Recensione a: Germano Dottori, La visione di Trump. Obiettivi e strategie della nuova America, Salerno Editrice, Roma 2019, pp. 207, 16,00 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Prina Cerai
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L’annuncio di Donald Trump del ritiro delle truppe americane dal confine nord-orientale siriano con la Turchia – e l’avvallo conseguente dell’operazione militare di Ankara nei confronti della popolazione curda – ha colpito profondamente l’Europa. Una decisione che, come confermano i drammatici risvolti degli ultimi giorni, rischia di alimentare ulteriormente la spirale di violenza e instabilità che ormai attanaglia la regione, specialmente per le gravi ripercussioni umanitarie che ne deriveranno. Provare a comprendere la ratio di fondo di questa scelta è un esercizio complicato, tanto moralmente quanto lo è a livello strategico se consideriamo la dura reazione che alcuni apparati – su tutti il Pentagono e il Dipartimento di Stato – hanno riservato al Presidente.
Tuttavia, questo triste episodio – oltre a scuotere le nostre coscienze – ci ricorda quale sia il prezzo del disimpiego unilaterale degli Stati Uniti da una regione che, ormai da quasi un decennio, è divenuta disfunzionale per gli interessi americani. Lo è diventata perché, nei calcoli di Washington, i costi per una sua precaria stabilizzazione sono diventati insostenibili rispetto ai potenziali benefici. Lo aveva compreso già Barack Obama, seppur con retoriche, tempistiche e strumenti differenti. Provare a comprendere il mondo che fino ad oggi ha tentato di plasmare Donald Trump, a poco meno di un anno dalle elezioni presidenziali, è un esercizio tanto complesso quanto indispensabile. Ne è più che consapevole Germano Dottori – docente di Studi Strategici alla LUISS e consigliere scientifico di Limes – che in La visione di Trump. Obiettivi e strategie della nuova America edito da Salerno Editrice prova a delineare, nello «sfondo della contemporaneità», il ruolo di Trump nel «costante adeguamento degli Stati Uniti alle nuove realtà e sfide della politica interna e internazionale» [p. 21].
Ragionare in questi termini significa inserire la parabola politica del tycoon in un contesto di ampio respiro e seguire il fil rouge che si è dipanato dalla matassa del 1989 – di cui quest’anno ricorre il trentesimo anniversario. Ci si è spesso domandati in questi anni se i “Donald Trump” (utilizzando l’etichetta sovranista-populista) rappresentassero un mero cortocircuito politico nell’era della globalizzazione, una casualità (e non una causalità) della storia. Tuttavia, nel contesto democratico americano – seppur in un periodo di forte polarizzazione politica – una figura come Trump può anche essere compresa come la risposta coerente, e non fortuita, fornita da un insieme di forze nella galassia degli interessi americani ad un riassestamento geopolitico globale che minaccia la supremazia degli Stati Uniti. Dall’adottare una di queste chiavi di lettura consegue l’utilizzo di due approcci alla storia americana differenti: l’uno che risente della narrazione dell’egemonia americana del post-1945, dei suoi discorsi e strumenti per come li abbiamo conosciuti come un’ineluttabile prassi dell’internazionalismo anche nel mondo post-bipolare; l’altro che riscopre le tante sfaccettature della politica estera americana dalla fondazione della nazione nel 1776, che hanno via via rispecchiato un modo di porsi e di immaginarsi nel mondo a seconda dei mutevoli percorsi della storia. Va da sé che a seconda di queste prospettive l’esperienza di Trump può e potrà assumere una valenza differente. Nel primo caso Trump sarebbe la risposta nazionalista e contingente che reagisce con incoerenza e barbara miopia alle sfide dell’interdipendenza; nel secondo il Presidente repubblicano potrebbe essere, al contrario, colui che ha completato definitivamente un cambio di paradigma a lungo sopito nella politica estera americana, specialmente di fronte alle evidenti asimmetrie del mondo globalizzato. Ed è in questo secondo solco che Dottori decide di inserirsi.
