibile via d’uscita, così come non vedono realizzabile un cambiamento all’interno del loro Paese ma soltanto la possibilità di raggiungere un’Europa percepita come la terra promessa.
Un sondaggio dell’Observatoire national de la migration, riportato nel libro, rileva come il 90% dei giovani voglia lasciare il Paese a qualunque costo. A proposito di questo, quali sono gli aspetti meno noti, anche della vita quotidiana, che meritano maggiore attenzione da parte dei media internazionali e che portano così tante persone a cercare futuro altrove?
Sara Giudice: Il desiderio di partire e lasciare il Paese non si avverte solo nelle periferie più remote, ma è un’esigenza profonda e comune di una vasta gamma di individui: non solo i figli dei commercianti, ma anche i figli degli insegnanti esprimono questa aspirazione, rendendo il fenomeno trasversale a tutte le generazioni e classi sociali, per motivazioni diverse. Per esempio, Fedi, un giovane di cui parlo nel libro, era figlio di un preside di Kélibia ed è partito perché il suo sogno di diventare calciatore lo ha portato a guardare oltre, dalla punta della Tunisia verso Pantelleria, verso l’Italia, e a sperare in una chance che non è riuscito a intravedere nel suo Paese. Non sempre c’è solo un’esigenza di sopravvivenza, ma spesso anche un forte desiderio di migliorare la propria condizione e coltivare speranze e aspettative, per cui si è disposti a viaggiare su una barca per seguire il sogno di cambiare la propria vita. Dall’altra parte, ci sono poi ovviamente anche i figli dei più disperati, che magari per permettersi il viaggio devono vendere tutto ciò che hanno o prendere il timone per diventare scafisti, guidando le barche per altri. Questi giovani così diversi si ritrovano spesso insieme su quelle stesse barche, condividendo le stesse rotte verso l’Europa, partendo dalle Isole Kerkenna o da Sfax dopo aver intercettato i trafficanti di esseri umani.
Oltre appunto a parlare delle difficoltà politiche ed economiche e delle lotte quotidiane dentro e fuori dal Paese, un capitolo è dedicato specificamente alla questione delle donne. Che cosa si può dire della condizione femminile oggi in Tunisia?
Sara Giudice: La questione femminile è un aspetto molto interessante della Tunisia perché le donne sono centrali nella storia del Paese, sia perché hanno una coscienza femminista molto più avanzata rispetto ad altri Paesi arabi e sia perché, oggi, costituiscono la maggioranza delle nuove persone laureate. Le giovani tunisine hanno un’idea del loro Paese che definirei di sano nazionalismo, di amore profondo, ed è interessante notare, in questo contesto, la spaccatura dal punto di vista religioso: mentre molte donne più laiche lavorano ed escono senza velo o indossando minigonne, nelle stesse strade di Tunisi si possono vedere donne completamente coperte, in una diversità che riflette la pluralità di visioni del mondo e di sensibilità. Con l’arrivo di Kaïs Saïed sono stati fatti dei passi indietro in termini di rappresentanza femminile, ad esempio nel Parlamento, ma è significativo osservare come le donne tunisine siano state storicamente tra coloro che hanno sopportato le peggiori difficoltà, da cui sono uscite rafforzate. Come nel caso delle madri tunisine, che con una forza eccezionale portano avanti il peso delle battaglie e la lotta per i loro figli, dalla madre che ricerca il corpo del figlio disperso nel Mediterraneo, a quella che lotta per ottenere giustizia per i suoi figli dopo che il marito si è immolato, sostenendo il peso della famiglia e del suo gesto politico. L’impressione che si ha guardando alle donne tunisine è che siano il pilastro della società, perché dimostrano una forza enorme e una dignità incredibile che le spinge a voler ricoprire ruoli di rilievo. Nel mio libro intervisto anche una donna candidata alla Presidenza la cui storia è particolarmente significativa, ma moltissime altre donne aspirano a far parte della vita politica, sociale e civile della Tunisia, e questo è un segnale veramente interessante e positivo.
Nei punti più delicati del libro trovano spazio riflessioni sui dilemmi propri del giornalismo, sull’entrare dentro la vita delle persone, ma anche sull’importanza di collaborare con fixer locali per avere accesso alle storie. In particolare, colpisce l’episodio in cui lei e Mohamed, il suo fixer, fingete di voler partire per raggiungere l’Italia e, oltre a parlare con i trafficanti, dialogate con altre persone nella stessa condizione. Come ha bilanciato la sensibilità personale verso il dolore degli altri che emerge nel racconto con la necessità di mantenere un approccio obiettivo e professionale?
Sara Giudice: Bilanciare il coinvolgimento emotivo e il rispetto per le storie di chi si incontra è una sfida complessa. Chiaramente è importante entrare nella vita di queste persone con delicatezza ed è fondamentale avere un’empatia che nasca dal sentire profondamente le loro storie e dal rispettare le loro vite. Nel caso della scrittura di questo libro ho avuto la fortuna di occuparmi di ciò che desideravo davvero, perché sono tutte storie che sentivo sulla mia pelle e che volevo raccontare. La maggior parte di queste storie è pervasa di dolore ma anche di speranza, la speranza di lasciare il Paese per trovare una nuova dimensione di felicità. Molte di queste persone portano con loro il peso di viaggi falliti e di familiari persi, come figli o fratelli, e non esiste una formula precisa per entrare nelle loro vite. È essenziale sentire realmente ciò che si racconta perché, se non sei immerso completamente, le persone percepiscono che la tua connessione con la loro storia non è autentica. In alcuni casi, come quello citato dove ho dovuto fingere di essere una migrante in partenza, è stato difficile distinguere tra realtà e finzione, perché ero completamente immersa in quella storia. Più ci si immedesima in una storia e in un’identità, più è possibile far emergere le emozioni e le verità autentiche delle persone che si incontrano. Questa immersione però deve essere genuina e basata sull’ascolto di queste vite; altrimenti, il racconto rischia di diventare artefatto. Durante la scrittura del libro ho elaborato personalmente il dolore di queste persone, provando anche un senso di colpa nei loro confronti perché molti di esse una volta che le facevo aprire mi restituivano lacrime. Questo da un lato è stato frustrante ma dall’altro ho percepito un profondo senso di gratitudine da parte loro, perché sentivano che la loro storia, spesso dolorosa come quella di un figlio perduto, interessava a qualcuno e meritava di essere ascoltata e raccontata. Il fatto che la loro esperienza fosse considerata significativa e degna di essere inclusa in un libro le ha aiutate a uscire dall’ombra, e questo in qualche modo ha compensato le lacrime e il dolore. Purtroppo, il compito del giornalista è spesso quello di aprire le ferite per mostrarle senza la certezza di poterle guarire.