Dopo una doverosa premessa sulla transizione dalla Guerra Fredda al mondo post-bipolare, in cui si affermarono nuove concezioni della sicurezza nazionale americana – da quella geoeconomica di Clinton all’interventismo militare preventivo di George W. Bush – Dottori introduce il primo elemento chiave della sua analisi: come recita il titolo del primo capitolo, Trump «Non è stato un incidente» ma piuttosto il consolidamento di un nuovo orientamento strategico già introdotto dal suo predecessore. Sono infatti le continuità strategiche, più che le indiscutibili differenze in stile, retorica e retroterra istituzionale, ad accumunarli. Entrambi – ed Obama per primo – hanno compreso una verità di fondo: l’impossibilità per gli Stati Uniti di poter essere ovunque nel mondo con la stessa incidenza del passato. Nei momenti più caldi della Guerra Fredda si diceva spesso che «a defeat anywhere is a defeat everywhere», un chiaro paradosso del sentirsi onnipotenti[1]. Tuttavia, una buona strategia è il risultato di un utilizzo efficiente di determinate risorse per conseguire fini prestabiliti. Ciò è ancor più valido nello scenario odierno, in cui gli Stati Uniti non dispongono più di una preponderanza di potenza tale da poter imporsi senza condizioni e, soprattutto, con un margine di salvaguardia così ampio. Negli USA questa consapevolezza – vissuta materialmente nel declino socio-economico di alcune aree del paese – ha contribuito molto alla polarizzazione politica, tradottasi in un generale spaesamento di fronte al ruolo internazionale del paese. Obama e Trump, rispettivamente nel 2008 e nel 2016, sono stati i prodotti politici di questo processo latente, a cui le due amministrazioni hanno deciso di rispondervi con un approccio minimalista in politica estera, ma dai toni e strumenti differenti: il primo adottando un lessico wilsoniano per calmierare «una visione tipicamente realista delle relazioni internazionali», mentre il secondo promuovendo «un’agenda nazionalista» e rigettando i dogmi dell’internazionalismo [pp. 50, 54] in favore del rispetto della sovranità. Ed ecco che, nell’interpretazione di Dottori, la “dottrina Trump” assume una veste jacksoniana. Un’etichetta – presa in prestito dall’Autore dal celebre libro di Walter Russel Mead Special Providence (2001) – che a onor del vero un po’ tradisce la trasversalità della riflessione. Si badi bene: cercare categorie statiche per interpretare un processo in divenire, cogliendone delle “istantanee”, può essere utile. Tuttavia, il ricorso alle tradizioni della politica estera americana induce ad una compartimentazione di concetti e paradigmi che mal si sposa, a giudizio di chi scrive, con lo sforzo olistico che traspare da questo libro nell’interpretazione, seppur difficile, dell’operato di Trump.
Ciò detto, la tradizione jacksoniana vorrebbe la politica estera come il ricorso ad un realismo nazionalista, disponibile all’utilizzo di qualsiasi strumento per difendere gli interessi del popolo statunitense. Queste categorie sono in grado di definire, esaustivamente, l’operato di Trump? Difficile stabilirlo. Molto più convincente risulta lo sforzo di Dottori di inquadrare il cambio di paradigma operato da Trump all’interno di una prassi ormai consolidata nella tradizione strategica americana degli ultimi tre decenni: l’analisi delle National Security Strategy. Tali documenti, divenuti centrali con il passaggio del Goldwater-Nichols Act del 1986, rappresentano la dichiarazione d’intenti del ruolo, delle strategie e degli imperativi di sicurezza che le amministrazioni statunitensi percepiscono come salienti nelle dinamiche internazionali di medio-lungo periodo. Ovviamente, tali considerazioni – spesso aleatorie e simboliche – non vengono tradotte meccanicamente in fatti, poiché spesso sono il risultato di un’ibridazione tra la visione presidenziale e quella degli apparati burocratici. Quello che emerge in questo excursus dal 1993 al 2017 è la proporzionalità inversa tra il ricorso all’uso della forza militare e il «peso dei temi legati alla sicurezza economica» [p. 59]. Un processo intervallato da cesure forti, come gli interventi nei Balcani e in Medio Oriente, ma del tutto subordinati ad una gerarchia di interessi sempre più dettata dall’agenda economica internazionale. La globalizzazione – e il ricorso al multilateralismo – hanno diffuso oneri e responsabilità, ma allo stesso tempo ridotto costrizioni e priorità degli USA nella gestione e mantenimento dell’ordine internazionale nel suo complesso. Obama – con un approccio che Dottori definisce smart e reso possibile con il consolidarsi dell’era digitale – ha colto queste opportunità per ridurre l’esposizione del paese, mantenendo un’agenda globale (con un focus specifico sulla Cina) e riducendone i rischi e i costi politici. Tuttavia, l’amministrazione democratica ha pagato un caro prezzo nella gestione, spesso ambigua, del nesso tra prestigio e potere: rivendicando l’importanza del primo e «dissimulando» l’esercizio del secondo, Obama ha di fatto alimentato la polarizzazione dello spettro politico, «portando il suo interprete più radicale [di queste due componenti] alla Casa Bianca» [p. 91].
La campagna elettorale di Trump ha avuto una costante: la netta contrapposizione al predecessore, alle sue scelte e ai suoi discorsi. Alimentata da un passato turbolento, la rivalità tra le due figure politiche tuttavia non può essere sussunta come cifra per interpretare la transizione alla Casa Bianca, soprattutto sui temi di politica estera. I due «gemelli diversi» si sono avvicendati sul solco di continuità strategiche non di poco conto: la refrattarietà all’utilizzo dello strumento militare – con Trump resa ancor più evidente dai rapporti burrascosi con la Difesa; un realismo pragmatico nella gestione dei dossier globali e regionali al fine di «conservare agli Stati Uniti la posizione dominante nel sistema internazionale […]» [p. 103]. Dalla leadership proposta da Obama all’America First sono cambiate le tattiche, ma sempre tre sono rimaste le «direttrici» strategiche interconnesse: il contenimento della Cina, il ridimensionamento dell’Unione Europea e il confronto con l’Islam. Dottori fa emergere con grande chiarezza queste continuità, al netto degli approcci calibrati rispetto ai singoli quadranti geopolitici – sottoposti ai flussi imprevedibili della storia – delle due amministrazioni. L’inerzia americana di fronte alle Primavere Arabe e alla comparsa dell’ISIS, in questo senso, dimostra quanto il vecchio paradigma della Guerra Fredda fosse ormai obsoleto: in assenza di una singola potenza – o di un’ideologia totalizzante – in grado di concentrare il proprio controllo su una o più regioni dell’Eurasia, approfittando del vuoto americano, gli Stati Uniti potevano anche accettare il perpetuarsi del caos, ritenuto semmai funzionale al loro riorientamento verso il Pacifico e all’ostilità crescente nei confronti dell’Europa. Trump ha accettato il fine, ma ha adottato altri mezzi: la détente con Mosca, inquadrato nell’idea di un nuovo ordine internazionale in cui oneri e responsabilità degli USA vengano ridotti a costo di subappaltare la gestione degli equilibri regionali ad attori locali. Infine, l’utilizzo senza scrupoli di «armi di natura economica», per esercitare quel «privilegio esorbitante goduto dal dollaro» a dispetto degli strumenti prediletti da Obama (ONG e leverage americano nelle istituzioni multilaterali) [pp. 127, 128].
Gli ultimi due capitoli del libro “pesano” quanto del disegno strategico di Trump sia stato attuato nella politica internazionale e in che misura gli accorgimenti tattici siano stati dettati dalla necessaria sopravvivenza politica alla Casa Bianca. Ciò che trapela dalle parole di Dottori è l’idea che il programma di politica estera trumpiano sia rimasto decisamente inattuato. Dunque, per un giudizio definitivo molto dipenderà dagli esiti delle presidenziali 2020. Ciò non toglie che le resistenze al Congresso e agli alti livelli delle burocrazie esecutive abbiano giocato un ruolo chiave, soprattutto per l’incompatibilità di fondo tra l’approccio nazionalista del Presidente e l’internazionalismo che domina gli apparati. Ma quali sono state, in concreto, le mosse di Trump? Innanzitutto, ridurre il peso globale degli Stati Uniti richiamando il concetto di sovranità e ripudiando i sogni liberal sulla necessaria democratizzazione del mondo. Il disimpiego dal Medio Oriente, come detto poc’anzi, lascerà un vuoto geopolitico che scatenerà – se non lo ha già fatto – una corsa al primato regionale e, in questo senso, l’interrogativo rimane sui rapporti con l’Iran. Ma pare essere una concessione a Mosca che, anche dopo il ritiro americano dall’INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty) siglato nel 1987, continuerà ad essere la pedina fondamentale per isolare Pechino. Già, è proprio la Cina di Xi Jinping la matrice del disegno strategico americano (si, non solo di Trump ma di tutto l’establishment di sicurezza il cui atteggiamento ostile verso la Cina è davvero bipartisan). Perché la Cina è ritenuta l’unica