Oltre al dolore delle persone, Polveriera Tunisia. Cronache di un Paese al collasso racconta anche la speranza, come è stato sottolineato, nonostante quello che il libro richiama a partire dal titolo e dal sottotitolo. Dopo anni in cui il fuoco della rivoluzione sembra essersi spento, ci sono ancora margini nelle storie che ha ascoltato che fanno sperare in un cambiamento positivo? A cominciare dalle politiche migratorie, qual è il ruolo del nostro Paese, e dell’Unione Europea più in generale, in Tunisia? E come dovrebbe cambiare per coltivare questa speranza?
Sara Giudice: In Italia e in Europa continuiamo a concepire il Nord Africa come un luogo dove nascondere la testa sotto la sabbia e questo è evidente nei finanziamenti a pioggia destinati a quello che, non solo da me ma anche da molti osservatori e dai tunisini stessi, ormai è considerato un regime dittatoriale supportato al fine di provare a gestire le migrazioni irregolari. Con questi finanziamenti manteniamo una guardia costiera che ignora i diritti umani e che è responsabile dei morti nel Mediterraneo, come nel naufragio avvenuto a metà aprile al largo delle coste di Sfax che racconta di bambini e donne lasciati morire dalla Guardia Costiera tunisina, con decine di testimonianze a confermare questi episodi. La Guardia Costiera tunisina è finanziata e supportata dall’Italia mentre assume un ruolo che è quello di bloccare la crisi migratoria, in una logica identica al metodo applicato in Libia: finanziare questi Paesi senza una chiara supervisione su come vengono utilizzate le risorse, mentre i disperati continuano a partire per mare o a morire nel deserto. Il nostro approccio alle crisi migratorie è sempre lo stesso, perché non abbiamo un piano definito per considerare questi luoghi e queste persone come risorse per il nostro Paese. Quando parliamo di visti regolari, parliamo di prefetture e ambasciate che bloccano i permessi per mesi, costringendo anche i pochi imprenditori che vorrebbero accogliere queste persone nei posti di lavoro già assegnati a rinunciare, poiché i permessi si dilungano così tanto che spesso i lavoratori non sono più necessari. Le professionalità sono necessarie e queste persone le hanno, ma troppo spesso vengono trattate alla stregua di animali da tenere il più possibile rinchiusi in gabbia, e la Tunisia è una di queste gabbie. Finché continueremo a mantenere approcci emergenziali come questo, non vedo segni particolari di speranza. Si è parlato del “Piano Mattei” e di ingenti somme destinate allo sviluppo del Nord Africa ma continuo a vedere poco di concreto, ed è frustrante osservare come nel corso degli anni sia i governi di centrodestra che di centrosinistra abbiano adottato lo stesso approccio: criminalizzare chi salva vite in mare e inviare denaro a governi dalla moralità dubbia, dove i diritti umani sono sistematicamente ignorati. Nessuna di queste strategie ha mai fermato coloro che desiderano partire; al massimo, ha reso la loro vita più complicata e ha provocato più morti. Mai nessuno si è fermato davanti alle guardie costiere con i bastoni in mano, o con le pistole quando va male. Ricordo la scena di un ragazzo di nome Fakri sulle spiagge di Sfax intento a leggere un libro in lingua tedesca, che quando gli ho chiesto perché studiasse proprio il tedesco nonostante ci siano molte altre lingue che avrebbe potuto apprendere, mi ha risposto che lo fa perché, secondo lui, la Germania è il Paese che offre più opportunità per visti regolari e come requisito richiede una certa conoscenza della lingua tedesca. Noi non abbiamo mai un progetto concreto per queste persone e gestiamo la migrazione in modo emergenziale, perché non riusciamo a capire che questa non è più un’emergenza ma un fenomeno costante del nostro presente. Recentemente ho visitato una mostra a Milano dedicata alla tragedia del Titanic che mostrava l’enorme quantità di migranti che si spostavano dall’Europa agli Stati Uniti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, quando non esistevano visti e si viaggiava su grandi navi. La storia dell’umanità è la storia dei movimenti delle persone, per questo fatico a comprendere perché continuiamo a considerare queste persone non solo come una minaccia ma anche come un problema da gestire. Ho conosciuto giovani che parlano tre o quattro lingue, con abilità e competenze notevoli e una straordinaria voglia di inserirsi nel mondo. Vedere che queste energie non vengono minimamente considerate, e che non c’è un metodo, qualunque esso sia, per garantire canali regolari e giusti per arrivare nel nostro Paese o in altri Paesi europei è frustrante. Al momento, l’unica via rimane quella del mare, della morte e dell’irregolarità, che spesso conduce a esistenze prive di dignità anche in Europa.