potenza in grado di contendere l’egemonia americana nel XXI secolo a partire dalle nuove frontiere tecnologiche. La guerra dei dazi, per Dottori, rappresenta l’esternalizzazione di questa preoccupazione e il primo strumento di contenimento messo in atto dall’amministrazione (ai tempi Obama ci aveva provato con il TTIP e il TTP, ma avvicinando pericolosamente Mosca e Pechino). È chiaramente fuorviante ritenere che le relazioni bilaterali sino-americane possano monopolizzare l’agenda americana, tuttavia il rischio di una futura contendibilità dell’Europa (compresa l’Italia) e di altre regioni in questa competizione globale non è del tutto da escludere. Il progetto del 5G, che tanto ha acceso l’immaginario italiano, e la reazione isterica di Washington ben rappresentano questa nuova mentalità: se l’infrastruttura dell’Internet of Things (IoT) verrà costruita dai cinesi, Pechino possiederà un potenziale di ricatto non bilanciabile e avrà in mano uno strumento negoziale su diversi sistemi-paese. In questo schema circolare, l’Unione Europea è vista come un grande progetto geopolitico a guida tedesca che impone di arginare qualsiasi «tentativo […] di far diventare la Germania una grande potenza eurasiatica, magari alleata della Repubblica Popolare Cinese» [p. 151]. In definitiva, due sembrano le chiavi di lettura confermate dall’azione trumpiana: il disconoscimento della “teoria liberale” – secondo la quale basterebbe coinvolgere le potenze rivali nei consessi multilaterali per farne interlocutori affidabili – e la fiducia nel controllo “da remoto” degli affari mondiali, quell’offshore balancing tanto caro alla scuola realista che ben si presterebbe a rimpinguare le risorse economiche americane in un contesto di recrudescenza della competizione globale, specialmente per quanto riguarda i disavanzi commerciali con l’Europa e la Cina[2].
In conclusione, il libro di Germano Dottori restituisce un’immagine di Donald Trump come risposta ad un malessere di cui il Presidente repubblicano rappresenta soltanto la personificazione più radicale: la paura del declino, di poter essere deposti dal primato mondiale – e, dunque, di veder ridimensionata anche l’american way of life. Vi è anche un’evidente critica all’approccio economicista alle relazioni internazionali, che tende a ricondurre le regolazioni dei conflitti politico-economici soltanto alla logica del trade-off. Per Dottori, Trump sta giocando una partita ben più ampia e che rientra nella logica strategica della geopolitica. In questo piano, il potere è sì contendibile, ma non è divisibile poiché in questa congiuntura è in gioco il primato mondiale degli Stati Uniti. In caso di non rielezione, questa necessità storica verrà ereditata dal suo successore, che adotterà un linguaggio probabilmente più sofisticato e smart ma senza discostarsi di molto dal nuovo paradigma della sicurezza nazionale americana. «Trump non è una deviazione da un percorso, un incidente della storia, ma il risultato di un processo che è iniziato immediatamente dopo la caduta del Muro di Berlino», chiosa Dottori, e queste tendenze al disimpiego proseguiranno poiché alla fine «lo esigono anche le necessità del duello ingaggiato con la Cina, che verrà presumibilmente deciso nello spazio e nel dominio delle alte tecnologie» [pp. 189, 190].
[1] Il riferimento è alla “teoria del domino” che per lunghi tratti della Guerra Fredda ha plasmato la mentalità degli analisti e dei policymakers. Per una sintesi si veda F. Ninkovich, Modernity and Power: A History of the Domino Theory in the Twentieth Century, Chicago-London, University of Chicago Press, 1994.
[2] Un tema, quello del restraint, che da tempo anima il dibattito accademico americano come dimostra l’ultimo libro di John J. Mearsheimer The Great Delusion (2018). Per una critica si veda Hal Brands, American Grand Strategy in the Age of Trump, Washington D.C., Brookings Institution Press, 2018.